Quando i cinquant’anni sono stati raggiunti e superati con la velocità del suono di una sirena arrabbiata, tre sono le possibilità che rimangono all’uomo che non vuole rimanere ad attendere l’impatto indifeso e inconsapevole: farsi l’amante, farsi una macchina rossa, scrivere un blog. Dato che mi state leggendo (davvero? Mi state davvero leggendo?) avete compreso che ho scartato le prime due ipotesi. E per scelta volontaria e creduta, non certo forzata.

Ma che cosa e perché scrivere? Condividere, o l’illusione di farlo, aiuta spesso a sentirsi in compagnia di fronte alla piccole battaglie della vita: quelle grandi, si sa, le si può affrontare solo in compagnia di se stessi, senza nessuno scudiero o cavaliere al proprio fianco.

La prima delle sfide e quella che affettuosamente potremmo definire di san Giuseppe, che di fatto nomino mio speciale e personale protettore confidando sulla sua ironia e bonomia. In che cosa consiste questa sindrome? Nel sentirsi ovviamente il più imperfetto della famiglia dovendone invece apparire la guida salda. Non che con questo voglia affidarmi a una melliflua umiltà fasulla, l’autocompiacimento di sentirsi negare la denigrazione e gustare così una vanitosa ricompensa per la propria maliziosa modestia. Affatto. Lauto compiacimento può derivare solo dalla concretezza. Non che non sia vanitoso, tutt’altro: la vanità è sempre in agguato, come ben sa il diavolo impersonato da Al Pacino nel mondo degli avvocati.
Gli è che essendo proprio vanitoso e anche intelligente, so bene che l’ambizioso deve attingere a piene mani all’umiltà: per crescere, ambizione che può essere anche nobile e saggia, bisogna capire dove migliorare. E per capirlo non c’è che l’umiltà.
L’ambizioso vanesio e superbo farà una brutta e rapida fine.

Quindi qui sto: con una moglie tendente alla perfezione, pur con difetti marginali che provocano in me tanto irritazioni quanto ammirazione per la loro trascurabile banalità; con tre figli che, come recitano brutti film, hanno preso maggiormente da me i difetti, e quindi non posso accusarli di una eredità che ho trasmesso loro; con un lavoro che amo e che ogni mese mi sfida sempre di più, aiutandomi a non fare mai mia la sicurezza.
Di che scrivere dunque?

Della precarietà, della inadeguatezza che mi rende comico a me stesso, specchio delle cose che ho appreso e che rivedo, con squarciante veridicità, nel mio quotidiano.

giovedì 25 febbraio 2016

La stortura dei falsi diritti




È una battaglia antica quella che stiamo combattendo. Una battaglia che alle sue radici nella storia dell’uomo e nella pretesa di autodeterminazione che l’antico peccato contro Dio.
Tutto ritorna lì, in quella promessa, in realtà una menzogna, che invita l’uomo a ribellarsi per essere come Dio che possedersi, possedere il controllo di ciò che è bene e ciò che è male. In ultima analisi  decidere di sé come se non fosse una creatura.
È una battaglia antica che va combattuta con antichi metodi: scacciare con la ragione Ciò che l’emotività vuole offuscare, vuole nascondere, vuole negare.
Perché il punto è questo, dobbiamo essere sempre più preparati a rendere conto della nostra fede, che razionale e basata sulla corretta interpretazione di che cosa sia l’uomo, per poter sovrastare la potenza dell’emozione che invece ammutolisce la ragione con le suggestioni, i sentimenti, gli istinti.

E dobbiamo farlo comprendendo sempre di più qual è la verità e imparando sempre meglio raccontarla. Non tanto a coloro che attaccano frontalmente, perché penso che con coloro che sostengono con una passione carica di odio, del tutto razionale e fortemente basata sull’ideologia più accecante, la battaglia sia persa. Ma per coloro che ascoltano, per coloro che non intervengono sui social media ma leggono e pesano non soltanto i contenuti, ma anche la modalità esposizione: pacatezza e pazienza, a volte in una fermezza e in una logica ineccepibile, contro il furore di idee recitate a memoria.

Per questo ritengo che sia fondamentale studiare continuamente e migliorare continuamente le proprie competenze e conoscenze.

Prendiamo questa vicenda dei diritti, in realtà vogliono rendere moralmente leciti dei capricci personali. Diventa sempre più difficile combattere contro coloro che invece di argomentare, invece di ragionare, non fanno che ripetere uno slogan trito e ritrita: ma a te che cosa cambia? Ma se due si amano che male fanno a te?

Mi cambia molto invece, e mi fa davvero male perché cambia la realtà. Abbiamo sperimentato con le sciagurate conseguenze di  concessioni, tutte fatte in nome di un pietismo che ben presto si è dissolto di fronte all’assalto dei capricci, quali quelle relative al divorzio all’aborto, per citare solo due delle tragedie che hanno inciso profondamente sulla nostra società e sul nostro bene.

Ben vengano dunque libri che ci aiutano a capire queste cose, ad avere idee sempre più limpide, ad avere sempre una maggiore chiarezza per poter raccontare agli altri, a coloro che hanno piacere di ascoltare, che hanno se non altro quella luce di voler capire prima di prendere una decisione, ciò che va detto con le parole più giuste.

È spettacolare in questo senso l’ultimo libro di Pier Giorgio Liverani, Diritti distorti ovvero la legalizzazione dei desideri (edizioni Ares) È veramente un aiuto prezioso per scandagliare le profondità della ragione, per cercare le origini, per mettere in fila i deliranti proclami sedicenti maitres à penser su questo tema.

Liverani va a fondo del problema, chiarendo in maniera inequivocabile che all’origine di tutto c’è proprio la scelta di trasformare i propri capricci in diritti partendo dal concetto di autodeterminazione, perché vuol dire che io sono in grado di decidere quello che io sono, io voglio, io desidero.

Ma per la stessa limitazione dell’uomo questo presunto diritto civile diventa l’imposizione con violenza del più forte sul più debole: basta guardare ciò che è capitato di recente, tutte le leggi apparentemente costruite intorno dei diritti sono in realtà l’esercizio della forza di chi può farlo contro chi non può difendersi. La porto è il caso più eclatante, ma anche il divorzio, specie come configurato ora in maniera non soltanto rapidissima, ma anche non consensuale, è un modo per esercitare la brutalità di chi pensa solo a se stesso e il signore diritti degli altri, a cominciare da quelli dei figli..

Liverani spiega molto bene che i diritti civili di cui oggi si parla non hanno nulla a che vedere con i diritti universali dell’uomo proclamati della famosa dichiarazione delle Nazioni Unite nel 1948.  Infatti, Mentre quelli si basano su una legge naturale che precede il senso logico l’uomo, tutti i diritti di oggi si basano sulla considerazione dello stato etico vale a dire di una porzione di spazio di tempo che decide di stabilire in funzione del proprio capriccio ciò che è bene ciò che male per l’uomo senza alcun riferimento alla natura.  Non solo ma, come spiega benissimo l’autore, viene completamente ribaltato il senso della legge: “non è la legge che discende dai valori riconosciuti, ma i valori che dipendono dalla legge arbitrariamente proclamata”.

Questa la ragione principale per cui queste cose qui “mi fanno male”, perché ciò che si ritiene semplicemente la soddisfazione di un presunto diritto, diventa la proclamazione di un nuovo valore che in genere si oppone cancella un altro, che A differenza di questo è vero, è ciò che serve all’uomo, e ciò che rende l’uomo felice.

Il fondamento filosofico è quello che Stefano Rodotà esprime in questo modo: “il diritto di avere diritti” di fatto affermando appunto quella autodeterminazione di cui parlavamo in principio. 

In realtà io non ho il diritto di avere diritti, questi diritti me le ritrovo donati dalla mia natura, non per mia scelta un'imposizione. È di nuovo la vicenda del rispetto di cui ho parlato tempo fa: il rispetto dipende dalla natura dell'uomo, È un dono della natura, della mia natura, è implicito nella mia esistenza, non è un dono di altri, non è un riconoscimento di una mia particolare capacità di comportarmi, ma qualcosa che mi è dovuto per il solo fatto che sono stato concepito.

Liverani è molto chiaro nel chiarire come catastrofe antropologica Nella quale la società presente ci sta trascinando dipende da una autoreferenzialità assoluta chi afferma “sono io il giudice delle mie scelte e delle mie azioni”. Questo e molto più che  un errore, e semplicemente demoniaco,  anche perché di fatto sancisce l’incomunicabilità la impossibilità di vivere in consorzio mani per ogni singola persona. Quello che era il bene comune diventerebbe dunque soltanto un accordo, che vale la limitata porzione di spazio di tempo, e che è imposto dai più forti.

Infatti la libertà esistenziale, che secondo Rodotà, costituisce il vertice della libertà umana,  fa notare Liverani “vale soltanto in senso negativo (contraccezione, fecondazione artificiale eterologa, manipolazioni genetiche, aborto, suicidio, eutanasia) mentre non può riguardare la nascita, perché nessuno può nascere per una decisione autonoma ed evitare la morte”.

La conseguenza immediata di questa deriva che trasforma capricci in diritti è la persecuzione di coloro che invece, in funzione della legge naturale del buon senso, o potremmo semplicemente dire in funzione della verità e della logica, si battono contro queste assurdità.

Come siamo soliti infatti chiamare coloro che sottopongono ad un diritto? Gli epiteti sono sempre gli stessi: fascista, razzista, nazista, o qualche altra cosa che finisca in –ista.

Perché anche una parvenza di senso, effettivamente questi aggettivi possono essere applicate a coloro che si oppongono dei diritti,  ma quando i diritti sono veri,  quando i diritti ad un reale fondamento della persona.

Le battaglie per ottenere i diritti, ad esempio quella famosa di Rosa Parks,  effettivamente erano lotte contro oscurantisti, contro coloro che si opponevano all’attuazione di un reale diritto.

Il gioco è tutto qui: nel momento in cui ho la pretesa di trasformare un capriccio di un diritto, evidente che coloro che si oppongono fanno la figura dei razzisti della vicenda di Rosa Parks


Ecco perché è importante avere argomentazioni forti come quelle che possono essere apprese da questo libro che consiglio spassionatamente.

mercoledì 24 febbraio 2016

Che cosa sia realmente la fede






C’è che queste cose mi fanno salire subito il sangue alla testa. Lo so dovrei fare mia quella famosa battuta che Renzo Montagnani ripeteva spesso nei panni di don Libero Occupato “e son fumino io!”  cosa che appunto finiva per farlo chiamare dai suoi fedeli don Fumino , proprio per la sua scarsa pazienza.
Però devo dire che le provocazioni sono eccessive. E soprattutto riguardano l’aspetto della razionalità, della coerenza, dell’onestà intellettuale che sono quelle che mi feriscono di più.
Perché posso accettare tutto -beh non proprio tutto, devo essere sincero-  ma quello che più di ogni altra cosa mi manda in bestia è questa incapacità di dimostrare linearità di pensiero, di farsi affogare in un mare di emotivismo che finisce per confondere la carità con il buonismo, la verità con l’opinione, e la fede con una religione da scaffale, dal quale prelevare quello che mi fa comodo.

Prendi questa vicenda delle unioni civili, ma possiamo risalire indietro a piacere fino al famoso referendum sul divorzio nel 1976: trovi sempre un numero epsilon di cattolici adulti a piacere che ti dicono: io a queste cose credo, e non le pratico, ma perché limitare gli altri? Perché imporle anche a chi non crede?

Vorrei svelare il meccanismo logico razionale che sta dietro queste affermazioni perché è importante comprendere quali sia la fallacia logica, la bestialità di ragionamento che sottende a un’affermazione di questo genere, e che nega in profondità il valore della propria fede.

Per farlo parto da un esempio: ammettiamo di partecipare un corso universitario di medicina e di sentirci dire da un luminare, dal massimo esperto sull’argomento della lezione, che è bene non mangiare  scaglie di amianto –sto facendo un esempio paradossale proprio per essere più efficace- perché inevitabilmente moriremmo.
Qual è quel pazzo che si sognerebbe di dire: “io credo a questo docente, e quindi non mangio amianto, ma perché impedirlo a coloro che non credono in lui?”.

Questo il punto specie quando parliamo di una religione. Dobbiamo chiederci che cos’è una religione. Dobbiamo chiederci che cos’è la religione cristiana nella quale diciamo di credere.

Non è una sorta di galateo che vincola coloro che credono che un certo tizio, vissuto grosso modo 2000 anni fa, che si faceva chiamare Gesù e si autodefiniva il Messia, pretendendo di essere vero uomo e vero Dio, ci ha lasciato in eredità attraverso la Chiesa e che contiene una serie di indicazioni le quali debbono essere seguite da coloro che sono propensi a credere che quell’uomo non fosse un millantatore, ma fosse realmente Dio.

Perché se ciò che c’è stato tramandato, attraverso le Scritture e attraverso la Chiesa, fossero dei suggerimenti validi solo e soltanto per coloro che credono in Lui, allora ci sarebbe da deridere questi fedeli, dovremmo stracciarci le vesti e con umiliazione guardarci allo specchio insultarci per quanto siamo creduloni!

Dovremmo seguire allora lo stesso metro: poiché nel decalogo sta scritto “non rubare”  e “non uccidere” dovremmo pensare che questo sia valido solo per coloro che credono in Dio, per tutti gli altri invece non sono norme vincolanti.

Non è questo la religione, non è questo la pretesa cristiana, la quale si basa non su una rivelazione, ma addirittura sul messaggio diretto di Dio che si è fatto Uomo per noi.
Platone aveva scritto che all’uomo e negata la conoscenza delle leggi di Dio e che potrebbe conoscerle se e soltanto se Dio stesso venisse sulla terra per spiegarcele.  Questo è quello che credono i cattolici: pacchetto completo, prendere o lasciare. Non si può scegliere cosa portare a casa.

O mi fido di Dio o non mi fido non ci può essere una fiducia metà.

Perché fidarsi di Dio che cosa vuol dire: vuol dire credere che Lui ci ama tal punto da averci dato una serie di regole per il nostro bene, per la nostra felicità, per la nostra salvezza. Qui e in cielo.

Un po’ come dire appunto:  non mangiare amianto o morirai.

Ma questo vale per qualunque uomo, sia che si fidi di Dio sia che non si fidi perché una verità in sé, questa è la pretesa del Dio cristiano:  che ciò che c’è stato rivelato è il bene per l’uomo. Per ogni uomo.

Se non fosse così, se non fosse un bene assoluto per tutti gli uomini, saremo dei disgraziati. Perché allora non vorrebbe per nulla credere,  anzi sarebbe esattamente il contrario: sarebbe una presa in giro, una catena, un castigo sulla terra.

C’è qualcuno che scherzosamente dice che tutto ciò che è piacere per l’uomo o fa male, o è peccato, o fa ingrassare. Infatti.
Dunque allora perché credere se quello che ci viene chiesto di fare è la negazione di un piacere e non è un vantaggio per noi?

Se non è un vantaggio per tutti gli uomini, perché deve esserlo per noi soltanto in virtù del fatto che riteniamo che il messaggio che Gesù ci ha dato sia quello di Dio?
Ma se lo è, perché ci rifiutiamo di aiutare i nostri fratelli a comprenderlo? Perché non ci battiamo per loro?
Perché non chiediamo allo Stato di proteggerli?

Perché questo il compito dello Stato, questo il compito delle leggi: proteggere il bene comune e proteggere ogni singolo cittadino.

Certo se il diritto avesse mantenuto il suo senso delle origini, Ma come ha spiegato mirabilmente Fabio Bartoli in una sua omelia di qualche tempo fa, il diritto è morto nel 1976.
Qual è infatti il compito del diritto? Il diritto nasce –con i Romani, prima di Cristo- per limitare l’egoismo del singolo –e quindi qui si riconosce in qualche modo l’esistenza del peccato originale che è la tendenza a privilegiare se stesso rispetto agli altri in modo disordinato- e proteggere il più debole.

La strada che il diritto ha preso dal 1976, della legge sul divorzio, è invece quello di esaltare l’egoismo del singolo, i suoi capricci, fregandosene totalmente del più debole. Un esempio di questi giorni? Non soltanto il famigerato ddl Cirrinà di cui tanto si parla, ma anche il tentativo di sottrarre la pensione di reversibilità, che è nata come strumento per difendere le vedove dalla povertà assoluta.

Le leggi dello Stato dovrebbero quindi aiutare tutti proteggendoli dal male,  sia coloro che credono nello Stato, sia coloro che si riconoscono nel governo al potere, sia coloro che non si riconoscono. Se applicassimo il medesimo criterio di questi cattolici adulti –vale per me ma non per loro-  allora potremmo dire che questa tassa non la pago perché non ci credo, che questa norma non la seguo perché non ci credo, che quella legge la ignoro perché non mi riconosco nel governo al potere.

Qui in discussione il concetto di bene assoluto,  e di come la religione, ogni religione,  sia sostanzialmente questo: l’interpretazione del senso della persone e del suo destino e la spiegazione di come la persona possa ottenere la felicità in questo e nell’altro mondo. 
Non è una norma di bon-ton, non è un galateo per iniziati,  non è la proposta a un’élite, Non è il programma di un personal trainer rivolto solo a coloro che vogliono dimagrire, sviluppare i muscoli delle braccia, correre una maratona.

È il progetto per la vita.

Quindi trovo demenziale, trovo assurdo da un punto di vista logico, trovo completamente al di fuori il concetto stesso di fede affermare che certe norme, che la Chiesa propone rifacendosi al messaggio di Cristo, debbano essere valide solo per i credenti.

Non soltanto questo lo trovo aberrante per ciò che ho detto sopra, Ma anche perché se così fosse io non potrei credere in un Dio che massacra coloro che credono in Lui con carichi inaccettabili, andando contro la loro natura, e che lascia liberi tutti gli altri di fare quello che vogliono semplicemente perché non si fidano della sua parola.

Il caso è molto semplice, non voglio adesso rifarmi alla scommessa di Pascal, In verità è tutto lì:
- o Dio esiste e quello che mi propone e il mio vero bene che io magari non riesco ad accettare a comprendere perché sono travolto e dal peccato.
- oppure non esiste, è un’invenzione dell’uomo, e allora, come diceva Dostoevskij,  tutto è lecito.


Non esistono vie di mezzo.

giovedì 18 febbraio 2016

La solitudine del battitore libero




Alla fine la differenza è tutta qui: da una parte una solitudine incrostata di capricci, dall’altra una gioia impregnata di limiti e abbracciata da altri.
Non c’è terza soluzione.
Perché l’uomo è fatto così: ho scopre che la sua essenza è relazionale, o finisce per essere preda delle sue voglie, che dapprima lo illudono, promettendogli compagnia, per poi abbandonarlo ed irriderlo, lasciandolo prostrato in una solitudine che è disperazione.

Non ci fosse la pratica quotidiana, l’esperienza, la sofferenza di coloro che vediamo intorno noi a confermarcelo, ci sarebbe la letteratura, secoli se non millenni di storia che raccontano questo: che spiegano come la strada che porta ad un’apparente soddisfazione istantanea delle proprie voglie, Non può che condurre al deserto.
Anzi sarebbe divertente scatenare questo gioco tra tutti lettori: elencare proprio tutte le opere di fantasia, o forse potremmo dire anche dei casi di cronaca vera, che raccontano di questa devastazione della persona umana. Comincio io: Anna Karenina.

Ma perché succede questo? È un problema sociologico? È una cattiva società che vuole fare del male a coloro che non vogliono adeguarsi agli schemi precostituiti? È la reazione di reazionari difensori della famiglia che discriminano ed emarginano coloro che vogliono uscire da questa gabbia?

Se volessimo provare a deporre le cecità della ideologia ci renderemo conto, senza fare ricorso ad alcuna religione, che l’uomo non può sussistere se non in relazione con altri.
Lo psicologo francese Maurice Nédoncelle nel suo saggio Réciprocité des consciences spiega in maniera molto secca che l’uomo non può vivere da solo: “aut duo aut nemo”. D’altra parte che l’uomo fosse un animale sociale lo avevano scoperto anche i greci. E se volete togliervi lo sfizio di leggere uno dei più bei saggi sul concetto di amicizia non perdetevi I quattro amori di C.S. Lewis.

Certo, poi coloro che credono nel Dio cristiano scoprono che questo non è che il riverbero di quello che la divinità della quale appunto credono: una relazione. Perché la Trinità è questo una famiglia come ha detto Papa Giovanni Paolo II, non è una solitudine..

Ma questo non aiuta il discorso, e non vogliamo giocare nessuna carta teologica perché inquinerebbe la bellezza della logica e della natura delle cose.

L’uomo è relazione, lo sperimentiamo quotidianamente, la solitudine può andarci bene per un po’ ma poi ci distrugge. Perché questo grande  successo dei social media secondo voi? Se non perché nella dimensione sociale l’uomo trova se stesso?

Ma allora questo cosa vuol dire?

Vuol dire che La mia felicità sta dentro la relazione perché è l’affermazione profondamente vera che io devo limitare il mio egoismo perché soltanto nell’altruismo, cioè non riconoscermi dentro una relazione, quasi nell’annullarmi dentro una relazione, io trovo la vera felicità. E nella gratuita che trovò la felicità. E nella donazione che trovò la felicità. Toh, sarà mica che alla fine trovo la felicità nella sottomissione? Nello stare sotto, affondamento, nell’accoglienza.  Sarà mica che trovo la mia felicità nel cucinare per i miei cari come lavorare per loro? Nello svegliarmi presto al mattino per portare i figli alla partita di calcio di pallavolo?  Nello stare sveglio quando stanno male?  Nelle gare cioè me stesso i miei desideri per mettermi a disposizione degli altri e fare il loro bene? Perché coloro che la fine affermano che devo lasciare tutto per farsi la loro vita, perché hanno diritto alla loro vita,  alla fine non sono esattamente il più brillante spot della felicità.

I miei diritti sono dunque i diritti della relazione. Sono i diritti della coppia, sono i diritti della famiglia, sono diritti di chi sta insieme.  Non i miei.
Se io sono la misura di ogni cosa i diritti sono soltanto centrati sui miei capricci e il loro confine, sta nella frizione che inevitabilmente si viene a creare con i diritti degli altri. La mia libertà finisce dove comincia la tua: una delle più grandi menzogne manipolatori e che siano mai state pronunciate. Comincia qui la fine della realtà per iniziare la frottola del compromesso.

È proprioqui si vengono a scontrare le due “bestie”  che vivono dentro l’uomo:  vi ricordate i due cavalli di Platone? Che se volete sono la spiegazione della natura ferita del peccato originale così come ce la spiega in maniera impeccabile San Paolo. Ma di nuovo restiamo dentro il territorio della ragione, senza farci aiutare dalla religione.

Ognuno di noi sperimenta  una frattura, tra le proprie buone intenzioni i propri comportamenti: banalmente lo vediamo anche nel tentativo di applicare una dieta, nello sforzo per seguire un programma di allenamento fisico.

Quando questa tensione, quando la caduta nel lato oscuro della forza mette a repentaglio ben più che i semplici elementi banali della nostra personale esistenza, come può essere la nostra forma fisica ad’esempio, allora scende in campo lo Stato che ha il dovere di curare…..  già, ma che cosa il dovere di curare lo Stato?
Perché vedendo quello che capita oggi, quali sono le leggi che cerca di imporci, sembrerebbe che anche lo Stato ha perso di vista il suo compito che dovrebbe essere quello di tutelare il bene pubblico, anzi: . Che sappiamo non essere la somma algebrica dei beni dei singoli, ma qualcosa di più grande:  qualcosa che riguarda la società nella sua interezza.  E prima di tutti il futuro della società.

Già perché questa è la ragione ad esempio del matrimonio,  come spiegano splendidamente
Sherif Girgis
Ryan T. AndersonRobert P. George nel loro libro che proprio si intitola Che cosa è il matrimonio (ed. Vita e Pensiero).
Per quale ragione uno Stato dovrebbe occuparsi della relazione tra due persone se questa non avesse influenza sullo Stato stesso e sul futuro della società?  Perché non regolamenta l’amicizia?  Perché non regolamenta lo spirito di squadra?  Perché non interviene Nelle relazioni tra i soci di una bocciofila? O tra coloro che condividono un appartamento per risparmiare sulle spese?  Perché interviene solo laddove all’interno della relazione si esercita la  sessualità?  Non sarà mica perché alla sessualità è intrinsecamente connessa la generazione di una nuova vita?

Lascio queste domande come stimolo alla vostra riflessione per tornare al punto che abbiamo appena sollevato:  che cosa sia il diritto perché e da dove nascano i diritti.

Ci siamo detti che sperimentiamo questa dualità tra desiderio e azione, va bene male, tra cavallo alato bianco e stallone nero che trascina verso il basso.

Ecco lo scopo del diritto così com’è stato pensato in tutti secoli fin dai padri del diritto:  gli antichi romani.  Limitare l’egoismo del singolo e difendere i più deboli. Anticipo subito le critiche possibili che sono giustificate dal fatto che nella storia molti sono stati deboli esclusi dal diritto. Ma non perché il diritto fosse sbagliato,  ma semplicemente perché il concetto di persona, cioè di essere vivente che fosse sufficientemente degno per poter vedersi riconoscere i diritti del diritto, era limitato in funzione di decisioni politiche e di credenze filosofiche.  Gli schiavi non erano esclusi perché non ritenuti deboli, ma perché non ritenuti persone.

Ma oggi il diritto non si pone più questo obiettivo: a partire dal divorzio in poi, il primo momento in cui il legislatore ha rinunciato ad applicare assicurazione per difendere il più debole e per limitare l’egoismo personale, il diritto oggi sancisce soltanto la legittimità di un capriccio, della volontà del singolo, del desiderio contro la realtà delle cose.

A guardarle bene sono tutte leggi ad personam: Nel senso che ormai non ci sicura più del bene della società, O anche solo del bene della persona nella sua dimensione relazionale. Ci si occupa soltanto del desiderio egoistico del singolo di avere, di essere, di possedere, di rendere i propri capricci realtà concreta.

Altro compito per i lettori: Elencare tutte le leggi emanate dal nostro Parlamento dal 1976 in poi che si configurano non come difesa del debole e come limitazione dell’egoismo ma come esaltazione del capriccio del singolo.  Vediamo che ne tira fuori di più.


Veniamo alla conclusione: se ciò che prevale è soltanto la spinta all’individualismo sfrenato, alla soddisfazione di ogni desiderio perché ogni desiderio è un diritto –nessuno ha mai provato a motivare in senso razionale perché ci debba essere un diritto ad avere un figlio perché allora non ci debba essere in diritto ad avere un marito/moglie o anche solo più prosaicamente ad un compagno;  perché non ci dev’essere un diritto a poter correre una maratona vuole essere assunto dall’azienda che desidero nel ruolo che voglio io- allora Se la società che stiamo costruendo parte da questo terreno, È inevitabile che si finisca in una società disperata e sola, Magari forse anche apparentemente sazia, come diceva il cardinal Biffi, ma sciaguratamente disperata nella sua solitudine.

domenica 14 febbraio 2016

Dieci domande ai costruttori di ponti




Ci fu una stagione in cui andava di moda porre le fatidiche 10 domande per capire il pensiero del destinatario, in realtà era un modo per aggredire, per un modo per condannare, neanche per giudicare

Perché giudicare vuol dire cercare di comprendere i fatti ed esprimere un parere sulle azioni secondo una misura che mi dice quali siano giuste quali sbagliate, quali per il bene e quali per il male.

No, lì si voleva proprio condannare, le domande erano retoriche più che altro. Erano domande solo nella forma: in realtà erano dito puntato contro.

Anticipo questo perché anch’io vorrei porre le mie 10 domande, e vorrei porle non con questa modalità accusatoria ma con lo stile di colui che a mio parere ha inventato effettivamente, e dopo questa parola il suo senso pregnante, il ragionamento condiviso: Socrate e la sua arte maieutica.


Perché le domande a questo dovrebbero servire: aiutare il ragionamento, condurlo, imbrigliare la non in una gabbia che stringa e soffochi, ma dentro le linee guida della logica, per proteggerlo dalla manipolazione, dalla distorsione, per tutti quegli artifici retorici che vogliono svilire il pensiero, spremere solo un’emotività impazzita, privare della ricchezza della ragionamento. Insomma quella modalità distorta e maliziosa che la rete ha schematizzato, come sempre succede, con una battuta bruciante acida, probabilmente cinica, ma anche molto efficace: #eimarò?

Le mie 10 domande vogliono guidare il pensiero e stabilire una base di confronto con coloro che sembrano interessati a lanciare ponti a tutti tranne che a coloro che sono scesi in piazza con il Family Day.  

A coloro che nel farlo si proclamano fermamente cattolici, alcuni di loro sono anche sacerdoti –e magari anche sacerdoti giornalisti- e mentre predicano la carità, anzi la sua versione politicamente corretta: la tolleranza, paiono essere –e sottolineo nuovamente l’importanza della scelta delle parole: paiono essere non vuol dire sono- totalmente disinteressati a mostrare una vicinanza, non dico addirittura fratellanza, a coloro che ritengono, talvolta anche giudicano essere,  i nuovi farisei.

Alloro in prima battuta rivolgo queste domande perché mi aiutino a comprendere, perché si aiutino a capire, perché si possa partire da un oggetto messo sul tavolo e non dà sensazioni e perché, a tutti è stato rivolto un invito, E non solo a coloro che si rifanno a una qualsiasi religione,  di rendere conto della propria speranza, di rendere cioè conto di ciò in cui credono.

1.     Secondo voi la fede cristiana parte ed è strettamente connessa con la realtà, con la natura, con la vera essenza delle cose, e quindi è una interpretazione più profonda di quelle che sono le verità del mondo, oppure è una sovrastruttura che va contro la natura dell’uomo imponendogli delle restrizioni, dei vincoli, che sono contrari alla sua natura vera? In altre parole: la fede cristiana è un aiuto sostanziale all’uomo per comprendere chi è e per raggiungere con più facilità la propria felicità, dando a questa parola il vero senso, oppure è una creazione umana che vuole privilegiare alcune interpretazione della realtà contro ciò che la vera felicità dell’uomo?

2.     Che cos’è il matrimonio –è una alleanza, cioè qualcosa che muta la natura dei contraenti,  oppure è un contratto, cioè un accordo che vincola le persone secondo un diritto- e qual è il suo scopo? Per quale ragione secondo la Chiesa il matrimonio deve essere un legame che dura per sempre?

3.     Qual è il compito del diritto:  proteggere il debole e limitare l’egoismo umano, oppure applicare le volontà della maggioranza?

4.     Esistono un bene e un male che precede le decisioni dell’uomo e alle quale l’uomo deve fare riferimento riconoscendole oppure tutto è opinabile e quindi contano soltanto le decisioni della maggioranza in un particolare contesto dello spazio del tempo?

5.     Che cosa sono i diritti? Da dove scaturiscono?

6.     Esiste un diritto ad avere dei figli?  Su quali basi rispondete a questa domanda?

7.     La pratica dell’utero in affitto è una pratica disumana in sé o semplicemente una forma contrattuale che deve essere normalità secondo una giurisdizione?

8.     Secondo le indicazioni della Chiesa, dalle sue origini oggi, l’unione sessuale tra un uomo una donna deve essere aperto alla vita oppure può,  approfittando delle novità della tecnologia e della meccanica,  negare questa possibilità in modo automatico?

9.     L’inclinazione sessuale verso persone del proprio sesso è una scelta libera,  una malattia, un orientamento lecito,  un disordine, la conseguenza della struttura genetica e quindi una possibile natura della persona o una alternativa culturale?

10. Il sesso di una persona influenza la sua psiche, I suoi comportamenti, il suo modo di essere oppure non ha alcuna influenza sulla vita della persona?


Ecco.
Con molta semplicità.
Senza nessuna malizia.
Senza voler pilotare in maniera scorretta il pensiero.
Senza imporre già la risposta attraverso una manipolazione retorica.
Con lo scopo di ragionare insieme.
Con lo scopo di mettere sul tappeto dei fatti per guardare insieme e cercare di tirare fuori quel filo che lega tutti perché ci permette di comprendere che cosa nella vita di ognuno, e nella natura delle cose è nascosto.
Per trovare la nostra felicità.


A voi le risposte.

sabato 13 febbraio 2016

L'amarezza per il furto della "natura"





C’è un profondo senso di amarezza, Di frustrazione ed amarezza. Non tale evidentemente da superare l’euforia per ciò che è accaduto sabato, e per aver incontrato è toccato con mano la passione di tante persone semplici, come tutti noi siamo ovviamente, con tutti loro limiti e le loro bellezze.

E non è neanche a causa dell’acredine, della rabbia folle si chi si vede messo all’angolo e contrattacca con un vigore che palesa soltanto il terrore di vedere sconfitta la propria volontà di potenza, senza rendersi conto che questo livore, completamente paranoico e di un’aggressività senza paragoni, invece che attirare simpatie non fa che allontanare le persone che rimangono disgustate dall’accanimento violento e volgare con il quale si attacca coloro che vogliono solo far presente loro punto di vista.

No.

L’amarezza nasce dal constatare che c’hanno tolto il linguaggio, che diventa difficile anche parlare con le persone più ragionevoli, quelle con i quali ponti si snodano senza problema, perché si parte da una base di rispetto reciproco, d’accordo magari annacquato da una passione viscerale che ci sta, e come se ci sta, ma mai negato, mai messo in discussione.
Diventa difficile parlare perché le parole hanno un significato diverso, perché il punto di partenza è tragicamente separato da un abisso che è difficile da colmare ormai, ma che dobbiamo in qualche modo superare se vogliamo ritrovare un punto di ragionevolezza che mette insieme le persone di buona volontà, a prescindere dalla loro fede, della loro appartenenza politica, dalla loro filosofia.

Prendi la parola natura ad esempio. Cerchi di spiegare che c’è una natura delle cose e ti rispondono che in natura ci sono anche le malattie e che allora dovremmo accettarle senza cercare di combatterle, E come ti permetti di parlare di natura se poi schiacci le zanzare.
E non capiscono che natura è un’altra cosa.
Quello di cui parli tu semmai è la biosfera, semmai è Gea,  l’unico organismo che hanno cercato di rifilarci come essere vivente, Per il mantenimento del quale è possibile uccidere i germi che lo mettono a repentaglio, come ad esempio gli uomini, e seguendo questo criterio c’hanno spacciato che la sovrappopolazione va combattuta eliminando fisicamente i nascituri.
Quelle di cui parli tu è l’oggetto di studio delle scienze naturali, che soltanto un derivato della natura come la intendo io.

La natura è il senso della vita il senso delle cose loro libretto di istruzioni il loro significato, la loro piena essenza.
Le leggi di natura sono dunque le regole che governano il funzionamento delle cose, sono i loro libretto di istruzioni, quello che conduce alla vera felicità. Se non le conosci ti fai male. È leggi di natura ad esempio la legge di gravità, puoi fingere di essere un “fisico adulto” e quindi ignorarla perché ti sembra Italia, vecchia, non adatta questo mondo fluido. Però ti ci scontri, anzi, per essere più precisi e un po’ macabri, ti ci sfracelli contro.

La natura di cui parlo io e l’essenza delle cose e conoscere questa natura è un modo per conoscere lo scopo, il funzionamento, la felicità delle cose punto e delle persone ovviamente perché ho usato il termine cose in senso filosofico non in senso di oggetti.

Puoi intervenire per migliorare la natura, ma prolungandola in qualche modo, non negandola, non cambiandole disegno e di segno. Prendi una chitarra: puoi farlo diventare elettrica, È una variazione rispetto all’originale. Ma sempre per suonarla. Non puoi prendere una chitarra e farà diventare una mazza, una pala, una racchetta.

Si ovvio certo che puoi, ma le stai facendo un uso distorto, un uso profondamente sbagliato, un uso malvagio.

Questa roba qui ce l’abbiamo dentro, la capiamo, anzi meglio live tu vogliamo: perché altrimenti ci sarebbe questo movimento di massa così energico e diffuso contro quelli che vengono chiamati organismi geneticamente modificati?

Per quale ragione sentiamo una certa repulsione verso la pratica di modificare degli organismi per farne qualcosa che non erano l’origine?

Perché percepiamo immediatamente, lo sappiamo per esperienza, che ogni modifica, ogni manipolazione di ciò che è natura produce delle conseguenze catastrofiche alcune delle quali possono essere immediate, altre a lungo termine.

E ce la prendiamo con il taglio dei boschi, ci schieriamo contro l’urbanizzazione selvaggia, contro la costruzione di abitazioni ai bordi dei fiumi, perché contro la natura non si può nulla. Stolti che non impariamo dalle cose che abbiamo sotto gli occhi!

Ma questo non basta, perché ci vediamo per vivere un’altra grande contraddizione: non ci rendiamo conto che noi diventiamo ciò che facciamo: l’azione si ripercuote sul soggetto e non solo sull’oggetto. Noi diventiamo quello che facciamo. Se io rubo divento ladro, se io mento divento bugiardo. E ognuno di noi sperimenta sulla propria pelle, perché è inutile negarlo lo abbiamo sperimentato di sicuro, che più facciamo una cosa più ci viene facile farla, e questo vale sia per le cose positive, sia per quelle negative. Aristotele, un filosofo greco non certo un santo un filosofo cristiano, le chiamava virtù. Ce lo siamo dimenticati. Ci siamo dimenticati che se ci sono virtù ci sono anche vizi. Il vizio vuol dire avere l’abitudine a fare cose negative, a crogiolarcisi dentro, ad esserne felici. A rotolarci con un maiale nel fango.

Ci stanno rubando le parole, stanno svuotando del significato, apprendo dalla rete che il rispetto si dà solo coloro che lo meritano. E pensare che io, sciocco, pensavo che rispetto fosse dovuto a chiunque per il solo fatto che si trattasse di una persona umana: fosse implicito nella sua dignità di persona.

Perché la fiducia la do a chi se la merita, mi metto nelle mani di chi se le merita; la stima la do a chi se la merita, dove valore alle competenze vuoi comportamenti di una persona che se lo merita. Ma il rispetto lo devo a tutti per natura.

Perché se dovessero meritassero le persone rispetto, a chi toccherebbe decidere se le persone se lo meritano oppure no?
Se il rispetto si deve meritare, il razzismo trova la sua breccia per arrivare nei cuori.
Perché coloro che dicono che rispetto uno solo devi meritare mi stanno permettendo, e questo è paradosso  caricaturale e provocatorio, Di detestare coloro che non la pensano come me, di detestare coloro che sono di una razza diversa, di detestare coloro che vengono da paesi diversi dal mio perché il rispetto non se lo sono ancora meritato, perché la loro cultura la trovo aberrante, perché lo stato di pulizia è inqualificabile, perché la loro ignoranza e abissale.


Ora il rispetto eh un attributo dovuto ad ogni persona, o altrimenti siamo tutti in guerra l’unico gli altri e lo possiamo fare perché mi siamo autorizzati.

A questo punto siamo arrivati a perdere le categorie di base a perdere le categorie del significato.


Ma c’è di più, un ultimo punto su cui vorrei soffermarmi prima di superare  la vostra pazienza:  questo folle desiderio della perfezione totale. Che si esprime nell’accusare coloro che non sono santi e immacolati di non poter difendere delle posizioni solo perché lottano quotidianamente per aderire ed essere degni dei propri valori.

C’è un totale incapacità capacità di comprendere che l’uomo non è perfetto, che si sforza di vivere secondo i valori, ma che non è automaticamente capace di farlo e lotta quotidianamente contro i propri limiti.
Poiché ormai alcuni ritengono che il comportamento fa la legge non capiscono più lo sforzo di ricerca di adeguare la propria vita i valori.  Infatti si ritiene che ogni cosa che io faccio sia giusta e che io affermi connessa la mia identità,  per cui affermare di voler difendere la famiglia tradizionale al contempo commettere degli errori, più o meno lievi o più o meno gravi, viene vista come una palese incoerenza quando invece è soltanto la fatica dell’obbedienza giornaliera ai propri valori.

Viviamo nell’assurdità in cui ognuno è libero, ma è inchiodato alla sua libertà, e deve per forza comportarsi secondo lo schema con il quale gli altri lo immaginano. In realtà sono libero di essere ingabbiato.

Per queste persone lo sforzo non esiste più perché pretendono sovrapposizione totale tra pensiero e azione tra chi sono e che cosa faccio tra cosa vorrei essere e come agisco. L’uomo è perfetto così com’è, e  questo convincimento nega la possibilità di crescita, nega il miglioramento, nega soprattutto la debolezza che è tipica dell’uomo.

Noi invece abbiamo ben chiaro qual è il concetto di debolezza e come ognuno di noi commette errori, non voglio chiamarli peccati per non farmi inscatolare nel mondo della religione, perché questo discorso vale per la persona in se non solo per la persona credente.

Noi conosciamo la fatica della vita di tutti i giorni, conosciamo la fatica di essere coerenti, conosciamo le infinite cadute che ci prostrano ma non ci piegan, non ci spezzano, non ci annichiliscono,  non ci tolgono la dignità.

Poiché questi altri odiano l’errore, odiano sporcarsi le mani con le mancanze, Sono costretti a negare che si possa sbagliare e perciò ogni cosa che fanno la traducono in legge, la traducono in un diritto. Ma ci sono diritti che non sono nient’altro che dei capricci.

Per questo sabato eravamo in tanti. Quanti? Il numero è irrilevante, come ha scritto un mio carissimo amico Alan Patarga, eravamo in numero sufficiente per essere autorevoli.

E per ognuno di noi, a casa ce n’erano altri 10 che avrebbero voluto essere lì e che sostenevano le medesime idee.


Incominciamo imparare a raccontare a tutti riappropriandoci del senso delle parole.