Quando i cinquant’anni sono stati raggiunti e superati con la velocità del suono di una sirena arrabbiata, tre sono le possibilità che rimangono all’uomo che non vuole rimanere ad attendere l’impatto indifeso e inconsapevole: farsi l’amante, farsi una macchina rossa, scrivere un blog. Dato che mi state leggendo (davvero? Mi state davvero leggendo?) avete compreso che ho scartato le prime due ipotesi. E per scelta volontaria e creduta, non certo forzata.

Ma che cosa e perché scrivere? Condividere, o l’illusione di farlo, aiuta spesso a sentirsi in compagnia di fronte alla piccole battaglie della vita: quelle grandi, si sa, le si può affrontare solo in compagnia di se stessi, senza nessuno scudiero o cavaliere al proprio fianco.

La prima delle sfide e quella che affettuosamente potremmo definire di san Giuseppe, che di fatto nomino mio speciale e personale protettore confidando sulla sua ironia e bonomia. In che cosa consiste questa sindrome? Nel sentirsi ovviamente il più imperfetto della famiglia dovendone invece apparire la guida salda. Non che con questo voglia affidarmi a una melliflua umiltà fasulla, l’autocompiacimento di sentirsi negare la denigrazione e gustare così una vanitosa ricompensa per la propria maliziosa modestia. Affatto. Lauto compiacimento può derivare solo dalla concretezza. Non che non sia vanitoso, tutt’altro: la vanità è sempre in agguato, come ben sa il diavolo impersonato da Al Pacino nel mondo degli avvocati.
Gli è che essendo proprio vanitoso e anche intelligente, so bene che l’ambizioso deve attingere a piene mani all’umiltà: per crescere, ambizione che può essere anche nobile e saggia, bisogna capire dove migliorare. E per capirlo non c’è che l’umiltà.
L’ambizioso vanesio e superbo farà una brutta e rapida fine.

Quindi qui sto: con una moglie tendente alla perfezione, pur con difetti marginali che provocano in me tanto irritazioni quanto ammirazione per la loro trascurabile banalità; con tre figli che, come recitano brutti film, hanno preso maggiormente da me i difetti, e quindi non posso accusarli di una eredità che ho trasmesso loro; con un lavoro che amo e che ogni mese mi sfida sempre di più, aiutandomi a non fare mai mia la sicurezza.
Di che scrivere dunque?

Della precarietà, della inadeguatezza che mi rende comico a me stesso, specchio delle cose che ho appreso e che rivedo, con squarciante veridicità, nel mio quotidiano.

lunedì 30 marzo 2015

Lungo la lama della spada: contro l'emotivismo





apparso su LaCroce Quotidiano di sabato 28 marzo

Capisco che sia difficile, capisco anche che richieda discernimento, ho però il timore che troppo spesso sia un modo per propalare i falsi miti del progresso.
Quello di voler confondere a tutti i costi peccato e peccatore, brandendo l’ascia della carità, la quale è essenziale senza dubbio, ma è tale e non si confonde con il buonismo, solo se è affiancata alla verità.
Come ho più volte scritto, i falsi miti, vale a dire la manipolazione della realtà e della natura umana, hanno bisogno di un forte coinvolgimento emotivo, il modo migliore per distrarre fino a spegnere la ragione e poter così diffondere tutto quello che solletica emozioni ed istinti, le due strade principali verso la follia e l’egoismo.
Sì perché anche un sentimentalismo slavato è di fatto una forma sottilissima di egoismo, come Berlicche spiegherebbe raffinatamente. Certi sguardi teneri verso gli agnellini o per una pseudo-famiglia che ha appena comperato un figlio, si tramutano in occhiate cariche di odio e di violenza non appena questi sentimenti sono contrastati da chi, in nome della ragione, ne distrugge il pathos superficiale.
Ci piace sentirci buoni, e la commozione è la strada diretta per sentir battere il cuore, solo che senza una guida efficace il cuore non ti porta dove devi andare, ma dove ti vogliono condurre.
Ci sono cuori che battono forte per gli animali e si impietriscono di fronte all’aborto: mi rendo conto che è un luogo comune, ma appunto, è un sentire comune. Non solo, sia chiaro, in nessun modo voglio affermare che l’amore per gli animali implichi o imponga o corrisponda a scelte contro la vita, dico solo che capita di vedere questo bipolarismo inspiegabile se non  con questa scissione imposta dell’emotivismo caritatevole.
Che tanta gente sembra ribadire coi fatti la famosa battuta, acida e sagace, della Lucy di Charles M. Schulz: “amo l'umanità è la gente che non sopporto”.

Ci piace sentirci buoni perché questo solletica il nostro egoismo, la nostra voglia di protagonismo, l’essere al centro dei riflettori. Ci piace avere audience e per farlo dobbiamo gridare quello che le persone vogliono sentirsi dire, è che raramente è la verità. Il che chiude un cerchio che in realtà è una spirale che ci sprofonda nel baratro.

L’emotivismo spegne i riflettori della verità e pretende che tutto ciò che solletica il sentimento sia buono in sé: “vedi come si vogliono bene”, esclamano ad esempio di una coppia di fedifraghi che ha tradito –sì, questa è la parola esatta: le parole contano!- i rispettivi coniugi per riscoprire una tardiva passione. “Vedi come sono contenti” impazza il web con la foto dei due padri che piangono strappando dal ventre di una schiava moderna il figlio appena nato.
“Vedi come è buono” il genitore che accontenta ogni capriccio e dà al figlio quello che vuole invece di ciò che gli serve.

Si combatte per una pianta, per gli agnellini, per il matrimonio a tre: tutto sullo slancio di una sensibilità drogata, alimentata da un buonismo che è acido e tagliente, ma che viene preso per amore per il mondo.

In realtà chi ama vuole il bene dell’amato, non la sua soddisfazione. Non gli importa che in questo preciso momento entrambi si soffra –perché #sallo correggere l’errore costa, fa perdere popolarità, genera ruvidità, spigoli contro spigoli, non lo fai se non sei veramente convinto che sia bene- purché entrambi si faccia un passo avanti verso il bene e il bene condiviso.
Invece per poter assecondare i falsi miti del progresso, quello che ci porterebbe ad un mondo tutto rose e fiori dove ognuno ama e sta bene, bisogna che questi momenti di verità vengano annebbiati, ridotti, cancellati.
Non si può distinguere peccato da peccatore perché oggi io sono quello che faccio e se dici che quella cosa lì è sbagliata ce l’hai con me e mi odi e mi vuoi cancellare. Che in realtà è esattamente l’atteggiamento di chi si fa alfiere dei falsi miti, dato che sono Charlie solo per chi la pensa come loro, per il resto sono Caterpillar: tutto deve essere distrutto con ogni mezzo. Lo sanno bene le Sentinelle ad esempio come lo sanno bene i nostri quattro moschettieri.

Additare la verità è un dovere, guai a me se non insegnassi la verità, se non indicassi quale sia il vero bene, non quello posticcio, quello istantaneo che lascia in bocca miele e fiele e che non soddisfa mai proprio come il peccato (sarà mica che sono la stessa cosa?).

Quando lo fai si alzano gli scudi –altro che le spade sguaiate per il verde del prato che ormai come ha scritto la Principessa Belletti sarebbe ora di sguainare le spade  impedire di dire che si sguainano le spade per affermare che l’erba sia verde- e ti assalgono a colpi di Vangelo, di carità fraintese, di gesti di Gesù non detti.
Come chi afferma che Gesù nel Vangelo si sia arrabbiato solo due volte: ora è vero che quando scaccia i mercanti dal tempio  si dice espressamente che fece un gran macello, ma non mi pare che molte affermazioni da Lui fatte siano da immaginare dette con un sorriso ironico o pacato….
Perché è facile rinfacciare questa roba qui: che voi che siete cattolici dovete amare tutti e come vi permettete di combattere battaglie, amate e state zitti
Basta vedere i commenti ai lanci mattutini del direttore su Facebook per capire come questo malinteso sia così frequente da apparire sospetto.

Questo non è essere cattolici, è essere diabolici.

Fatevene una ragione: la verità va annunciata così come la carità va praticata, ma sono due piani diversi. La carità non è per l’umanità, è per le singole persone, è cuore a cuore, è curarsi sul ferito nell’ospedale da campo. Non è una nuova enciclopedia medica che nega l’esistenza di malattie –a proposito, si comincia a parlare della pedofilia come di disordine, no di malattia; il prossimo passo è derubricarla a scelta e il gioco è fatto di nuovo- o che rifiuta di guardare alle ferite.
Se devo educarti, ti mostro dove sbagli e cosa devi fare per correggerti, poi ti abbraccio e ti assisto in ogni modo, ti sono vicino anche se fai cose che non vorrei, che mi ripugnano, non chiudo mai la porta per esserci sempre per te, ma non indietreggio di un millimetro da ciò che ritengo essere il bene. E lo faccio perché ti amo.
Altrimenti tutto diventa un caos, tutto diventa bamboccionismo, diventa falsa carità, diventa capriccio.

Ah già, è proprio quello che sta accadendo.

venerdì 27 marzo 2015

Che male ti fa?





Pubblicato su LaCroce quotidiano in data martedì 24 marzo 2015


Altro giro, altra corsa, altro mito da smentire. La forza dei falsi miti di progresso si basa sulla confusione logica, come abbiamo visto la scorsa settimana a proposito del consenso.
Si basano sul cambio di prospettiva, di registro. Lo so che il direttore non ama l’autoreferenzialità, e ha ragione, ma non posso non citare l’articolo di Giuliano Guzzo a proposito dell’eutanasia del 20 marzo scorso in cui svela questi meccanismo di occultamento linguistico. Ecco, dentro queste manipolazioni del pensiero, questo mescolare istinti e ragione, questo lavorare sull’emotività per nascondere la logica, stanno gli attacchi dei falsi miti del progresso.
Vorrei condividere con voi oggi altre riflessioni su un altro dei vessilli innalzati per sostenere le derive alla verità.
Il mito in oggetto è “che male ti fa?”, speso fin dai tempi del referendum sul divorzio dove il mantra era sostenuto da “non per te ma per chi soffre”.
Andiamo per gradi.
Mi trovo a parlare con amici su come razionalizzare una provocazione trovata in rete: una coppia omosessuale si bacia in una foto da romanticismo cinematografico e una grande scritta supplica: “ma che male ti fanno?”.
Già, mi chiedo, che male mi fanno? Sento che c’è qualche cosa che non va, ma sentire non va bene. Potrebbe essere una mia fissa, essere io nell’errore. Ne parlo con loro e chiedo di aiutarmi a razionalizzare il tutto, senza però nominare Dio, che l’asso non funziona in questo caso.  Se ti giochi Dio sei fregato: basta risponderti “eh beh, ma io non credo, io non penso ci sia Dio per cui questo tuo ragionare per me non vale, per me non conta”. Ed è questa posizione che non fa una grinza, che non si può confutare.Per cui Dio fuori dal tavolo, la riflessione deve stare in piedi da sola.
Non se ne cava un ragno dal buco. A me non fanno male. Non si riesce a trovare perché invece dovrebbero farMI male.
Qualcuno dice: se poi si fanno un figlio, allora… Sì, va bene. Non dico altro perché qui su LaCroce questo è un tema ben noto.
Ma non fanno male a me, e poi si parla di amore, di love is love, non di adozioni.
Dice: sì, ma poi, da cosa nasce cosa… va bene, ma andiamo avanti piano, un passo alla volta. Se manca il fondamento iniziale… se non riesco a spiegare che male mi fanno?
Niente, gira e rigira non si esce.

Non mi fanno male. Vai a vedere che alla fine hanno ragione loro.

Poi, lenta, affiora un dubbio, un’idea si fa strada.

La domanda non ha risposta perché è la domanda che è sbagliata.
Non è ciò che mi fa bene o male ad essere importante, ma ciò che è giusto o sbagliato ad essere importante, le conseguenze di quello che accade. Non sono io al centro del discorso, la mia ferita, ma il senso della cosa, il bene o il male. La verità.

La domanda è sbagliata perché sposta l’attenzione dalla giustizia al piacere, al gusto, all’interesse personale.

Se un imprenditore corrompe un funzionario a me che male fa? Nessuno.
Se un fornitore corrompe un buyer privato a me che male fa? Nessuno.
Se un amico pianta la moglie e se ne va con un’altra a me che male fa? Nessuno.
Se un adulto ha un rapporto consenziente con un minore a me che male fa? Nessuno.
Perché non è del male a me che ci deve fregare qualcosa, ma dell’essere buono o cattivo in sé.
E il ragionamento è tutto diverso. Difficile rispondere in 140 caratteri, d’accordo, ma si deve ribaltare la vicenda.
Intanto rispondendo a una provocazione come quella in questo modo: “ma tu ciò che va fatto o non fatto lo decidi sulla base del male che fa a te o sulla giustizia?”
E quindi spostare il discorso, parlare di questa, di giustizia, di verità.
Perché se andiamo sul piano dei sentimenti abbiamo perso.

Prendiamo la vicenda del divorzio, che poi il meccanismo con il quale hanno demolito il senso e la verità è sempre quello: partire dai casi estremi facendoli diventare normali. Ma “normale” è diverso da “consueto” innanzitutto e poi l’estremo non è neppure “frequente”.
L’argomento è semplice: guarda lei come soffre, vuoi negarle la possibilità di essere felice come lo sei tu che non hai bisogno di divorziare? Come puoi negarglielo? Che male ti fa?
E si nega, si nasconde, come il cambio di paradigma, perché questo è, porta conseguenze devastanti.
Vediamolo da due angolature a partire dal divorzio e poi torniamo al primo punto.
Il divorzio accettato come rifugio estremo da un male insopportabile è diventato oggi divorzio breve, e ha trasformato il matrimonio da patto a contratto.
C’è un abisso tra queste due situazioni: la seconda è un accordo che non modifica i contraenti. Sottoscrivere una assicurazione, comperare una macchina, abbonarsi a una pay tv non mi cambia, non interviene sulla mia natura.
Sposarmi, stringere una alleanza, battezzarmi invece sì: perché è un patto, un accordo che cambia ontologicamente i contraenti. Non siamo più quelli che eravamo prima.
Se il matrimonio è un contratto cambia tutto. Ma vuol dire negare che io sono differente, che non sono più me, ma noi, un noi così potente da dare origine ad un nuovo io, una nuova creatura.
Vediamo le conseguenze sulla società: sapere che ogni matrimonio ha una via d’uscita anche rapida ha dapprima accelerato e semplificato la pratica matrimoniale. Dai che ci proviamo, se non va… Questa pratica ha finito per far perdere di senso al matrimonio: che differenza c’è tra sposarsi e non farlo? Tanto se voglio cambiare… Anzi non sposarmi mi facilita le cose.
Perché ci si sposa? Per le garanzie legali in caso di abbandono? Perché c’è la cerimonia e i regali? O perché costruiamo insieme una famiglia per sempre?
La negazione di un senso “per sempre” ha modificato l’attenzione verso il matrimonio: essendo contratto posso decidere se e come sottoscriverlo e come rescinderlo. Non è un caso che si fissino clausole paragonabili a quelle che legano gli sportivi alle loro squadre! Abbiamo modificato in profondità il senso dell’amore: da donazione a te, a interesse per me. E questo non è più amore, è egoismo. È sesso. Diciamolo.

Cambiare i paradigmi ha conseguenze, non facciamoci intortare da questa menzogna del non ti fa male. Sì, me ne fa perché cambia la realtà. Ogni novità la cambia e in profondità.
Nella sua banalità pensate alle innovazione tecnologiche: il telefono cellulare, i social media –che male ti fanno?- hanno modificato profondamente la cultura, la società, le relazioni oppure no? Eppure sono uno strumento, non una modifica di un comportamento.
Tutto ha impatto: è di questo che vogliamo ragionare non dell’emotività.

Che cosa comporta la sessualità tra due persone del medesimo sesso, perché di questo stiamo parlando non di altro, in che modo impatta sulla società, sul futuro, sulla verità? È questa la domanda da farsi e se non c’è risposta allora vuol dire che abbiamo sbagliato tutto, che questo non  un mito falso, ma un progresso sano.


Se invece, come spiegano da tempo in molti, qui ad esempio, con razionalità, con dovizia di dettagli e studi, con applicazione rigorosa, con impegno e serietà, se invece ne discendono conseguenze radicalmente gravi, male in sé, danni profondi, ferite insanabili come quelle lasciate da divorzio e aborto, allora possiamo dire che si fa male anche a me, ma non perché io sia fissato e presuntuoso, ma perché quel presunto amore, quella pretesa di relazione, va contro la giustizia e la verità.

giovedì 19 marzo 2015

Bastasse il consenso...




Articolo apparso su LaCroce quotidiano in data 18 marzo 2015 

I miei precedenti articoli usciti sul quotidiano sono qui

e come bonus Cogito interruptus 


I falsi miti del progresso hanno bisogno di idoli che costituiscano al contempo fondamento sul quale poggiare e feticcio da sbandierare come promessa di felicità.
Tra questi forse il più evocato è il concetto di consenso, ormai elevato a metro etico (una sorta di eticometro sociale). Se c’è il consenso tutto è giusto, tutto è buono, tutto è ragionevole.
Peccato che questa presunzione non funziona, non solo in sé -intendo dire con questo che il consenso non può essere elevato a elemento dirimente, a sommo giudice- ma anche nell’ideologia che ne sta facendo una bandiera.
Perché quello che questa ideologia qui, quella che s’ispira e alimenta i falsi miti, sta facendo, è giocare con la coerenza, con la logica, con la razionalità. Per questo ha bisogno di un ambiente fortemente imbevuto di emotività, perché quest’ultima, specie se mescolata con l’istinto, obnubila la ragione, nega la consecutio, dimentica e sembra così tutto assolvere.
Così vediamo marce oceaniche per difendere la libertà di opinione “senza se e senza ma” e minacciose scese in campo contro pericolosi omofobi, magistrati anti-NoTav, sacerdoti leali e via dicendo, per impedire loro di esprimere come la pensano e soprattutto perché

Che tra l’altro questa storia del “senza se e senza ma” mi ha sempre profondamente irritato in quanto dimostrazione matematica dell’incapacità dell’ideologia di tenere insieme tutti i pezzi. Come fa una cultura che si vuole figlia della Resistenza ad affermare “mai la guerra, mai la violenza senza se e senza ma!”. Che cosa è stata la Resistenza? Una sfida a tresette? Una scampagnata? Se allora la violenza, la guerra, è stata necessaria per liberare il Paese, vuol dire che non può essere “mai”!

Ma questo è solo un palese esempio di questa follia illogica, che riempie la voce di chi non è in grado di esprimere un proprio parere e ha paura di chi ragiona con la propria testa e sopratutto partendo da valori veramente alla difesa della persona.

Consenso dunque, che si rende necessario per porre un argine ad un’altra grande panzana, della quale ho già avuto modo di parlare, quella che suona così “la tua libertà finisce dove comincia la mia”. No la libertà finisce dove inizia la verità, si definisce (forte l’etimologia vero? de-FINISCE) a partire dalla verità, non da me, perché la mia libertà non potrà mai essere uguale alla tua se non c’è un metro di giudizio condiviso.
Ecco allora l’inganno del consenso. Dicono: se sono d’accordo perché tu ti metti in mezzo? Quindi le nozze trine vanno bene, love is love va bene, la cessione di figli va bene, la corruzione va bene.  

Ah no ferma tutto, la corruzione no! Ma perché? Non sono d’accordo? Non c’è il consenso? E allora?
Ah ma in questo caso c’è di mezzo un bene comune che la corruzione attacca.
Apperò, fermi tutti, allora c’è una cosa che è superiore al consenso, questa roba qui che chiamate bene comunque vale di più? Perché se c’è anche una sola cosa che vale di più, allora non vale più il principio che basta il consenso. Attenzione questa è logica, è razionalità: se c’è un valore superiore ad un altro allora il primo non può essere più metro assoluto di valutazione.
Quindi il consenso non basta più. Ci vuole un valore che faccia da fondamento
Il punto è come definirlo, perché non può essere lasciato pendente, bisogna risolverlo. Invece oggi si glissa, quando questo aspetto emerge lo si elude, ci si rifugia nelle leggi dello Stato, nell’Europa lo vuole, ce lo chiede. Bene, allora spingiamo a fondo su questa strada: le leggi naziste andavano rispettate perché leggi dello Stato, per di più stato democraticamente eletto.
Eh no, il nazismo? Il male assoluto! In questo caso le leggi dello Stato non è il mantra che funziona. Lungi da me dire che il nazismo sia il bene, ci mancherebbe, voglio però ragionare sulla logica: in virtù di che cosa affermo che lì, in quel contesto spazio-temporale, il mito del “è legge dello Stato” non vale più?
Quando i vincitori processarono a Norimberga i gerarchi nazisti per poter imbastire il processo dovettero ricorrere ad un artificio: in basi a quali leggi andavano giudicati? Non certo quelle tedesche, né si poteva applicare alla Germania leggi di un altro paese. Estrassero dal cappello il concetto di legge universale, vale a dire valida nel tempo e nello spazio.
Allora c’è! Allora non è vero che devo obbedire allo Stato se quello che mi propone è contrario alla legge universale!

Allora il consenso è fuori gioco!

Un altro esempio? La prostituzione, che molti vogliono legalizzare per fare cassa con le tasse. È o non è dispregio del corpo femminile? Ce lo dovete dire, perché il consenso c’è, oppure no? Oppure sono schiave? E le escort? Sono eroine da salotto televisivo o che altro?

E la pedofilia? Se c’è consenso perché la considerate una piaga da abbattere?
Perché il limite 18 anni? Se è vero, come dite, che è il consenso a fare la differenza che cosa c’entra l’età?

Eh c’entra perché esiste il plagio, esiste la manipolazione, la costrizione, la violenza psicologica.

Fermi tutti ancora: e questa come la definiamo? In rapporto a che cosa la definiamo? E da che cosa dipende? Perché ritieni che se c’è il consenso una minorenne può abortire senza il parere dei genitori, avere accesso a farmaci, ma non avere un rapporto consenziente con un maggiorenne?  Chi manipola chi?

Il consenso è proprio un mito da tirare per la maglietta a seconda di ciò che importi, di ciò che serva, di ciò che faccia comodo per affermare l’ideologia anti-umana che spumeggia ormai ovunque nella nostra società.
E questi miti si reggono sostanzialmente sulla fallacia logica, sull’incoerenza del pensiero, su una assenza di base razionale che definisca una linea guida.
La liquidità di cui Zygmunt Bauman parla è proprio questa: l’ideologia anti-umana ha bisogno di giocare a tutto campo affermando continuamente l’opposto di quello che ha detto poco prima perché se stesse ferma tutti vedrebbero l’inganno.
La nostra società ha bisogno dei disperatamente di bambini, non ancora sedotti dalla tentazione del piacere, che sappiano gridare “il re è nudo” per svegliare tutti.

La battaglia che ci aspetta, quella che spesso descriviamo come la necessità di sguainare spade per difendere il colore dell’erba citando Chesterton, è quella per aiutarci gli uni gli altri a non abdicare la ragione, a tenere via la logica, a richiedere la coerenza, a fuggire dall’attimo che fugge per rifugiarci nel tempo che dura: la lungimiranza è una virtù, non una malattia della vista e del cuore. Oggi ci vogliono rinchiusi nell’istante perché così è più facile nascondere l’incoerenza.


E noi alziamo lo sguardo e fissiamo l’orizzonte, dove cielo e terra si uniscono, e dove tutto assume la dimensione dell’assoluto.

venerdì 13 marzo 2015

Attraverso la lente: l’inganno del #dirittoallafelicità





Apparso su LaCroce quotidiano di martedì 10 marzo 2015

La puntata precedente la trovi qui

Gli altri articoli apparsi su LaCroce

Dammi tre parole: no, non sole, cuore e amore.
Diritto alla felicità.
O al lusso. O all’auto più rombante che ci sia. O a non chiedere mai. O ad amare chi voglio, come voglio. O ad avere un figlio, un marito, una moglie, un compagno. Un conto in banca.
È tutto spiegato qui. Il dolore del mondo è tutto qui.
Perché questo diritto è falsità.
È oggetto delle profonde e urticanti riflessioni di Berlicche, che dissacrano la politically correctness rivelandone la vera fonte: l’odio profondo per tutto ciò che è umano.
Perché questa aspirazione alla felicità ce l’abbiamo sì, ed è in sé buona, è l’eco di quella condizione paradisiaca che i progenitori ci hanno rubato barattandola con il proprio egoismo, quel sentirsi divinità (eritis sicut dei) che a tutti fa piacere –eccome, confermo, fa piacere e si nasconde nei mipiace su Facebook e nelle persone che ti vogliono incontrare quando scendi in città, un po’ come nella vecchia America “ho una buona notizia da darti! Indovina chi è arrivato in città?”- e che ti spalanca l’abisso: quello del dolore senza soluzione.
Ma la felicità è una conquista, non un diritto: il secondo te lo danno a gratis, è implicito; la prima è un percorso, una sfida, un viaggio che nell’andare ti migliora, come tutti i romanzi di quest, di ricerca, di maturazione illustrano alla perfezione.
Infatti questa felicità qui nel mondo chiuso su se stesso, privato di cielo, rinserrato come una di quelle sfere d’acciaio che trovi sui banconi delle colazioni negli alberghi, che si chiudono a volta per tenere calde uova e bacon, e che sembrano un sepolcro che rabbuia l’esistenza.
In un mondo così, senza orizzonte, senza verticale, come fai ad essere felice?
Infatti scatta il nichilismo automatico, la lotta per brandelli di godimento che ci scatena gli uni contro gli altri: “homo homini lupus”, “l’enfer, c’est les autres”. Guarda a caso tutte affermazioni partorite da uomini senza fede e senza speranza.
Questa assurda ricerca di auto-felicità, che come tutte le cose fatte da soli producono tristezza, sorta di masturbazione intellettuale, si compie nell’atto di odiare. Ti guardi in giro, leggi di politica, filosofia, sport, costume, cultura e vedi solo gente che urla, che sparge violenza, perché in questa opposizione crede di affermare se stesso e i suoi valori. È possibile che oggi la politica sia solo contro e non a favore di un bene comune? Che si urli invece di proporre? Che sia negazione e rifiuto?
L’ideologia è una brutta bestia, o peggio ancora: è una brutta patologia perché ti obnubila. Ti stronca la verità, ti fa vedere solo quello che vuoi vedere, in genere nemici cattivi ovunque. Per un martello tutti sono chiodi. E come fai poi ad essere felice?
Ma il dolore non è finito. Né la violenza.
Una felicità che si intenda racchiusa in un universo popolato da individui gonfi di diritti e di libertà, e privi di verità e responsabilità, nega il perdono. Non c’è nessuno a cui chiederlo perché non c’è nessuno che può dartelo, tutti presi come siamo a fare e dire invece che ascoltare ed accettare.
Ecco perché dà così fastidio la sottomissione alla Miriano, che poi è sanpaolescamente cattolica: perché costringe a mettere da parte l’io per fare spazio al tu, e questo è davvero terrorismo per la cultura di oggi, è un reato che non ammette perdono perché è come la bestemmia contro lo Spirito Santo.
Non solo non c’è nessuno che perdoni ma pilatescamente non c’è nulla da perdonare: se devo essere felice per forza a modo mio, se tutto è lecito, tranne vietare, se tutto è suggerito, specie il piacere spinto, in 50 sfumature di tristezza mascherata, allora ogni cosa che faccio è giusta e ogni cosa che faccio mi qualifica.
Io non sono più io, ma sono ciò che faccio: siamo andati oltre Cartesio, sia arrivati al “opero ergo sum: ergo sum quod opero”.
Mettiamo insieme queste tre cose:
a) devo cercare la felicità a tutti i costi, con i miei mezzi e i miei desideri,
b) quello che faccio è giusto in sé perché non c’è verità
c) io sono quello che faccio, la mia storia, le mie vicende.

Che dramma della disperazione ne nasce! Prigionieri dei nostri errori, inconfessabili in quanto imperdonabili in senso pratico non ontologico, finiamo per vedere la realtà attraverso una lente deformata forgiata dal demonio. La realtà siamo noi e tutto deve uniformarsi alla nostra visione.
Ecco perché oggi è impossibile ragionare ma si finisce sempre sull’emotivo e sul personale, perché questo è l’unico piano che il mainstream ora ammette. Love is love. Istinto rules perché la felicità è il piacere.
Peccato non sia così, come dimostra l’onda di disperazione e nichilismo, di depressione apparentemente invincibile.
Peccato che questa discesa sul piano dell’emozione come unica verità scateni dolore e conflitti senza fine.
Perché se io devo –verbo che impone obbedienza e sottomissione (ma va? Il contrario di quello che affermano!)- essere felice allora tutto ciò che si contrappone –attenzione, non ho detto oppone- a ciò che faccio/sono è da combattere in quanto mi nega questa felicità.
Sei un figlio indesiderato? Sei un coniuge stanco? Sei un idea difficile? Un lavoro faticoso? Un oppositore politico che non riesco a convincere? La voce della coscienza che comunque non tace mai? Ti spazzo via. Ti spezzo. Ti cancello fisicamente.
Infatti questa presunta felicità impone la perfezione, altrimenti come posso assomigliare ai divi di Hollywood (che poi magari si drogano, si sparano o si ammazzano a sorsate di farmaci, proprio quelli che sembravano i più allegri, capitano oh capitano) o ai cantanti o a chi rifulge di una perfezione plastica e divina?
E siccome nel nostro piccolo sperimentiamo la durezza della vita, la fragilità, la fatica nell’amare, la debolezza delle relazioni, le speranze evaporate quando non esplose, la sfida di fine mese, allora ci rifacciamo cercando di eliminare a colpi di roncola chi sembra porsi sul nostro cammino.
Non ricordo chi aveva espresso con grande lucidità il meccanismo che porta ad espellere le virtù e i virtuosi da questa società.
Diciamo che sia virtù scalare la montagna, con fatica. La logica che finisce per percorrere chi non si sente in grado di scalare la montagna è la seguente:

a)    che bello che tu scali la montagna e io no
b)   ci resto male se tu sali la montagna e io non ci riesco
c)    salire sulla montagna è stupido
d)   salire sulla montagna fa male a te
e)    salire sulla montagna fa male a me
f)     salire sulla montagna è una aggressione fascista contro la mia libertà di non salire sulla montagna per cui te lo vieto con la forza.

Nella vita capita allora che giudico quello che fai e dici con le mie categorie, con ciò che mi è capitato, che non chiamo mai male o dolore, perché se riconosco il dolore o peggio ancora il male emetto un giudizio su me stesso, sulla mia vita e questo non si fa mai, perché poi ho bisogno di sentirmi perdonato. E nessuno può farlo.
(Ce l’ha raccontato crudelmente Stangerup nel suo “L’uomo che voleva essere colpevole” dove l’assassino che cerca redenzione tramite perdono si sente soltanto giustificare: il suo atto è conseguenza dell’ambiente. Ma in questa forzata innocenza, che priva del rimorso e del perdono, l’uomo conosce solo l’infelice disperazione).
Quindi conformo la realtà alla mia esperienza.  La fedeltà non può esistere, tutti gli uomini sono farabutti e maniaci, il sessismo è una malattia, chi insulta Balotelli è un razzista, come fa quell’imbecille di Paola Belletti a non aver abortito (la sua mirabile paginata su questo argomento va letta e riletta ogni sera come esame di coscienza e preghiera!), se ti mette la pomata sulle gambe tua moglie è una schiava, la mamma che fa da mangiare per la famiglia è preda della sindrome di Stoccolma, cambiare amante una volta alla settimana è la corsia preferenziale per la felicità e giù con altre banalità del genere.
Per non parlare di quando questa malattia si impossessa di imprenditori che sanno tutto loro, non sbagliano mai, sanno come si deve fare e perché e così via.
È la patologia del secolo, che va curata a dosi massicce di umiltà –ricordate cosa scrivevo in precedenza?- ossia quella virtù capace di ridare senso alla mia vita mettendo ordine e restituendomi la possibilità di essere davvero felice, perché ora so a chi obbedire e a chi e perché stare sottomesso.


Felicità: il percorso che mi conduce sempre più vicino a ciò che devo essere in quanto creatura. Meta che ricolma di gioia e serenità chi la sta cercando, anche a tentoni, così come il camminare verso Santiago innalza l’animo ai pellegrini, e li rende lieti per ogni passo che fanno e ogni cosa che vedono anche se sono lontani da Compostela.

Umiltà: riconoscersi parte di un tutto e non pretendere di esserne il centro. Capire che non si può essere felici da soli, e che per esserlo bisogna imparare ad ascoltare e pronti ad imparare ad ogni passo, perché la strada è lì per insegnarci qualche cosa e nella fattispecie come essere sempre più aderenti al progetto di Dio su di noi, al nostro nome.


sabato 7 marzo 2015

Elogio delle domande




Apparso su LaCroce martedì 3 marzo 2015


Umiltà sì rara e negletta che più cara è solo verità!
Strappa un grido così accorato e doloroso questa malattia che rode dentro la società e la svuota degradandola come un tumore che mangia la carne e il midollo.
Scrive la settimana scorsa un pungente editoriale sul CorSera Ernesto Galli della Loggia il cui incipit merita un applauso quale quello che ricevette Fantozzi al suo significativo commento della Corazzata Potemkin.
Lo riporto per esteso per scatenare in voi la medesima reazione:
“La decadenza di un Paese si misura anche dall’incapacità della sua classe dirigente di vedere i propri errori, di discuterli e magari di correggerli”.

E già qui ci sarebbe trippa per gatti, abbondante materiale per lanciare un dibattito –si sarebbe detto nelle assemblee post68- oppure per iniziare un cammino, direbbero oggi nelle parrocchie. A me scatena una profonda paura questa incapacità di vedere i propri errori anche perché questa limitazione non è frutto di insipienza o ignoranza, che queste avrebbero un alibi –dannosissimo, ma pur sempre scusante, certo che se la classe dirigente è incompetente…- a differenza della realtà, o di quella che io temo sia la realtà. Non da solo peraltro, che l’Ernesto continua: 
“Ma la classe dirigente non è fatta solo dai politici. Ne fanno parte a pieno titolo pure le grandi corporazioni professionali pubbliche e private: l’alta burocrazia, i magistrati, gli avvocati, i medici, i notai, i giornalisti, i farmacisti ecc. Da queste corporazioni però, dai loro «ordini» e associazioni, in tutti questi anni - mentre il Paese si avvitava nella crisi, mentre mille nodi arrivavano al pettine - non è mai capitato di ascoltare alcuna voce autocritica di qualche consistenza. A nessuno è mai venuto in mente di avere il più piccolo rimprovero da farsi. Nulla. Tutti innocenti. Tutti attenti solo al bene pubblico, si direbbe, alla deontologia professionale, al buon andamento delle cose”.

Non incapacità dunque, ma presunzione. Tutti convinti che la loro posizione sia quella giusta.
E questa preoccupazione che l’editorialista del Corriere incolla a corporazioni prima di scagliarsi contro la casta dei professori universitari, a mio parere va estesa a tutti: #jusuisArrogant potremmo dire.

Perché? Da dove arriva? Quali conseguenze ha? Come deturpa la società?

Queste solo le domande che vorrei porvi e insieme cercare una risposta sensata che ci aiuti a trovare una soluzione. Perché secondo me qui c’è un punto chiave del nostro andare, che determina secca la destinazione e non solo il percorso.

L’umiltà non è più di moda in un mondo in cui l’uomo che ha successo è quello che non deve chiedere mai, in cui l’obbedienza è stata derubricata a vizio –ah che errore in buona fede don Milani! Sapessi come ti manipolano oggi con quella tua infelice provocazione contro la guerra!- in cui la sottomissione, intensa nel suo senso pieno di mettersi al servizio di chi si ama, è condannata senza nemmeno chiedere spiegazioni, mentre quella perversa da cinquanta sfumature di sesso è proposta come raffinata relazione tra adulti, in cui  arrogance ed egoiste sono attributi così apprezzati da diventare evocativi marchi di profumi, in cui tutto diventa un diritto a prescindere,  in cui il male sembra non esistere se non il ciò che il mainstream decide sia così fastidioso da meritare una condanna pubblica.

Perché ciò che ci hanno insegnato è che noi abbiamo diritto alle nostre idee, quali che siano, e chi si oppone è un nemico da abbattere, fatto salvo che si cucini il tutto con la più grande delle ipocrisie: la mia libertà finisce dove comincia la tua. Che tra parentesi oltre ad essere un falso storico è una imbecillità senza fine.
Poi mi spiegate dove scorre questo confine tra chi sostiene che 2+2=5 e chi invece pretende che 2+2=4.

Ne consegue che l’affermazione di sdegno di Galli della Loggia appoggia su un presupposto oggi ormai incontestabile: io ho ragione. Io, chiunque io sia, qualunque cosa faccia, qualunque ruolo abbia nella società. Perché la casta è ovunque: negli imprenditori (#abbiamosemprefattocosì!), negli insegnanti (#questiragazzinonsipossonotenere) nei genitori (#lascuolanoncapisceilmiocucciolo), negli automobilisti (#checosahofattodimale). Ovunque.
E ogni categoria si riconosce vittima della società. Rimaniamo nel mondo descritto dall’editorialista del CorSera, quello dell’istruzione, oggi si assiste spesso ad una vera e propria guerra tra insegnanti e genitori sull’educazione dei figli. E nessuno che faccia il famoso passo indietro per chiedersi, con serenità: che cosa potrei fare meglio? Dove sbaglio?
No, è una battaglia di affermazioni, dove invece il dialogo imporrebbe le domande.

Questo tratto emerge in modo dolente ed evidente nei social media, dove la domanda è più rara dell’ironia, il che è tutto dire. Di fronte ad una affermazione ritenuta provocatoria, quasi nessuno prova a chiedere una ragione: il modo tradizionale di rispondere è l’offesa, l’attacco, la puntata. Contraria ed in escalation.

Perché fare domande implica una serie di conseguenze: innanzitutto confrontarsi ragionando con una risposta; poi mettersi in discussione, non dico per cambiare idea, ma almeno per dare sostegno alla propria posizione –redde rationem!- argomentando con logica e non con pancia; infine ascoltare, la cui grammatica andrebbe insegnata con grande energia ovunque.

La situazione peggiora quando è la mia vita a dettare i parametri del bene e del male: siccome io non posso essere sbagliato –la cosa comporterebbe dover riflettere sul senso della vita e su come trovare il perdono e dove- e ciò che ho fatto sono io –altro grave errore dovuto all’incosciente Cartesio che ha distrutto il reale per fingere Matrix- allora ne consegue che la mia vita è il bene e sono pronto a combattere con chiunque che prova a sostenere il contrario.  Il gioco del maligno è semplice: trasportare la controversia su bene e male dal piano razionale a quello personale, che se una persona si sente mettere in discussione la vita combatte come una tigre per difendersi.
Ecco perché si devono sguainare spade per sostenere che il verde sia il colore dell’erba: perché ne va della mia vita e di quello che la vita ha significato per me.

Facile allora trovare l’origine di questa tigna che ci divora. Cito volentieri Sant’Agostino che insieme alle cause propone anche la soluzione:  “È stato l’orgoglio che ha trasformato gli angeli in diavoli; è l’umiltà che rende gli uomini uguali agli angeli”.

L’aver posto al centro del mondo l’IO invece che DIO ha scardinato l’equilibrio, perché di IO ce n’è miliardi e ognuno cerca il suo spazio. Che tende a gonfiarsi in una egolatria distruttiva. Le conseguenze sono evidenti: una società che puntava a rendete tutti felici perché liberi di fare ciò che avessero in animo, è diventata una società forse sazia (parliamone dopo la crisi) ma sicuramente disperata, piena di dolore, di sofferenza, di angoscia e tutte percepite come inutili. Una società senza senso che inasprisce i conflitti e favorisce, paradossalmente, quel razzismo che voleva debellare.

Perché non c’è nessuna ragione per cui debba considerare gli altri fratelli se non abbiamo un Padre in comune.