Quando i cinquant’anni sono stati raggiunti e superati con la velocità del suono di una sirena arrabbiata, tre sono le possibilità che rimangono all’uomo che non vuole rimanere ad attendere l’impatto indifeso e inconsapevole: farsi l’amante, farsi una macchina rossa, scrivere un blog. Dato che mi state leggendo (davvero? Mi state davvero leggendo?) avete compreso che ho scartato le prime due ipotesi. E per scelta volontaria e creduta, non certo forzata.

Ma che cosa e perché scrivere? Condividere, o l’illusione di farlo, aiuta spesso a sentirsi in compagnia di fronte alla piccole battaglie della vita: quelle grandi, si sa, le si può affrontare solo in compagnia di se stessi, senza nessuno scudiero o cavaliere al proprio fianco.

La prima delle sfide e quella che affettuosamente potremmo definire di san Giuseppe, che di fatto nomino mio speciale e personale protettore confidando sulla sua ironia e bonomia. In che cosa consiste questa sindrome? Nel sentirsi ovviamente il più imperfetto della famiglia dovendone invece apparire la guida salda. Non che con questo voglia affidarmi a una melliflua umiltà fasulla, l’autocompiacimento di sentirsi negare la denigrazione e gustare così una vanitosa ricompensa per la propria maliziosa modestia. Affatto. Lauto compiacimento può derivare solo dalla concretezza. Non che non sia vanitoso, tutt’altro: la vanità è sempre in agguato, come ben sa il diavolo impersonato da Al Pacino nel mondo degli avvocati.
Gli è che essendo proprio vanitoso e anche intelligente, so bene che l’ambizioso deve attingere a piene mani all’umiltà: per crescere, ambizione che può essere anche nobile e saggia, bisogna capire dove migliorare. E per capirlo non c’è che l’umiltà.
L’ambizioso vanesio e superbo farà una brutta e rapida fine.

Quindi qui sto: con una moglie tendente alla perfezione, pur con difetti marginali che provocano in me tanto irritazioni quanto ammirazione per la loro trascurabile banalità; con tre figli che, come recitano brutti film, hanno preso maggiormente da me i difetti, e quindi non posso accusarli di una eredità che ho trasmesso loro; con un lavoro che amo e che ogni mese mi sfida sempre di più, aiutandomi a non fare mai mia la sicurezza.
Di che scrivere dunque?

Della precarietà, della inadeguatezza che mi rende comico a me stesso, specchio delle cose che ho appreso e che rivedo, con squarciante veridicità, nel mio quotidiano.

domenica 29 luglio 2012

Terrazza vista alba

Squadra vincente non si cambia
Post vincente neanche
Il video precedente ha riscosso molte visualizzazioni e ancora più affetto.
Per cui raddoppio: con millestorie e il mistero della terrazza, chi la rende così ricca.
Buona visione! 
E appuntamento alla XXI stagione e ai primi vent'anni della terrazza 1993-2013.



venerdì 27 luglio 2012

Str*** come sua madre


Scrosci di blog: replay


“Str*** come sua madre”: no, non è una offesa, anzi un sottile complimento. E non l’ho inventato io, ma Chiara e mia moglie insieme. Ed è diventata una frase liberatoria.
Ecco come è andata.
Ho bucato. No, non nel senso che anche io mi sono convertito alla lavatrice, ma in quello che ho forato una gomma. Anzi squarciata. Mezzogiorno di buco.
E lemme lemme me ne sono andato dal gommista. Sì perché per una serie di circostanze l’auto non ha la gomma di scorta.
Telefono alla figlia che doveva rientrare a casa per chiedere un passaggio. Escluso. Beh però magari mi potete portare di nuovo dal gommista quando devo andare a ritirarla nel pomeriggio.
Mah, vedremo. Mi dicono. Chiamo il figlio. Lui si rende disponibile. Più che pietà filiale credo solidarietà maschile.
Poi richiama mia moglie, che nel frattempo era insieme alla figlia.  Ridono. Mi dicono che hanno avuto una idea. Che siccome avevo espresso il desiderio di andare a correre, potrei unire l’utile al dilettevole e andare di corsa dal gommista. Ridono ancora.
E aggiungono che Chiara ha anticipato quello che sarebbe stato il mio commento : “Str*** come sua madre” appunto.
Che non è affatto vero. Ho riso anche io.
Ma da allora quella espressione è entrata nel lessico famigliare. Senza gli asterischi.
E ci è tornata in mente quella famosa mattina che ho accompagnato Letizia a Malpensa. Perché non appena messo le ruote sulla strada (integre e gonfie) ha iniziato a chiedermi perché facevo quel percorso e non un altro, e come mai avevo scelto quella opzione.
Che qui ci stava bene. L'epiteto intendo. 
E per la precisione la mia brillante e bella signora non merita affatto neanche l’ombra di simili appellativi, sia bene inteso, ma solo complimenti e affettuosi ringraziamenti.

martedì 24 luglio 2012

Scrosci di blog: il lavoro delle generazioni

Replay: a volte ritornano



E’ nelle radici stesse dell’Italia, questa speranza che i figli lavorino con i padri. Perché l’asse portante della nostra economia è stato questo: le aziende di famiglia. Che i padri hanno iniziato ai primi del Novecento o dopo la Seconda Guerra. E che oggi si stanno disgregando, non sotto i colpi delle varie crisi (ma vi rendete conto che nel nuovo radioso millennio abbiamo avuto più crisi globali di qualsivoglia natura che nei venti secoli precedenti?) ma dissolte dalla mancanza di educazione e di spirito di sacrificio. Che è meglio vendere ai cinesi e andare a fare la bella vita a Miami, magari per finire un giorno a rubar carrube ai porci e lamentarsi che non c’è neanche più un padre misericordioso ad attenderci sulla collina.
E così ci ho messo del mio: e avendo due figli maggiorenni e sopra i ventidue, desiderosi di imparare, ecco che ho trovato una strada alla mia speranza.
E da padre orgoglioso non posso che gioire della loro professionalità, limpidezza di sguardo e di intento. Come Andrea ai galà o Chiara ai focus group, prima occasione per presentarsi ufficialmente come dottoressa Pugni, psicologa.
E queste sono le rose, le spine le teniamo per noi, perché avere un blog non vuol dire stendere fuori tutti i panni, anche quelli un po’ sporchi.
Quello che cogli è che il filo del lavoro lega in profondità, ti costringe ad uscire da logiche solo superficiali, per calibrare, per intessere, per spiegare. E allora capisco come in passato si sia cercata questa strada come strumento per rinsaldare le famiglie, per consolidare i rapporti. L’artigiano che portava in bottega il figlio, il contadino nei campi, l’imprenditore in fabbrica. Persino il papà dei cuccioli di Mary Poppins, su invito della supertata, li conduce in banca e da lì inizia il cambiamento.
Non mi stupisce che uno dei consigli più ripetuti ai padri, per alimentare la relazione con i figli adolescenti, sia quello di coinvolgerli nel loro lavoro, nel modo possibile si intende.
Ciò che vedo è una grazia crescente, che avrà occasione di moltiplicarsi nei prossimi mesi.
Vi tendo aggiornati. Se interessa è ovvio.

domenica 22 luglio 2012

Terrazza vista tramonto

Un video dalla Terrazza Pugni
Una storia, un sogno....
un tramonto?

Con il 50enne in persona!

Meno di 5 minuti per scoprire una storia vera. Con una appendice.







In realtà poi siccome Dio è buono e c'è la provvidenza, all'ultima occasione -martedì 17- è venuta fuori una serata davvero preziosa e ricca, con 12 persone (dodici grandi persone), molto affetto, una grande lezione di fede e speranza, e umanità, che.... ma questa è un'altra storia che vi racconterò la prossima volta.... 
Se ne volete un anticipo fato un salto qui sul blog di Costanza.
Un personale ringraziamento a tutti gli amici che in questi vent'anni hanno reso la terrazza così ricca di fascino e di amicizia e ci hanno donato aneddoti che è bello raccontare. Un'altra volta.

venerdì 20 luglio 2012

La caccia al pantalone


Il solito siparietto nella missione alla ricerca di un paio di pantaloni nei saldi. Perché è inutile che mentiate, che “guardati allo specchio se ti piaci”, che “sei tu che devi metterli”, alla fine scegliete voi, siete voi signore lo specchio nel quale guardarci quando proviamo un vestito o delle braghe.
Il vostro viso dice tutto, quando non siete addirittura più esplicite, come la moglie del coetaneo che nel camerino accanto si sente apostrofare: “no, proprio non ci siamo, inutile che dici il contrario, non vanno bene”.
E le camice? “quel colore ce l’hai già” “questo? Noooo troppo da vecchio! Troppo da giovane! Troppo sportivo! Troppo da playboy… eh c’avrai mica delle idee strane eh?!”.
Che uno ci prova anche ad andare da solo e in un battibaleno comperare un paio di scarpe magari senza neanche provarle, ma poi quando torna a casa… eh… lo sappiamo tutti…
Allora se così è, e così deve essere, non abbandonateci inermi nel camerino, una mano a reggere la gruccia, l’altra tesa nel trattenere la tenda e lo sguardo perso alla vostra ricerca, che sì, dite, mi sono allontanata un attimo per cercare una alternativa, una chance in più…
Ma quale caccia al pantalone! Quale ricerca delle alternative!
Ti sei allontanata perché non riesci a trattenere lo spirito della cercatrice preistorica che vive in te e che ti spinge a vedere, toccare, curiosare, immaginare….
Come quando facciamo la spesa insieme –esperienza alla quale si sottomettono le coppie immature prima di rendersi conto che si fanno solo del male e decidono di separare i percorsi di acquisto per beni primari di sopravvivenza- e io ti dico “aspettami qui” che non è come tu mi dici “aspettami qui” e io non mi muovo dal cerchio immaginario del raggio di 30 cm che mi sono cucito intorno no; tu invece vai nella città vicina a vedere qualche cosa che ti ha incuriosito…. Questa è la vostra natura donne…
E noi, lì, solo e derelitti…
Sarà mica il caso di fare una campagna su FB con foto di desolati uomini in mutande legati all’attaccapanni dentro essenziali camerini con grandi scritte in bella evidenza: “non abbandonarmi! Aiutami!”

mercoledì 18 luglio 2012

Di coupon e ristoranti


L’animo nostro non può più rimanere sordo agli accorati e sofferti appelli che da ogni dove del mondo ci giungono incessanti.
Per quanto possa essere altero e impegnato lo spirto nostro non può più non porgere orecchio a questa interminabile sequenza di petizioni che supplica e prega e chiede e spera e sospira.
Quand’anche il rigore e la tempra servissero a forgiare il carattere, pur dunque esiste un limite che non va valicato invano.
Per cui, abbiamo deciso e deliberato di accondiscendere a questa invocazione e venendo incontro con generosità al pianto delle genti, asciugando le lagrime con secca misericordia, stilare un elenco di ristoranti che possiamo consigliare…dopo circa un anno di esperienze con Groupon e i suoi fratelli.

Intanto qualche consiglio tecnico per l’uso dei buoni:

a)   servizi di Youppit  l’aggregatore di deal: in una pagina sola ogni mattina tutte le offerte del giorno
b)   diffidare grandemente da bar e caffè che vi rifilano a sedicenti prezzi da supersconto il pranzettino dell’impegato medio cotto al microonde e servito su tavoli dimensione francobollo (provato anche questo)
c)    fare molta attenzione alle condizioni: non tanto la data di scadenza, ma quello che è compreso e quello che no. Diffidare ad esempio da “bevande non comprese”, perché poi potete pagare una bottiglia di vino 55 € (nel caso sia il vino non compreso, andate ad acqua….)
d)   esigere quello che è stato promesso: siccome in genere vi ritirano il buono all’ingresso, abbiatene con voi una copia e pretenete il rispetto degli accordi: se è “all you can eat”… beh chiede ad libitum, se è compreso non si paga.

Ciò detto ecco la nostra classifica, attenzione ai prezzi reali se non andate con un coupon: controllate prima!

Al primo posto senza ombra di dubbio due locali che hanno colto tra l’altro esattamente lo spirito del deal, dando con grande cortesia a simpatia tutto il meglio. 
Si mangia bene, si sta bene, la gente è deliziosa.
Sa.Ba e tu in via Tortona, attenzione al parcheggio: ottima cucina, semplice e abbondante a un prezzo (ci sembra di aver visto) abbordabile.
Brand largo Zandonai in zona Fiera/Vercelli ristorante di pesce, accoglienza squisita cibo eccellente. Parcheggio facile.

Poi a seguire
La pobbia grande locale in zona piazza Kennedy. Decisamente caruccio se non abbordato con un coupon, servizio impeccabile, veri signori, una grande classe. 
Per una cucina romana a Milano molto buono
Cacio e pepe in zona porta Ticinese, dove mi sono divorato una coda alla vaccinara da urlo… molto rumoroso, servizio adeguato, cibo molto buono.
Il boccino  anche questo caruccio, decisamente. Carne molto buona, ristorante con pretese, devo dire rispettate, e ambiente silenzioso ed elegante.
Molto più semplice, ma sincero e gradevole Marina ristorante pizzeria in via Villoresi zona Naviglio Piazza Napoli. Si magia bene, sono molto gentili e accurati, l’ambiente è popolare.  
Infine in centro al Carrobio
3café ristorante argentino tagliata, grigliata, costata e molto di più. Il servizio è stato un po’ ingenuo, ma non trascurato.

Vi teniamo al corrente delle prossime esplorazioni che meritano…

domenica 15 luglio 2012

Il linguaggio dei gesti di servizio

"Se una signora della mia età torna a casa e trova i piatti lavati, asciugati e riposti, la spazzatura buttata, il tavolo in ordine, i panni stesi, quelli stirati negli armadi, il divano a posto, nessun piatto o bicchiere in sala abbandonato... magari si stupisce, ma si sente amata.
Se torna a casa e non trova nulla di questo e poi dopo di lei torna a casa il marito con un enorme mazzo di rose, pensa "adesso mi devo occupare anche dei fiori!"".


Franca Malagò 



Ecco, questo è il modo con cui mia moglie ha introdotto il linguaggio dei gesti di servizio ad un corso in cui interveniva come relatrice. E poi me l’ha raccontato. E già gatta ci cova. Forse faceva meglio a raccontarlo ai figli. Ciò detto è un bel esame di coscienza.

Per lei. E per voi.

Perché vuol dire che l’insoddisfazione è ereditaria: da Eva in giù. È il nostro castigo al peccato originale –non è vero che sia il lavoro: e quando mai? Molto molto meglio lavorare, molto più facile che cercare di comprendere una donna…- perché provate ad essere oneste una volta, per soli pochi istanti, il tempo di leggere questi post. Poi facciamo finta che non sia successo, che non abbiate sorriso o addirittura riso dicendo “è vero”, ecco. Resta un segreto.

Che cosa?

Che quando anche ci proviamo, così colti da un atto di entusiastica generosità, da un afflato d’amore che ci scuote dal torpore, che ci strappa al telecomando, che ci insuffla un vigore giovanile, apparecchiamo la tavola, spazziamo il pavimento, laviamo quello della cucina, rifacciamo il letto, facciamo la spesa, sprimacciamo i cuscini… che cosa ci riservate?

Un sorriso? Un abbraccio? Un bacio con tuffo?

O non per caso un tagliente “ma ti sembra questo il modo di farlo?” “così credi che sia pulito questo pavimento?” “e perché hai comperato questo che non è buono?”.

Confessate, non negate, confessate!

Infatti, l’altra sera, è stato solo per una deprecabile debolezza, un attimo di smarrimento, chessò il caldo, la stanchezza, fors’anche una struggente malinconia, una frullar d’ali nell’animo, una distrazione –la figlia che sorrideva, il pianto della neonata dalla casa vicina, il profumo del melone- insomma per uno di quei colpi che partono inavvertitamente senza che te lo aspetti, mia moglie ha detto con convinzione: “hai scelto proprio l’ananas giusto”.
E subito, accortasi dello sbaglio, è piombata nel terrore che mi venisse voglia di comperare anche altra frutta senza seguire le sue precise indicazioni.

venerdì 13 luglio 2012

Le onde del destino


Arrivano a ondate: concentriche e violente. Non capisco bene. Mentre meno te le aspetti. Salgono su e t’arrivano subito al cervello. Passando dal corpo. Sempre le stesse. Nel medesimo ordine. Che sembrerebbe facile dominarle.
Ma da solo è difficile.
Prima la sensualità, che le immagini te le spara con voluttuosa velocità, un’arroganza lieve, quasi decadente, avvolta di delicata indulgenza: ma sì che non c’è nulla di male! Lasciati andare, comincia a pensare e poi, chissà mai, arriverà l’occasione: la battura, la parola lasciata scivolare… E tenere le redini diventa eroico.
Ci vuole cercare con lo sguardo la Madonna per chiedere aiuto, e preghiere, e suppliche e allora il cuore un po’ s’acquieta e domina e rigetta.
Allora arriva la rabbia, il rancore: sempre le stesse facce, quelli che t’hanno fregato, tradito, truffato e tutti e tre insieme, insultato e deriso e allora la mano si alza, si arma e ti vedi già lì non a colpire, ma ad esercitare giustizia e questa è la tentazione peggiore, fingere a te stesso.
E quando, con l’aiuto di Lei, resisti e superi allora ecco la tentazione finale: ma come sono stato bravo, eh sì, io sì, io che sono bravo, io che merito… come diceva quel diavolo di un avvocato con la faccia dl Al Pacino: la vanità è il mio peccato preferito.
Arrivano ad ondate, sempre uguali, sempre le stesse, con sconcertante monotonia, il che dovrebbe renderle più semplici da affrontare, queste tempeste dell’anima, che sembrano sempre più violente, che non abbiamo ancora resistito fino al sangue, e hanno sempre la medesima faccia.
Arrivano ad ondate alte come tsunami. Per questo per sopravvivere devo salire sulla barca. Di Pietro. 

martedì 10 luglio 2012

Il gorgo della solitudine: un canto a tre voci




C’è una solitudine da fare paura in giro: spinge la gente a credersi il centro del mondo. Generando un gorgo che si spalanca ed ingigantisce sempre più: perché l'affermazione di sé produce buio, un'oscurità che nega e cancella.

Ma è nato prima l’uovo o la gallina?

Mi spiego meglio: noto un crescente bisogno di sentirsi importanti per qualcuno, avere qualcuno insomma che si prenda cura di te, ti ascolti, ti dedichi tempo. Una solitudine acida e implosa che ha radici nella negazione di una verità che ci sovrasti.

E siccome non riusciamo a farlo nella vita, riversiamo questo bisogno sulla rete, dove possiamo sperare di trovare un abbraccio che ci faccia almeno sognare.

Ne deriva una viziata sovralimentazione di aspettative che, se alimentata da un ego distorto e ripiegato, alla fine fa presupporre che ogni commento, ogni battuta, ogni tweet o post che sia, siano indirizzati personalmente a te, in qualche modo ti parlino e che tutti, specie la persona che hai preso di mira, siano lì ad ascoltare, a curarsi di te, a riferissi a te.

È una patologia, ben nota in psichiatria, una sorta di stalking al contrario. Noto che ora sta dilagando con effetti inquietanti.
Certo: ne siamo tutti un po’ affetti… primero yo! che cerco sempre il colpo a effetto, l’applauso, lo squillo.

Ecco, mi chiedo se questo narcisismo disperato, nelle sue tendenze più ampie –che non va confuso con quella confidenza che, seppur distante, può nascere in rete con reciproco sostegno senza influenze sulla vita reale ma che rassicura e aiuta e produce frutti positivi e duraturi- non nasca e riproduca un comportamento schizoide della vita vera, di persona con nome e cognome, non via nickname. 

Che certi atteggiamenti, quella voglia di risucchiare le persone nel proprio mondo affamati di un affetto che non sazia mai, e che si inquina sempre per questa insanabile ferita, non sia proprio la causa della solitudine che poi si cerca di riempire in rete.

Conoscevo bene, molto bene, una persona che era affetta da questo verme solitario della relazione: mai contenta, si proclamava sensibile solo per nascondere, dietro un apparente attenzione per gli altri, una divorante necessità di dilatare il proprio ego e dominare il mondo. E questo la confinava in una solitudine sempre più ampia e ruvida dalla quale cercava di divincolarsi comperando affetto da chiunque le passava a tiro. Con effetti devastanti per lei e per chi le stava vicino. 
Per poi finire, come per una mano pietosa del destino, a spegnersi proprio accanto a coloro che aveva respinto come insufficienti e sottrattori del suo bene più prezioso.

Così vedo attecchire questo egoismo rancoroso, che tutto riferisce a sé e tutto divora, come un buco nero, che sottrae luce mentre vorrebbe emanarne. E se anche solo ti sfiorano, ti lasciano come una striatura bruciata sulla pelle, e un dolore che ti costringe a riflettere sulle tue colpe, perché ne ho eccome se ne ho.

Ah, quella persona? Quella che conoscevo bene?
La chiamavo mamma.

Un commento di Raffaella Cagnazzo giornalista

Io non vedo la solitudine come una vera e propria malattia (o almeno non per tutti così grave come la descrivi tu) più che altro un malessere.
Non è narcisismo, secondo me... non è arroganza, ma umiltà e incertezza  E non credo nemmeno sia patologica al livello di "comprarsi l'affetto" e diventare egoismo. 
Vedo invece il problema della società odierna come una mancanza di tempi e modi per confrontarsi e condividere..... 

Ed uno di Barbara Puccio
Talvolta la solitudine ha la capacità di deviare mentalmente e di accrescere smisuratamente il proprio ego, proprio perché si è soli e si tende ad accentrare tutto su di sé, a scapito di una sana relazione e confronto. E uno dei segnali più forti è il narcisismo ad oltranza, senza rispetto per gli altri

Noto sempre di più, e non solo in rete, che la capacità di sostenere una conversazione strutturata con pensieri e argomenti approfonditi vada scemando sempre di più.
Questo perché, secondo il mio modesto parere, discutiamo con noi stessi e non con gli altri.

Le affermazioni o i pensieri che si pubblicano in rete (specialmente in Facebook) sono un libero sfogo della nostra coscienza e non ci curiamo molto degli effetti che possono produrre in altri. 

Sai che cosa succede sempre di più? Abbiamo dimenticato di ascoltarci. E quindi la propensione ad ascoltare gli altri.
Un sano confronto prevede un feedback basato sull'ascolto. Di sé e degli altri. Quindi essere ricettivi, ascoltare i pareri senza interrompere, seguire un flusso logico , ma anche intuitivo del discorso o della conversazione che portiamo avanti. 
Stare in fase di ascolto e di accoglienza aiuta noi stessi e gli altri a non sentirci al centro del mondo o, peggio, sempre al centro dell'attenzione di ogni nostro interlocutore.

Essere e divenire ottimi ascoltatori presuppone anche l'abilità di trasformarci in esploratori di mondi possibili, accogliendo volentieri i i paradossi del pensiero e della comunicazione.

domenica 8 luglio 2012

Trascinare nell'abisso


La vita definisce ciò che vogliamo sia vero. E buono.
Riprendo quello che avevo scritto qualche post fa per approfondire.
Viviamo in un mondo imprigionato dal soggettivismo, da quella patologia della verità che sposta il baricentro dal reale al percepito e lo incatena all’esperienza soggettiva, che tutti riconoscono cattiva maestra tranne quando parla per noi e sembra segnare il confine tra bene –tutto ciò che facciamo- e male –ciò che ci dà fastidio degli altri.
L’uomo detesta il male e per compierlo si illude che sia bene: per questo odia il giusto, perché non fa sconti, innanzitutto a se stesso ma poi, per la proprietà transitiva, neppure agli altri. Meglio dunque tendergli insidie.
Te ne rendi conto sempre di più. Traspare dai post dei social media, dalle battute sul tram, dalle occhiate alla macchinetta del caffè: per pretenderci buoni sempre siamo costretti ad essere sempre più lupi per gli altri uomini, perché questa rincorsa ad essere dei, capaci di definire cosa sia il bene –e quindi cosa sia il male- senza bisogno di oggettività,  questa ribellione che ci spinge ad affermare che non abbiamo bisogno di un Padre comune, lungi da renderci più fratelli chi costringe, per natura, per la legge della causalità, ad essere feroci predatori delle vite altrui, giudici crudeli e parziali, boia implacabili e sadici.
La tolleranza è una illusione e la convivenza di idee diverse una manipolazione della ragione, prima ancore che delle coscienze.
Ma la violenza con cui mi ci sono scontrato con la miseria umana, quella che induce e impone misericordia, mi ha destato la voglia di scrivere. Che quando rilanci un decalogo che suggerisce come rendere quotidiano e concreto l’amore, ecco che svegli la bestia in chi non è riuscito a viverlo e che si sente bruciare dentro.
E la valanga di insulti e pretese, che un amore pulito, reciproco, felice, che unisca un uomo ed una donna in una vita senza fine di reciproco servizio e soddisfazione non può esistere per definizione, mostra solo la fragilità di una vita devastata. Ti scrive che sei cattivo e maligno a far balenare la possibilità che un amore dolce esista, perché induci a false aspettative che genereranno solo disperazione, che –lei lo sa bene- l’amore è solo finzione, non è realtà. Non è nemmeno possibilità. E il tono si inasprisce, sale, diventa urlo, violenza, ingiuria.
Perché incapaci di immaginare una realtà che ci sovrasti, non riusciamo più a chiedere scusa nemmeno a noi stessi, negandoci la possibilità di errore o anche solo di sfortuna. E per sentirci uguali a tutti preferiamo trascinare tutto giù, nell’abisso, invece che cercare quella luce che ci dimostra diversi, ma tutti ugualmente amati.

venerdì 6 luglio 2012

Mia moglie e Ferruccio


Mia moglie ha una relazione con Ferruccio de Bortoli centrata sul peccato.
Epistolare si intende e sui peccati del CorSera -non di altra natura!- che con sorprendente costanza si diverte a stigmatizzare in puntigliose mail al direttore. E fa bene. Perché dimostra come il giornalismo sia ormai uno strumento politico. Del tutto scollegato dalla realtà e del suo scopo primo che è informare.
Prendiamo due casi, di quelli che la mia signora ha provveduto tempestivamente a portare a conoscenza del direttorone, ottenendone –in modo sorprendente- una serie di mail di scuse, intense però purtroppo non come richieste di perdono, quanto come ridicole giustificazioni.
In occasione di un recente concerto a Milano la prima pagina del Corriere Milanese del 15 maggio descriveva una piazza del Duomo colma di circa 100.000 spettatori ("In 100mila (e più) ieri sera in piazza Duomo per assistere al maxi concerto...."), mentre sulle pagine degli spettacoli nazionali spariva più della metà degli assiepati: "In 40 mila a Milano per la Festa di Radio Italia".

Poco meno di un mese dopo, per l’edizione bis delle elezioni greche ecco una bella figura che presenta la composizione del nuovo parlamento confrontata con quella precedente, solo che la somma delle percentuali che descrivono la nuova suddivisione dei seggi arriva appena oltre l’81%. E l’altro 19%?
Patetiche le giustificazioni addotte, che vi risparmio perché ho troppa stima nei lettori, resta l’amaro in bocca, peggio che per i velenosi e maligni aforismi di un alfiocaruso palesemente manipolatorio e politicamente acidulo: se l’accuratezza nella verifica delle fonti è questa, quante altre notizie false e tendenziose ci vengono propinate quotidianamente, almeno in modo penosamente superficiale quando non addirittura in cattiva fede?
E dovrei farmi una idea leggendo i giornali?

mercoledì 4 luglio 2012

4 luglio da celebrare

Tanto per celebrare
4 luglio 2006











e per non farci mancare nulla














1970 (qui il link con la versione Ameri)






lunedì 2 luglio 2012

La forza delle domande



Credo nella potenza delle domande: abbiamo invece rinunciato alla loro forza sedotti dalla mollezza delle affermazioni.
Viviamo in un mondo imprigionato dal soggettivismo, da quella patologia della verità che sposta il baricentro dal reale al percepito e lo incatena all’esperienza soggettiva, che tutti riconoscono cattiva maestra tranne quando parla per noi e sembra segnare il confine tra bene –tutto ciò che facciamo- e male –ciò che ci dà fastidio degli altri.
L’uomo detesta il male e per compierlo si illude che sia bene: per questo odia il giusto, perché non fa sconti, innanzitutto a se stesso ma poi, per la proprietà transitiva, neppure agli altri. Meglio dunque tendergli insidie.
Ma di questo parleremo un’altra volta, perché adesso vorrei soffermarmi sulla trascinante carica dell’arte di domandare. Che coinvolge invece di aggredire. Prendiamo un esempio: per un errore –o scelta- partono 6 messaggi in un giorno da check in di foursquare che twittano e facebookano dove sono. Ti dà fastidio –perché poi? Ma va bene lo stesso- e ti senti in dovere di dirmelo: così mi scrivi. E mi dici che non capisci per quale ragione dovresti essere interessato a sapere dove sono ogni pochi minuti.
Che reazione produci in me?
a)   intanto non è ogni minuto, ma sei volte in 24 ore: fatti due conti!
b)   poi, se non ti va bene, non ha che da abbandonarmi: non ti obbliga nessuno a seguirmi
c)    chi ti ha eletto maestro delle mie decisioni e delle mie scelte?
d)   Sei l’unico a stigmatizzarlo su circa 7000 contatti: l’unico coraggioso –sono tutti pavidi- o l’unico rompicoglioni?
Ecco, guarda un po’ cosa sarebbe successo se invece di fare affermazioni gravide di irritazioni avessi chessò chiesto: ti sei accorto che sono apparse sei check in in meno di 24 ore? È una tua –legittima- scelta o un errore di impostazione?
Molto diverso come approccio: la domanda ammorbidisce, penetra, costringe a riflettere, ingentilisce, stimola. È gentile e pungente. Non aggredisce.
Ma è difficile. 


Per due grandi ragioni.

La prima è che richiede uno sforzo di pensiero, impone ascolto e riflessione per essere formulata nel modo più sagace e rispettoso possibile.

La seconda è che richiede umiltà, e volontà: sapersi mettere in secondo piano per cercare insieme la verità, che non è detto sia la mia.