Quando i cinquant’anni sono stati raggiunti e superati con la velocità del suono di una sirena arrabbiata, tre sono le possibilità che rimangono all’uomo che non vuole rimanere ad attendere l’impatto indifeso e inconsapevole: farsi l’amante, farsi una macchina rossa, scrivere un blog. Dato che mi state leggendo (davvero? Mi state davvero leggendo?) avete compreso che ho scartato le prime due ipotesi. E per scelta volontaria e creduta, non certo forzata.

Ma che cosa e perché scrivere? Condividere, o l’illusione di farlo, aiuta spesso a sentirsi in compagnia di fronte alla piccole battaglie della vita: quelle grandi, si sa, le si può affrontare solo in compagnia di se stessi, senza nessuno scudiero o cavaliere al proprio fianco.

La prima delle sfide e quella che affettuosamente potremmo definire di san Giuseppe, che di fatto nomino mio speciale e personale protettore confidando sulla sua ironia e bonomia. In che cosa consiste questa sindrome? Nel sentirsi ovviamente il più imperfetto della famiglia dovendone invece apparire la guida salda. Non che con questo voglia affidarmi a una melliflua umiltà fasulla, l’autocompiacimento di sentirsi negare la denigrazione e gustare così una vanitosa ricompensa per la propria maliziosa modestia. Affatto. Lauto compiacimento può derivare solo dalla concretezza. Non che non sia vanitoso, tutt’altro: la vanità è sempre in agguato, come ben sa il diavolo impersonato da Al Pacino nel mondo degli avvocati.
Gli è che essendo proprio vanitoso e anche intelligente, so bene che l’ambizioso deve attingere a piene mani all’umiltà: per crescere, ambizione che può essere anche nobile e saggia, bisogna capire dove migliorare. E per capirlo non c’è che l’umiltà.
L’ambizioso vanesio e superbo farà una brutta e rapida fine.

Quindi qui sto: con una moglie tendente alla perfezione, pur con difetti marginali che provocano in me tanto irritazioni quanto ammirazione per la loro trascurabile banalità; con tre figli che, come recitano brutti film, hanno preso maggiormente da me i difetti, e quindi non posso accusarli di una eredità che ho trasmesso loro; con un lavoro che amo e che ogni mese mi sfida sempre di più, aiutandomi a non fare mai mia la sicurezza.
Di che scrivere dunque?

Della precarietà, della inadeguatezza che mi rende comico a me stesso, specchio delle cose che ho appreso e che rivedo, con squarciante veridicità, nel mio quotidiano.

venerdì 8 settembre 2017

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sabato 22 aprile 2017

L’amore senza inganno



L’amore senza inganno
di Paolo Pugni

C’entra sempre l’amore, è tutto qui. C’entra l’amore come strada per vincere la morte. Ma di quale amore parliamo?
No, non è che ho sbagliato e ho copia-incollato l’inizio dell’articolo della scorsa settimana. È che ci ho pensato a lungo, grazie anche ai commenti che mi sono arrivati da amici e meno amici.
E da (dis-) e –avventure varie capitate in rete, sui social media in questi giorni.
Tutto ruota intorno a questo, intorno alla comprensione di che cosa sia l’amore e che cosa comporti. E di come si faccia ad amare, innanzitutto se stessi. Questo però non deve essere il centro, ma il motore. E la cosa è molto diversa: ama il prossimo tuo COME te stesso e non, come mi ha fatto notare una cara amica per mostrarmi dove si è arrivati oggi, ama il prossimo tuo DOPO te stesso.  Un DOPO che non arriva mai, di solito.
Perché è sempre dall’amore che nascono i falsi miti, i quali, anche quando non sono manipolati da persone senza scrupoli che distruggono coscienze e vite per i loro interessi economici, politici e di potere -sempre ideologici comunque- sono lo specchio più o meno inconsapevole di un egoismo profondo che cerca l’amore che non conosce.
Perché senza amore non si vive.
Everybody need somebody to love…. E soprattutto di essere amato da qualcuno.
Dicevo già la scorsa settimana che chiunque, anche nella più profonda perversione egoistica, ha il desiderio profondo di essere dalla parte della ragione: nessuno vuole sbagliare, nel senso di fare male o addirittura di fare IL male.
Per questo si vogliono elevare i capricci a possibilità, libera scelta, addirittura unico bene. Perché anche se la società consente ogni esercizio della propria libertà, se questo non viene “amato” cioè riconosciuto appunto come un bene, inquina il cuore. Noi cerchiamo approvazione. Non vogliamo essere esclusi.
Il coniuge traditore ricerca giustificazioni, anzi di più: non gli/le basta la comprensione, che è sempre comunque illuminata dalla pietà, vuole l’approvazione che esalta invece di compatire. “Hai fatto bene, era la cosa migliore da fare” vuol sentirsi dire per affogare i sensi di colpa che invece stanno sempre alla superficie.
Lo studente che bulleggia il compagno vuole l’approvazione, derubrica –complice la famiglia- a scherzo la violenza, perché la satira è sempre ammessa: siamo tutti charlie, vero?
I violenti volgari bolognesi che mettono in scena una blasfema parodia, non si scusano: hanno agito bene loro,  hanno reagito all’inquinamento della Chiesa, quindi semmai la colpa è di quest’ultima, non loro.

Leggo sui social “se Dio esiste e ha creato tanti gay significa che sono sue creature naturali e che devono fare l'amore come due etero”.
Questa frase contiene un numero impressionate di errori, a partire dal fatto che nell’originale Dio era scritto con la minuscola. Confonde la creazione con la libertà dell’uomo, la natura con i comportamenti. Potremmo argomentare allora così: “se Dio esiste e ha creato tanti assassini, significa che sono sue creature naturali e che possono sparare a chi vogliono”.
O peggio così “se Dio esiste, e ha creato tanti carnivori, significa che sono sue creature naturali e che devono mangiare come vogliono”.
O ancora: “se Dio esiste, e ha creato tanti cacciatori, significa che sono sue creature naturali, e che devono ammazzare tutti gli animali, di qualunque specie, come piace a loro”.
Non mi interessa proseguire su questa linea ma sottolineare il senso che ci leggo dentro, tra le righe: il bisogno di sentirsi naturali, di sentirsi amati, di sentirsi approvati.
Ora l’amore, chi crede in Cristo, non lo negherà mai nessuno a nessuno. Non dico che sia facile, non dico che sia alla portata di tutti, ma per lo meno una cosa noi che ci riteniamo credenti abbiamo chiaro in modo inequivocabile: saremo giudicati sull’amore, e ogni mancanza d’amore verso chiunque -verso ogni peccatore quindi, perché tutti lo siamo- ci verrà addebitata come responsabilità grave.
Saremo giudicati secondo come giudicheremo.
Per cui se non sappiamo amare anche la peggiore persona al mondo, chi ci ha fatto più male, ce ne verrà chiesto conto. Mica facile, ma è così.
Nel mentre però ci viene chiesto, proprio perché non siamo noi a dover giudicare, di non manipolare neppure il… codice giuridico, che è stato stabilito da Dio.  Non possiamo fare leggi a nostro uso e consumo.

Dobbiamo fare la verità nella carità.

Che cosa ha a che fare tutto questo con i falsi miti di progresso?

Per spiegarlo metto sul tavolo un ulteriore elemento: la misericordia e l’anno santo che le è intitolato che inizierà a dicembre.
Sì, un anno santo che è Grazia, perché abbiamo tutti bisogno di una misericordia infinita, e il compito di noi credenti, in questo ospedale da campo, oggi, qui, adesso, ad ogni persona che incontriamo, sta proprio nel ricordare questo, che Dio ama il peccatore.
Non quindi “ricordati che devi morire” o “pentiti e credi al Vangelo”, ma oggi è il tempo di “Dio ti ama e ti perdona ogni cosa”.
E qui casca l’asino; e qui si fa difficile per noi. Perché Gesù ci ricorda che c’è un solo peccato che non verrà mai perdonato: "Qualunque peccato o bestemmia verrà perdonata agli uomini, ma la bestemmia contro lo Spirito non verrà perdonata" (Matteo 12,31). Sarà mica proprio quell’atteggiamento che fa pensare all’uomo di non avere colpa alcuna? Di non avere bisogno di Dio? Di potersi dare il perdono da sé? Di non essere bisognoso di misericordia perché non esiste l’oggetto necessario? Di voler essere amato da Dio come giusto? Un po’ come quei giudei –che avevano creduto in Lui!- che si ritenevano liberi per definizione, per eredità: «Noi siamo discendenti di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno. Come puoi dire: “Diventerete liberi”?» (Giovanni 8,33).
Ecco il falso mito: voglio che tu mi ami perché io sono quello buono, non ho colpa, la colpa –hai un demonio!- ce l’hai tu che insisti nel dire che sbaglio.
E qui si svela un altro effetto collaterale devastante dei falsi miti: si può amare solo il giusto; chi sbaglia non va amato, va disprezzato, va distrutto.
Fateci caso: le categorie che vengono sostenute dai profeti dei falsi miti sono tutte idealizzate, non c’è macchia in loro. Non riescono ad affermare che al loro interno ci sono ladri ed assassini, colpevoli e approfittatori. Non possono! Perché vorrebbe dire ritornare al piano della responsabilità individuale e del confronto con la verità. E questo distruggerebbe il falso mito.
Questi profeti di una falsa libertà possono amare solo i perfetti, i puri, chi è nel peccato è da togliere dalla faccia della terra. Sono figli dei farisei dei tempi di Cristo: “Sei nato tutto nei peccati e vuoi insegnare a noi?” E lo cacciarono fuori (Giovanni 9,34).
Non capiscono come si possa distinguere l’errore dall’errante, proprio perché non sanno amare: non riescono ad ammettere che ci siano persone che amano la persona anche se detestano il suo errore.
Esula dai loro schemi, dalle loro categorie di ragionamento.
Come si fa a condurre alla misericordia chi, sulla branda dell’ospedale da campo, rifiuta il medico perché pretende di non avere ferite?
Mi faccio aiutare a cercare il bandolo da un inaspettato suggeritore, Roberto Vecchioni, che alle sue canzoni ha affidato una saggezza più profonda di quanto non possa sembrare al primo ascolto.
Tre sono le canzoni che prendo a prestito per gettare luce sulla vicenda, sempre che poi io riesca a cogliere il riflesso –ma qui cado in piedi perché conto sull’aiuto dei lettori!- e tirare fuori un piano d’azione utile.

La prima è L’estraneo (infiniti ritorni) che disvela come divellere questa resistenza ideologica: in una sera di Gerusalemme il primo incontro con Dio produce fastidio, irritazione:

“Ho visto un Dio che mi veniva incontro
e ho provato tutto per scappare,
ma lui insisteva: "Dài, fatti salvare,
ho tanto amore, amore, amore...". 

Dio insiste, con tale coraggio da sembrare folle in questa volontà di salvare tutti:

“E in un cortile di Gerusalemme
che aveva scelto lui da chissà quanto
mi abbracciò e baciò e stava delirando,
e aver capito tutto in un istante
fu come morir le morti tutte quante
e non volere essere più niente, niente, niente...” .

E’ la morte che dà senso alla vita, come dicevamo tempo fa.  Ma il processo di conversione, di abbandono dell’io, non è lineare, non è semplice. Si torna indietro perché lasciare la zavorra dei propri piaceri è difficile, è come un elastico fissato alla schiena:  ti lascia crede di esserti liberato dalla gabbia e poi ti tira di nuovo a sé con un abbraccio ancora più violento.
Così incontri di nuovo Dio in treno e di nuovo lui vuole aiutarti, e parte dalla realtà a raccontarti il mondo, ma tu non ci stai, vuoi vivere la vita come ti pare:

“Lasciami
questo sogno disperato
di esser uomo,
lasciami
quest'orgoglio smisurato
di esser solo un uomo:
perdonami, Signore,
ma io scendo qua,
alla stazione di Zima. 

Con te, Signore
è tutto così grande,
così spaventosamente grande,
che non è mio, non fa per me” 

Questo è il punto chiave: la misericordia si effonde su tutti, ma resta solo su coloro che la accolgono. E per accoglierla bisogna sentirsi peccatori, o anche solo desiderosi di una vita “spaventosamente grande”. Finché te ne vuoi stare chiuso dentro alla tua piccolezza –o meschinità?- finché resti alla stazione di Zima, il perdono non potrà abbracciarti, perché Dio non può salvarti senza di te, senza il tuo consenso.
Questo è il mondo di oggi. Il mondo che rifiuta Dio perché non vuole sentirsi per nulla in colpa, il mondo in cui nessuno vuole essere colpevole e quindi abroga la legge e distorce la natura.
E come fai a dialogare con gente così? Come è possibile un dialogo con chi ha già deciso che tu sbagli perché hai una verità, perché la verità non esiste, anzi tutti ne hanno una, tutti sono charlie, tutti tranne tu che ritieni di avere una verità vera, perché allora dai fastidio, allora sei intollerante? Vale la pena dialogare con questa gente? O non è un dare loro un palcoscenico per confondere i semplici? Stiamo aiutando il demonio illudendoci di dialogare?
Eh sì, è vero: sono intollerante, come ha scritto in poche righe da premio Pulitzer, da premio Benedetto XVI ancora meglio, don Fabio Bartoli qui sabato scorso.
Sono intollerante perché amo e non voglio dare ragione solo per una falsa cortesia, per dimostrare -soprattutto a me stesso e quelli della mia parte- che ti sopporto (perché questo vuol dire tollerare, implica una dimensione superiore, una spocchia appena celata, una sufficienza annoiata). Invece io voglio capire che cosa sei e in che cosa credi, per amarti come sei, e proprio perché ti amo raccontarti la verità, mostrarti la piaga, aiutarti a curarla.
Come fai ad amarli questi qui che ti sputano in faccia appena indichi la piaga? Che ti danno del pazzo perché dici di vederla, toccarla quell’ulcera, di conoscerne le conseguenze?
Come si ama in un ospedale da campo?
Ecco come risponde Vecchioni, tre versi da tre canzoni:

Pazienza, ci vuole pazienza e attesa del momento giusto

“E il mio vecchio che sa la verità
guarda il tramonto dalla collina:
da qualche punto lontano
suo figlio tornerà.”

Ma non basta: bisogna andare incontro con questa pazienza

“Guardami,
io so amare soltanto
come un uomo:
guardami,
a malapena ti sento,
e tu sai dove sono...
ti aspetto qui, Signore,
quando ti va, alla stazione di Zima.”

Certo ci vuole un cuore che aspetti, che Lo aspetti, e allora per prepararlo questo cuore bisogna saper amare in molti modi

“Forse non lo sai ma pure questo è amore”  canta il professore in Stranamore.
E se vai a vedere bene in tutti (beh quasi tutti diciamo) i quadretti di questa delicata canzone del 1978 l’amore è gratuità, è donazione, è coraggio, è qualche cosa di più grande di me, che va oltre l’egoismo, ben oltre: che si tratti di avere a cuore un ideale o una persona, una figlia o un coniuge, c’è questa dimensione di sacrificio, che non è se non rendere sacra una relazione che conta. Ben altro che il “love is love” con cui i falsi miti oggi sdoganano ogni capriccio e voglia.

Il punto però non è l’annuncio della verità, non solo: la sfida che ci viene chiesta è la sintesi, come i tre ultimi Papi, che in questa tempesta devono governare non solo la barca di Pietro ma quella dell’umanità,  la sintesi di fare la verità nella carità.

Come sappiamo amare noi tutti questi fratelli imbevuti dei falsi miti, accecati dai profeti di sventura, illusi che quello che non è se non l’applicazione del loro egoismo sia una forma nuova di amore, trascinanti da profeti che fanno credere loro che quella roba lì sia amore?

Non lo so. Non lo so perché sono anche io qui a lottare con il mio egoismo, con la voglia di lasciargliela lì come fosse un gioco questa vita, e rintanarmi nel mio buco come i ramarri che ritirano la testa quando è buio, quanto è tardi, quando è freddo, quando tutto sembra caderti addosso. E chi me lo fa fare di amare? Invece Lui insiste, la carità di Cristo ci spinge, ci trascina, ci chiama fuori, ci impone –un dovere d’amore- di metterci la faccia. Come non lo so, so che devo amare.

E se qualcuno mi aiuta, ci aiuta, a capire come, prometto che lo abbraccio.