Quando i cinquant’anni sono stati raggiunti e superati con la velocità del suono di una sirena arrabbiata, tre sono le possibilità che rimangono all’uomo che non vuole rimanere ad attendere l’impatto indifeso e inconsapevole: farsi l’amante, farsi una macchina rossa, scrivere un blog. Dato che mi state leggendo (davvero? Mi state davvero leggendo?) avete compreso che ho scartato le prime due ipotesi. E per scelta volontaria e creduta, non certo forzata.

Ma che cosa e perché scrivere? Condividere, o l’illusione di farlo, aiuta spesso a sentirsi in compagnia di fronte alla piccole battaglie della vita: quelle grandi, si sa, le si può affrontare solo in compagnia di se stessi, senza nessuno scudiero o cavaliere al proprio fianco.

La prima delle sfide e quella che affettuosamente potremmo definire di san Giuseppe, che di fatto nomino mio speciale e personale protettore confidando sulla sua ironia e bonomia. In che cosa consiste questa sindrome? Nel sentirsi ovviamente il più imperfetto della famiglia dovendone invece apparire la guida salda. Non che con questo voglia affidarmi a una melliflua umiltà fasulla, l’autocompiacimento di sentirsi negare la denigrazione e gustare così una vanitosa ricompensa per la propria maliziosa modestia. Affatto. Lauto compiacimento può derivare solo dalla concretezza. Non che non sia vanitoso, tutt’altro: la vanità è sempre in agguato, come ben sa il diavolo impersonato da Al Pacino nel mondo degli avvocati.
Gli è che essendo proprio vanitoso e anche intelligente, so bene che l’ambizioso deve attingere a piene mani all’umiltà: per crescere, ambizione che può essere anche nobile e saggia, bisogna capire dove migliorare. E per capirlo non c’è che l’umiltà.
L’ambizioso vanesio e superbo farà una brutta e rapida fine.

Quindi qui sto: con una moglie tendente alla perfezione, pur con difetti marginali che provocano in me tanto irritazioni quanto ammirazione per la loro trascurabile banalità; con tre figli che, come recitano brutti film, hanno preso maggiormente da me i difetti, e quindi non posso accusarli di una eredità che ho trasmesso loro; con un lavoro che amo e che ogni mese mi sfida sempre di più, aiutandomi a non fare mai mia la sicurezza.
Di che scrivere dunque?

Della precarietà, della inadeguatezza che mi rende comico a me stesso, specchio delle cose che ho appreso e che rivedo, con squarciante veridicità, nel mio quotidiano.

lunedì 2 giugno 2014

Il matrimonio di una figlia: the day after





Le lanterne salivano verso le nuvole, e ad un certo punto mi sono apparse disposte come l’Orsa Maggiore e allora ho capito che lì tutto finiva e tutto ricominciava.
Era quasi notte. Franca ed io guardavamo dalla terrazza gli amici degli sposi che sul pratone davanti casa li festeggiavano: dopo aver sparato fuochi d’artificio che avevano indotto tutte le case ad affacciarsi e a gridare “viva gli sposi” il congedo è stato affidato a queste luci volanti, che si sono alzate lentamente verso l’alto, rincorrendosi, aspettandosi, spalmate prima a raggiera e poi come a giocare con chi non riusciva a staccare lo sguardo, hanno iniziato ad assumere forme diverse, spegnendo man mano le dimensioni senza mai estinguere la loro luce, che si faceva solo più minuta e forte.
Finché, un attimo prima di nascondersi alla nostro vista, c’hanno salutato  dipingendo la costellazione più famosa solo per noi, sotto le nuvole, come saluto.
E lì ho capito. Che non era un gioco. Un bel gioco. Che la vita sarebbe stata diversa.
Come un solco secco sulla spiaggia, come il mare che lo attraversa ma è diverso.
Perché questa è la vita. Solo che te ne dimentichi. Non so se lo fai per difenderti, perché portare il carico emotivo di tutto è troppo, in tutti i sensi: troppa gioia e troppo dolore, troppo pesante e troppo leggero, troppo profondo e troppo lieve.
Troppo.
Perché anche io l’ho presa e portata via la loro bambina, per farne mia moglie. E quella sera che ci siamo trovati soli a casa nostra, e allora era veramente nostra non come dicevamo prima, arredandola e sostando gli oggetti, abbiamo solo pensato alla vita che veniva.
E adesso che invece sono nell’altra casa, quella dove la stanza della figlia resta vuota, resta immobile e muta, vorrei pensare al passato.
Sarei codardo e ingiusto, sarei crudele e egoista. Per cui per una volta è la ragione che sommerge le emozioni, che ci sono, ruggiscono, ma dentro la gabbia, sovrastate da una fermezza che non mi conoscevo, e che ho allevato in seno senza neanche esserne consapevole e dietro la quale oggi mi rifugio, mi nascondo.
L’auguro a tutti di provare una gioia così, perché spezza le vene delle mani, mescola il sangue con il sudore. E te ne rimane di sorriso da calare, come un poker servito, come una ferita che ti restituisce la vita. Perché non sottrae mai, piuttosto arricchisce. Ti fa scoprire cose che non conoscevi, così io figlio unico ho capito solo adesso che cosa è l’amore dei fratelli, ed è di una felicità che sbalordisce e intimorisce, perché è così grande che non la puoi capire, solo intuire.  Resta solo da scuotere la cenere dal cuore, perché quella c’è sempre, è l’egoismo che impregna ogni cellula che bruciando la lascia depositarsi e va tolta subito perché non intorpidisca e ricacci nella nebbia.

Per fortuna non sono solo in questo compito.