Quando i cinquant’anni sono stati raggiunti e superati con la velocità del suono di una sirena arrabbiata, tre sono le possibilità che rimangono all’uomo che non vuole rimanere ad attendere l’impatto indifeso e inconsapevole: farsi l’amante, farsi una macchina rossa, scrivere un blog. Dato che mi state leggendo (davvero? Mi state davvero leggendo?) avete compreso che ho scartato le prime due ipotesi. E per scelta volontaria e creduta, non certo forzata.

Ma che cosa e perché scrivere? Condividere, o l’illusione di farlo, aiuta spesso a sentirsi in compagnia di fronte alla piccole battaglie della vita: quelle grandi, si sa, le si può affrontare solo in compagnia di se stessi, senza nessuno scudiero o cavaliere al proprio fianco.

La prima delle sfide e quella che affettuosamente potremmo definire di san Giuseppe, che di fatto nomino mio speciale e personale protettore confidando sulla sua ironia e bonomia. In che cosa consiste questa sindrome? Nel sentirsi ovviamente il più imperfetto della famiglia dovendone invece apparire la guida salda. Non che con questo voglia affidarmi a una melliflua umiltà fasulla, l’autocompiacimento di sentirsi negare la denigrazione e gustare così una vanitosa ricompensa per la propria maliziosa modestia. Affatto. Lauto compiacimento può derivare solo dalla concretezza. Non che non sia vanitoso, tutt’altro: la vanità è sempre in agguato, come ben sa il diavolo impersonato da Al Pacino nel mondo degli avvocati.
Gli è che essendo proprio vanitoso e anche intelligente, so bene che l’ambizioso deve attingere a piene mani all’umiltà: per crescere, ambizione che può essere anche nobile e saggia, bisogna capire dove migliorare. E per capirlo non c’è che l’umiltà.
L’ambizioso vanesio e superbo farà una brutta e rapida fine.

Quindi qui sto: con una moglie tendente alla perfezione, pur con difetti marginali che provocano in me tanto irritazioni quanto ammirazione per la loro trascurabile banalità; con tre figli che, come recitano brutti film, hanno preso maggiormente da me i difetti, e quindi non posso accusarli di una eredità che ho trasmesso loro; con un lavoro che amo e che ogni mese mi sfida sempre di più, aiutandomi a non fare mai mia la sicurezza.
Di che scrivere dunque?

Della precarietà, della inadeguatezza che mi rende comico a me stesso, specchio delle cose che ho appreso e che rivedo, con squarciante veridicità, nel mio quotidiano.

giovedì 31 gennaio 2013

Scelta univoca




Conversazione realmente sentita in aereo, volo di rientro Fiumicino – Linate, sabato sera: lui è un uomo sui trentacinque, accento pesantemente romano
“Ma amorino mi aiuti a capire come mai con questo telefono di dieci parole che dici ne sento quattro?”
“No, è che queste telefono quando parli sembra che tu abbia una patata in bocca”
“Non ho detto che hai una patata in bocca, ho detto che…”
“Certo è colpa del telefono. Del mio telefono. Che sono in aereo.”
“Certo amore, il risotto è molto buono”
“Beh anche le tagliatelle vanno bene”
“Scegli tu che sei una donna decisa”
“Sicuramente il risotto va bene con questo freddo”
“Beh  chiaro che le tagliatelle si fa prima a farle, il risotto richiede tempo e cura”
“Va benissimo, per me va benissimo tutto quello che fai”.
“D’accordo allora per i maccheroni”.
 I commenti li lascio per la prossima volta…

martedì 29 gennaio 2013

Il chiosator scortese




E poi c’è il chiosator scortese che ogni post non gli va bene.
Tu scrivi e patapam arriva la critica, la precisazione, il dettaglio. Mai la domanda. Perentorio il chiosatore ti fa la predica, che se scrivi che cosa ci fa una ragazza alle 6.30 di mattina, dentro l’aeroporto senza finestre, con indosso occhiali da sole da vamp, così per deridere le stranezze dei costumi, ti bacchetta affermando, sicuro, che avrà un glaucoma o la congiuntivite.
E se fai una battuta non la capisce e puntualizza e così risponde a una domanda retorica mostrando se non altro che sei stato incapace di mettere agli atti quella tua voglia di giocare con le parole e i concetti.
Il che è una bella lezione.

domenica 27 gennaio 2013

Sliding doors: della porta e della rete



C’è un’immagine ricorrente che tormenta i miei sogni, e che mi riprende per i capelli spesso per trascinarmi indietro nel tempo fino ad un pomeriggio grigio di primavera del 1977 o giù di lì. Torneo di calcio del liceo, giochiamo contro la B, odiata rivale non solo sportiva. Trovo posto in squadra per via di qualche assenza non prevista. E vivo il mio momento speciale.
Accidentalmente schierato all’ala destra, grazie ad un contropiede acceso da un rimpallo, mi trovo a correre da solo palla al piede verso la porta avversaria inseguito ad oltre sei metri dal più vicino dei difensori avversari.
Ecco è uno di quei momenti in cui senti che tutto può cambiare, quei momenti che nei film ti fanno vedere da cinque o sei angolature diverse, al rallentatore, dove l’eroe fronte alzata e viso intenso, sa di stare per entrare nella gloria e già pregusta lo sciogliersi della tensione in sala allorché non deluderà il suo pubblico. E se invece dell’eroe si tratta dello sfigato di turno, quello che tutti sanno già che sbaglierà tutto, già si legge sulla sua faccia quell’amarezza sofferta e un po’ strappalacrime.
E invece quando capita a te quel momento non dura mica dieci minuti, ma neppure dieci secondi forse e siccome non sai come va a finire c’hai dentro tutto e il suo contrario e sai già che comunque vada quel momento lì te lo porterai dentro sempre e un impatto insomma ce l’avrà.
Quindi nel ricordo quell’azione finisce con il mio tiro che s’infrange sul braccio alzato del portiere che si stava lanciando contro di me al limite della sua area e con la partita che finisce 0 a 0. E non si sono preso neanche le parole dei compagni, che quando non ti aspetti nulla da una schiappa non puoi poi chiederle conto degli errori. Ecco.
Ecco che però nel sogno quel pallone supera il portiere, morbido, leggero, lentamente e con lievità e dolcezza gonfia la rete e tutti mi corrono incontro e mi abbracciano e ne parlano e lo raccontano e il mio nome resta scritto da qualche parte.
Allora forse è il rimpianto che domina i miei pensieri? Che io vivo dentro una bolla dove un gol mancato strizza come uno schiaccianoci?
No. Anzi. C’è che questa roba qui ti fa pensare, come la vita poteva cambiare e non lo ha fatto o forse invece è cambiata perché quel pallone poteva andare dentro e non c’è andato e forse ho conosciuto mia moglie proprio perché non sono diventato l’eroe della partita. 
E tutto cambia. Ti accorgi che la tua ricchezza non sta nel desiderare quello che avresti potuto essere, ma nell’amare con tutta la forza quello che sei. E continuare a meritartelo! 

venerdì 18 gennaio 2013

L'amico che ti apre le porte del cielo





Carissimo Gianni, lasciatelo dire: sapessi quanto mi manchi.
Lascia che ti scriva di nuovo, perché forse non sono riuscito a farmi capire, che non avevo sussurrato a sufficienza, e non avevo aperto il mio cuore senza prima averlo ripulito dalle scorie e dalle amarezze.
Perché non so se ti ricordi: eri quello aperto e disponibile, un po’ boy scout ingenuo, un po’ chitarrista spensierato. Una via di mezzo tra i ragazzi dell’oratorio e quelli del collettivo. Stavi defilato in classe, per questo mi piacevi: non eri tra quelli che vedevo lontani, lanciati su mondi che non sapevo nemmeno immaginare, io un po’ nerd e un po’ imbranato, ma neppure tra quelli che persino io consideravo impresentabili anche se a 13 anni, nel pianeta della scuola media, tutto si colora solo in bianco e nero, e senza mezze misure è difficile separare le mezze calzette dalle mezze speranze.
Per questo c’eri tu. Che mi hai preso per mano e tirato fuori da un buco nel quale stavo sprofondando: quello della depressione pre-adolescenziale, quel non sentirsi all’altezza di un mondo che cambia, perché mentre sfumavano i sabati a giocare a subbuteo o a calcio e si affacciavano i pomeriggi a filare le ragazze e ad esplorare il territorio disegnato dalla pubertà, io perdevo colpi, arrancavo, scivolavo indietro e ne ero atterrito.

Io timido, io intimidito, io timoroso, io sensibile, io crudele, io tradito. Io. Sempre io. Solo io. Al centro. Di che cosa poi? Della mia solitudine? Del mio egoismo!

E tu mi facesti scivolare dentro nella vita una consonante che cambiò tutto. Una banale D che non voleva ancora dire bocca spalancata nelle risate, perché gli emoticon non erano nemmeno ipotizzabili, figurati la rete che per parlarsi bisognava stare in piedi davanti al telefono a muro inchiodato in corridoio!

Mi spiegasti, te lo ricordi ancora? Io sì, era domenica pomeriggio e pioveva e percorrevamo sicuri piazza Pompeo Castelli evitando le buche piene d’acqua, che era ora di lasciare da parte quell’io fastidioso e iniziare a pensare a Dio. Perché anche la commiserazione è egoismo. Fulminante. In quell’apparente mancanza di autostima si nasconde una rivendicazione rabbiosa di supremazia: un’ira fumosa che attinge imperiosamente dalle profondità dell’egoismo per imporre un’attenzione che non andrebbe neppure supplicata. Che entrambe sono figlie di quel peccato va sotto il nome di superbia. 

Perché quel seme che buttasti allora, ha germogliato lentamente ed è sbocciato con fragranza nell’età adulta, quando tutto perde la confusione di passioni accese e con l’ombra assume profondità: l’ho rivista milioni di volte quell’acidità di chi si erige a vittima, brandendo la propria banalità come una clava e incolpando il mondo di indifferenza, o peggio di insensibilità, quando invece dovrebbe scegliere il nascondimento e il servizio per ritrovare dapprima la dignità e poi la stima di Chi sa vedere nel nascosto, e magari poi anche di chi vede solo ciò che sta sotto il sole. Tu allora me la indicasti sottotraccia, con parole di un ragazzino appena sbozzato, ma con una lucidità che ancora oggi ti riconosco.
E lo facesti con una sicurezza che per me che ti ammiravo fu un colpo di frusta. Mi sbattesti in faccia le responsabilità, come quella volta che continuavo a rimandare il rientro al corso di judo dopo uno strappo e mi affrontasti a muso duro per dirmi che non ero onesto con me stesso e che dovevo decidere che cosa fare della mia vita. Perché eri così Gianni, secco e sicuro, come un eroe a cavallo, come John Wayne, un po’ solitario, ma non troppo, un po’ affascinante, ma senza svenevolezze. E sicuro, lo dico ancora, di quella fierezza che ti portava a esigere la medesima rettitudine si trattasse di avere fede –che mi rimproveravi di aver perso la Messa domenicale- o di superare la paura di affrontare un istruttore di judo che mi trattava un po’ male, da pischello, da deboluccio qual ero –la codardia è sempre stata la mia fragilità maggiore- perché per te il grigio non aveva non dico cinquanta sfumature, ma neppure ragione di esistere.
E ancora me lo tengo nel cuore perché accidenti sì come mi hai fatto male quel giorno. E quindi bene. Mi hai costretto a guardare in faccia la mia pigrizia e a prendere partito: o di qua o di là, come il bicarbonato che mia nonna diceva sempre che fa sempre effetto (o va giù o tira su). Così mi son buttato di qua, con la Grazia del tuo rimprovero e lo sconto che tu mi hai donato dinnanzi a Dio e sei stato il primo di una strada in cui al momento del bivio -no anzi a quello della locanda dove sostare una notte e che invece ti attirava come le sirene di Ulisse a non andartene più via, a fare casa invece che proseguire il viaggio- ho sempre trovato un samaritano che mi ha preso per il bavero, compelle intrare, e apostrofandomi come lo furono i discepoli di Emmaus, mi ha strappato via dalla comodità per portarmi avanti, un passo in più almeno, un confine in più: Alberto, Paolo, Giuseppe. Che tanto nessuno sa chi sono se non io.
Ecco, eri così Gianni e adesso? 

Adesso non lo so perché ti nascondi, ti neghi, non ti fai trovare, nascondi i tuoi recapiti neanche fossi una spia bolscevica. Se imploro l’unico tramite che ci unisce, da lui ottengo solo un fermo invito a lasciar perdere a far come se tu non esistessi più, fossi sparito dalla circolazione. E no che non posso farlo. Non si lasciano perdere le pietre miliari. Che ne è stato di quella fierezza, di quella fronte alta sempre al sole?

Tanti anni e siamo estranei potresti dirmi: ma non che non è vero! te lo ricordi quel verso di Vecchioni che commentavamo seduti sopra una barca rovesciata sulla spiaggia insieme a quella che sarebbe diventata tua moglie? "Non si è soli se qualcuno se ne è andato, si è soli se qualcuno non è mai venuto". Come si fa ad essere estranei quando i ricordi sono condivisi? Magari ti riattacchi a quelli, magari finisce per essere un po' malinconico, romantico. Ma va bene istess! E' come andare in bicicletta: non te lo scordi mai.

Che poi forse non è neanche vero che ti nascondi: forse è autodifesa. Forse sono io che sono scappato via.

Chi sono io per non ipotizzare di essere stato io quello che ti ha ferito e ti ha costretto a scappare, per difenderti, per non restare ferito troppo a fondo? Perché una cosa l'ho imparata: si può ferire a morte anche chi si ama senza accorgersene, perché siamo così insensibili tranne che per i presunti colpi che diciamo ricevere dagli altri. Se quindi ti avessi in qualche modo deluso o addolorato, non so se riuscirai a perdonarmi, ma sappi che non c'è stata malafede. Siamo così fragili, così incapaci di volere bene ricambiando coloro che ci stanno dando tutto, così banali nelle nostre scelte, che potremmo pugnalare il migliore amico senza rendercene conto. E ad evitare ogni equivoco, sono io quello che brandisce l'arma della quale si sta parlando. Sia chiaro.

Per cui, per farla breve e non tediarti oltre sappilo, per me resterai sempre quel tredicenne che sotto la pioggia mi apriva le porte del cielo. 

E quella immagine sarà il mio ricordo di te. Insieme ad un'altra che sta qui scolpita forte e chiara: Porto San Giorgio, estate, piazza Mentana. Tu con tuo fratello e Gino seduti nell'erba. Io che arrivo. E tu che suoni e canti quei versi che avevo scritto su Villenueve. Questa è l'icona dell'amicizia che non tramonta mai.

sabato 12 gennaio 2013

Ciò che è fondamentale




Ho espresso un proposito, che era un suggerimento ai miei amici di rete, per questo 2013 e che cosa proverei di me se non fossi il primo a metterlo in pratica?
Ho scritto “Proposito 2013: fissare un set di valori, cosa è l'uomo quale il suo fine, e sforzarci di pensare, agire, vivere relazioni conseguentemente”. Ne consegue che se voglio essere coerente devo proporre, qui, nero su bianco, questo set di valori fondamentali, di cose in cui credo senza timore di smentita, di linee guida sulle quali mi sforzo di condurre la mia vita. E offrirle, non per convincervi a seguirle, -cosa che peraltro non sarebbe una mia vittoria personale, ma piuttosto di chi questi li ha ispirati- ma per sapere con chi avete a che fare e per aiutarmi quando esco fuori strada.

I miei valori fondamentali dunque sono:

1)   Esiste un vero che ci precede, in senso sia logico che cronologico e questa verità noi dobbiamo sforzarci di scoprirla, senza perdere tempo a presumere di dettarla.

2)   È la verità che ci farà liberi, non la libertà che farà il vero

3)   Sé c’è una verità da cui tutto discende esiste allora anche un bene e un male veri sempre, in ogni epoca, in ogni luogo, al quale dobbiamo uniformarci.

4)   Se c’è un vero e un bene c’è anche un bello universale: il che vuol dire che buona parte dell’arte moderna è inganno e wannamarketing.

5)   Che la mia libertà finisca dove inizia la tua è una delle più grandi menzogne che l’uomo possa raccontarsi: le nostre libertà finiscono dove finisce il vero. Il resto on è libertà, è schiavitù del male.

6)   Esiste una natura, che non va intesa banalmente come creato (quella è una semplificazione ambientalista, che è fondante la realtà e la verità. E questa natura ha delle leggi che dobbiamo seguire perché infrangerle ha conseguenze gravi.

7)   La legge non è una costrizione, ma la strada per la libertà: come le regole di un gioco o della musica fanno più dolce la loro fruizione.

8)   Siamo creature e come tali degne di massimo rispetto. Siamo fratelli. Il che implica, per chi non l’avesse consapevolizzato, che siamo figli di un medesimo Padre. Se non lo fossimo, non saremmo neppure fratelli. Togliere la paternità comune non ci rende neppure parente. E madrenatura non vale come fonte comune.

9)   Ogni persona va rispettata in quanto è creatura ed ha la medesima dignità di ogni essere umano, a prescindere dalle sue opinioni e dai valori nei quali crede. vero
a.     Corollario: il rispetto è dato alla persona non a chi che afferma o professa o come si comporta.
b.     Secondo corollario: dissentire dai pensieri, parole, opere e omissioni di una persona NON significa mancarle di rispetto o tanto meno odiarla, significa solo NON essere d’accordo con ciò che pensa, dire, fa e omette di fare.

10)                 La principale virtù di un uomo è l’umiltà, perché le conseguenze di questo atteggiamento vanno dal cielo alla terra.

11)                  Le virtù che ritengo irrinunciabili nel mio (e altrui) comportamento di ogni istante sono: onestà, coerenza, correttezza, lealtà, ordine, carità. Le altre discendono da queste.

12)                  La libertà e la dignità di persone si basano sulla capacità di prendere decisioni, il che implica che ci sia una capacità intellettuale ed una volontà che spinge ad agire. Senza di esse non si dà nessuna libertà. Con esse però si dà anche la responsabilità delle azioni, delle quale dobbiamo dunque rendere conto. Questo rende gli uomini qualitativamente diversi dagli animali: la responsabilità che implica la colpa laddove necessario, ci rende capaci di bene e di male.

Dodici è un buon numero, non esaurisce tutto, ma inizia a fondare con solidità. 
Nel caso aggiungerò altre virtù al punto 11 e creerò un nuovo elenco aggiuntivo.
E i vostri valori quali sono?

giovedì 10 gennaio 2013

La rete della rete




C’è una cosa tra le tante che rende la rete davvero simile alla vita comune ed è come il mare: cose che vengono a galla, restano in superficie per un po’, poi si inabissano di nuovo forse per sempre. Ed è un po’ come la memoria, perché questa è la vita, che se il cuore vorrebbe stringere tutti e insieme, non ce la fa e può solo selezionare. E per evitarti dolori allora le persone ti accompagnano per un tratto, poi ti giri e non ci sono più, lasciano la scia, ma se ne sono andati. Così è la rete. Pagine e persone dietro quelle pagine che ti hanno stupito ed emozionato e preso il cuore, che poi evaporano: non trovi più il link, Google ti confonde, si sono perse nello scorrere perentorio e impetuoso della time line o della bacheca di Facebook e ne rimano solo un brandello, un’immagine, impegliata da qualche parte del cuore o della mente.
Tutto scorre. Ma senza malizia, semmai con il vigore del “flagello di Dio” quello Scorttila re degli Anni, che dove passa non cresce più l’erba del ricordo. O forse no. Perché il cuore sa far rinascere anche dopo ere un ramoscello bianco, quello dell’albero di Gondor, che tutto riconduce a se.

martedì 8 gennaio 2013

Liberi pensatori





C’è il libero pensatore che crede di dispensare saggezza ad ogni suo post.
Ma ti pare questo il modo di iniziare un articolo? Sì,perché lo lego concettualmente a quello di qualche tempo fa sull’uso manipolatorio e strumentale che faccio di Facebook, come laboratorio di osservazione sociologica. Perché è bene capire il mondo che ti circonda e la rete ne è un esempio per eccesso, perché non guardare in faccia una persona mentre le parli, bhé abbatte i freni inibitori, scatena il vero te che c’hai dentro.
Allora c’è questa categoria degli illuminati, che ha sempre da dire qualche cosa, e spesso –eufemismo- con quel tono predicatorio che, se il soggetto si definisce credente, assume sfumature omiletiche millenariste (prototipo il padreCristoforesco “verrà un giorno!”), oppure, se invece il tipo professa laicismo libero e vero, scivola rapidamente in insulti che, a ben vedere, contraddicono alla radice quel famoso (e presunto falso: insomma un esempio preistorico di fake tweet) aforisma attribuito a Voltaire: non condivido nulla di ciò che dici ma mi batterò fino alla morte perché tu possa dirlo. Che il più delle volte diventa: se anche per errore mi capitasse di condividere quello che dici, puoi stare certo che mi batterò fino alla tua morte perché tu non possa mia più ripeterlo.
Così tra minacce di dannazioni eterne e di fini prossime, a volte coincidenti con bannaggi su FB, si tratta di navigare a vista lasciando cadere qualche frase di quelle ben assestate che svelano i cuori, come segno di contraddizione, e rivelano che libero pensatore il più delle volte significa solo pensiero il libertà, specialmente dalla razionalità. Che può capitare a tutti si intende, ma quando diventa abitudine, ecco, per lo meno solleva dei dubbi. 

domenica 6 gennaio 2013

Sentimento natalizio




Sentimentalmente scosso dal clima natalizio, commettendo in realtà un grave errore, sentendo spignattare in cucina, mi alzo dal divano dove stavo leggendo calmo e isolato, e candidamente chiedo a mia moglie “posso fare qualche cosa per te?”.
Ne ottengo, dopo un primo consueto rifiuto e una mia nuova offerta (i passi del minuetto di coppia, le mosse classiche di una apertura di scacchi consolidata: sai che vanno fatti per arrivare al momento vero in cui si comincia la vera partita), un elenco di compiti da svolgere decisamente superiore a quanto una mente maschile, pure allenata e agile come la mia, possa memorizzare e soprattutto comprendere.
Ovviamente la richiesta implica che i suddetti compiti, oltre la metà dei quali richiederebbero istruzioni più dettagliata ed esecutive, una procedura almeno da seguire o se non altri un riferimento a qualche normativa ISO, vanno svolti nel giro del 120 secondi a seguire e con perfezione paragonabile a quella che, nello svolgere i menzionati incarichi, raggiungerebbe la consorte.
Ecco che cosa capita a non dare retta a quel sano egoismo che è autodifesa…

venerdì 4 gennaio 2013

Discorsi incassati


Alla cassa: davanti a mia moglie un signore anziano con pochi acquisti. Lei ne ha forse uno in meno. Il signore le sorride e la invita a passare avanti.
“Ma no, si figuri, grazie: ho poche cose anche io…”
“Bella signora, mi lasci offrirle il posto”
“La ringrazio, ma non si preoccupi. Non sono questi due minuti che fanno la differenza”.
“Ah capisco, anche lei ha il mio problema: nessuna voglia di tornare a casa dove ci sono tutti”.
Ma anche no però…

mercoledì 2 gennaio 2013

3kg di sorprese


Discorsi prenatalizi:
“ A mia mamma hanno portato una latta da 3kg senza etichetta e non sa che cosa c’è dentro”
“E non la apre?”
“No, perché non sa cosa ci sia dentro”
“Dobbiamo fare una radiografia? Un eco doppler?”
“Pensa se di sono dentro acciughe? O peggio cetriolini sottaceto!”
“Certo che 3 kg di cetriolini…”
“E se fosse macedonia sciroppata? Quella che quando eravamo bambini c’era solo quella di macedonia? E l’ananas. A ruote e sotto sciroppo. Per anni ho ignorato che forma avesse un ananas…”
“Oppure mostarda: 3 kg di mostarda…”
“farcitura per toast: mai saputo che cosa c’era dentro, ma che buono! Un toast farcito era un regalo!”
Alla fine la scatola è stata aperta: beh 3kg di prugne sciroppate non fanno male, almeno aiutano la regolazione dell’intestino…