Quando i cinquant’anni sono stati raggiunti e superati con la velocità del suono di una sirena arrabbiata, tre sono le possibilità che rimangono all’uomo che non vuole rimanere ad attendere l’impatto indifeso e inconsapevole: farsi l’amante, farsi una macchina rossa, scrivere un blog. Dato che mi state leggendo (davvero? Mi state davvero leggendo?) avete compreso che ho scartato le prime due ipotesi. E per scelta volontaria e creduta, non certo forzata.

Ma che cosa e perché scrivere? Condividere, o l’illusione di farlo, aiuta spesso a sentirsi in compagnia di fronte alla piccole battaglie della vita: quelle grandi, si sa, le si può affrontare solo in compagnia di se stessi, senza nessuno scudiero o cavaliere al proprio fianco.

La prima delle sfide e quella che affettuosamente potremmo definire di san Giuseppe, che di fatto nomino mio speciale e personale protettore confidando sulla sua ironia e bonomia. In che cosa consiste questa sindrome? Nel sentirsi ovviamente il più imperfetto della famiglia dovendone invece apparire la guida salda. Non che con questo voglia affidarmi a una melliflua umiltà fasulla, l’autocompiacimento di sentirsi negare la denigrazione e gustare così una vanitosa ricompensa per la propria maliziosa modestia. Affatto. Lauto compiacimento può derivare solo dalla concretezza. Non che non sia vanitoso, tutt’altro: la vanità è sempre in agguato, come ben sa il diavolo impersonato da Al Pacino nel mondo degli avvocati.
Gli è che essendo proprio vanitoso e anche intelligente, so bene che l’ambizioso deve attingere a piene mani all’umiltà: per crescere, ambizione che può essere anche nobile e saggia, bisogna capire dove migliorare. E per capirlo non c’è che l’umiltà.
L’ambizioso vanesio e superbo farà una brutta e rapida fine.

Quindi qui sto: con una moglie tendente alla perfezione, pur con difetti marginali che provocano in me tanto irritazioni quanto ammirazione per la loro trascurabile banalità; con tre figli che, come recitano brutti film, hanno preso maggiormente da me i difetti, e quindi non posso accusarli di una eredità che ho trasmesso loro; con un lavoro che amo e che ogni mese mi sfida sempre di più, aiutandomi a non fare mai mia la sicurezza.
Di che scrivere dunque?

Della precarietà, della inadeguatezza che mi rende comico a me stesso, specchio delle cose che ho appreso e che rivedo, con squarciante veridicità, nel mio quotidiano.

giovedì 28 maggio 2015

Lui ti corre incontro. Sempre. #Sallo




Tutto è grazia e tutto è periferia. Tutto è fango e tutto è carità. Sempre. Lo è sempre stato. La vita è in Galilea non a Gerusalemme. Gesù sta con i malati, non con i sani. O, meglio, con coloro che si ritengono tali. La differenza è lì. Se tu, che sei cieco, dici di vedere, allora non ti curo.
Non ti posso curare.

Sto leggendo avidamente, e con grande profitto personale, il vangelo narrato da Maria Valtorta e questa dimensione dell’Uomo-Dio che si sporca le mani, che le infila senza paura nel letame –e certe vite sono anche peggio, e so di starci in questo numero: lo voglio Lui come medico, io- e ne cava fuori un diamante da sgrezzare, che rifiuta solo coloro che dicono di essere perfetti, perché non ha nulla da offrire loro e perché sono loro a rifiutare Lui per primi, ecco questa lettura qui, questa dimensione mescolata con la Pentecoste e con le notizie di tutti i giorni, con una società che prende i miti e li indossa come gioielli, perché pensa di dover rifulgere invece che stare all’ombra di Dio, ecco mi costringe a ragionare, a vedere dentro le cose per cercare di cogliere il filo. Anzi, il messaggio per me, personale. Perché Dio ti  parla, mi parla. Dio mi chiama di continuo, dentro a ciò che mi accade intorno, nei giornali che leggo, persino su Facebook, che per esserGli amico mica Glielo devi chiedere e aspettare che ti risponda accettando.
Così in questo sabato italiano –tra parentesi: splendida questa metafora del sabato per descrivere la nostra situazione, dove nostra è una realtà a cerchi concentrici e l’Italia non ne è esclusa. Da Leopardi a Jovannotti passando per Sergio Caputo si canta sempre la stessa realtà: che ce la si può fare ad avere voglia di rialzarsi e speranza, perché non si può restare intrappolati nel sabato, che è un po’ come quel 6 infinito che è cifra del diavolo, l’eterno incompiuto- in questo sabato italiano, dicevo, leggo del trionfo degli yes nel referendum irlandese. E la prima reazione è la disperazione, lasciargliela lì come fosse un gioco questa lotta che sembra già persa. Ti vien voglia di restare chiuso in casa, accucciato come una cosa posata in un angolo e dimenticata, di vivere questi brandelli di futuro sprangato nella tua follia, finché vengano a prenderti, perché verranno a prenderti, chi che sia, l’ISIS o altra cosa, verranno a prenderti e correrà sangue e rotoleranno teste, se avrai coraggio, altrimenti ti scapperà via l’anima.
Ti vien voglia di lasciare tutto e andare via, che ci sarà un angolino di terra, dove come un soldato giapponese, rifugiarti ad aspettare la morte.
E invece no. Invece ti viene la luce, per caso; ma no! Lo sai che non è per caso, che è perché Lui ti corre incontro sempre, basta che tu pensi di fare un passo e ti viene incontro.

E capisci nell’ordine le seguenti cose:
a)   che il controllo non ce l’hai tu e non devi nemmeno cercare di avercelo,
b)   che, se vuoi essere servo buono e fedele, servi senza preoccuparti del raccolto, che ci pensa Lui, che il grano lo fa crescere anche nella zizzania,
c)    che t’ha promesso che “non prevarranno” e allora di che ti preoccupi?
d)   che forse, invece, ti chiede  di non mollare mai sì, ma di provare a fare come dice Lui e non come dici tu e che varrebbe la pena di capire, di provarci almeno,
e)   che lasciar fare allo Spirito è quello che dice da sempre,
f)     che se lo sguardo lo tieni fisso su di Lui e non ti spaventi della tempesta, ci puoi camminare sopra all’acqua, ma se appena pensi di fare da solo, allora affoghi.

Ti viene dunque il dubbio che tutto questo sia un grande quadro, o una grande rappresentazione, che tutto porta scritto “più in là” e devi solo stare a vedere dove sta la luna, mica fissarti sul dito.
Perché la prevalenza è del cretino, la sottomissione del cristiano. (O l’obbedienza, se preferisci, ma ci siamo capiti e anche l’aforismo ha le sue leggi di ritmo e contrasto che richiedono scelte tra vocaboli).
Obbedire quindi, stare sotto, fare da base in un’epoca che sfalda, che sbriciola, che getta nel vento, in un vento in cui non ci sono risposte, che deve essere una cosa ben triste e disperata, così come un mondo senza paradiso –te lo immagini? Per me è proprio difficile!- che deve essere un inferno in realtà altro che un solo cielo e tutti felici in un eterno oggi.

Così inizi a farti domande e ti accorgi che questi falsi miti ci stanno portando all’origine, là dove tutto è cominciato -che poi non sarà mica anche la fine?- perché questo mondo qui mi sembra tanto simile a quello in cui il Figlio dell’Uomo nacque e la sua Chiesa mosse i primi passi. Perché stiamo tornando al paganesimo, ad un mondo popolato da dèi e da riti dionisiaci, alla credenza che per il corpo passa tutto e tutto è ammesso; una società in cui la democrazia è assente o virtuale, come nelle poliarchie del tempo di Gesù, in cui l’impero comanda e ti lascia giocare con i tuoi idoli purché non rompi il giocattolo, non cerchi di metterti di traverso, che allora sì che entra e distrugge, spezza ossa e crocifigge.

Come sarebbe bello, qui, poter inserire con un colpo di bacchetta magica tutto il libro e le conversazioni di don Fabio Bartoli sull’Apocalisse per capire come sarà questa fine che non chiude ma spalanca! 

E però in quel mondo lì che cosa veniva chiesto ai cristiani? Che cosa ha fatto il Cristo? Stava dentro le periferie della verità, in quel fango che era la Galilea delle genti, stava a dialogare con la samaritana, a guarire il lebbroso, ad ascoltare il fariseo timoroso che lo incontrava solo di nascosto, abbracciava il pubblicano, si faceva vedere con la prostituta. Era scandalo perché non perfetto.
Questo ci ha insegnato: che la perfezione è un’iperbole, è uno sforzo, un cammino, non una pretesa, un trono dal quale maledire gli altri, una superiorità antropologica da sbattere in faccia al nemico durante una trasmissione televisiva anche mentre va in onda la pubblicità. Quello è odio allo stato puro, ricoperto di una violenta presunzione che equivale al peccato contro lo Spirito Santo, quello che non otterrà perdono, stando al vangelo.

Ecco, dentro questo mondo qui, che qualcuno vuole sia giunto ormai agli ultimi tempi, stiamo tornando alle origini. E, se è vero che si parla di un paganesimo, di ritorno è, non originale. Non è quindi prodotto dall’ignoranza di Dio, ma dal suo rifiuto. O, se vogliamo essere pignoli, dal rifiuto di quello che viene creduto essere oggi Dio, così come il demonio è riuscito a farlo apparire. Apostasia invece di paganesimo? Rifiuto dell’umanità, una volta capita cosa fosse e che senso avesse?
Vero tutto. Questo solo però constato: siamo tornati ad un mondo che si vuole senza Dio, senza riferimento alcuno se non a se stessi, padroni di tutto. Una società che s’è creata nuovi dèi e si illude di poterli dominare, che spinge fuori dal reale ogni riferimento a  Dio, perché s’illude di liberare i confini, spalanca sì le porte: non però per farne uscire le costruzioni, per conquistare libertà impensabili e lungamente attese, ma in realtà per farsi invadere da demoni che schiavizzano, riducono in poltiglia, portano dolore qui e infelicità dopo.
E in questa follia, finisce che s’illudona pure i forti, i saggi, i sapienti, quelli che prenderesti per esempio. I quali invece, in buona fede, si lasciano sedurre in virtù di quelle piccole crepe che sabotano la loro vita alla radice perché nessuno vuole essere cattivo e allora quando sbagli non resta che illuderti che il male non esista o stia negli altri..
(A margine una curiosità: perché dagli auguri s’è espuso il Natale trasformandolo in season greetings  e si conserva la sacralità del Thanksgiving? A chi pensano di rendere grazie? A Wall Street? Al FMI? A Obama?)

Fatto è che in questo mondo ci siamo dentro, e allora che cosa ci viene chiesto? Di essere pronti al martirio? Di annunciarlo al mercato, sulla strada, tra schiavi, tra fabbricanti di tende? Di recuperare la carità?
Perché, diciamolo, è ben diverso annunciare il Vangelo dalle catacombe, che oggi si chiamano piazze delle Sentinelle, anziché dalle regge, dalle cattedre, dagli scranni del potere.
E se alla corona si è arrivati un tempo, è stato partendo dalla sabbia del Colosseo, dalle prigioni di Gerusalemme, dalle croci di Nerone, dai massacri nelle terre pagane.
Quindi forse è lì che oggi dobbiamo andare a ricercare la traccia che s’era, se non smarrita, diluita, fatta fragile.
Arrugginita.
Perché il fondamento sta nell’umiltà, e questa raramente s’associa al potere, quale che sia, alla certezza che il potere ti dà, anzi alla presunzione di autorevolezza che invece si guadagna sul campo, rimboccandosi le maniche e cingendo la veste per faticare con gli ultimi, con i servi, con i pastori, con gli schiavi.

Mi chiedo se non sia proprio l’umiltà la chiave per comprendere e discernere che cosa sia vero e che cosa invece sia inganno, perché sfidare la perfezione può avere due conseguenze: l’arroganza o la coscienza e quest’ultima permette all’umiltà di irrompere e regnare nella propria vita.

Forse ci vien chiesto questo oggi, ripartire dal basso, da un cuore sincero che prova a capire il vicino di casa, il collega di scrivania, l’amico del bar e guidarlo poco alla volta a capire che cosa si sta perdendo. Perché io di dolore intorno ne vedo tanto. E sofferenza. E insensibilità. E paura.

E allora conviene che ci sediamo sul sasso mentre intorno la lava scorre a fiumi, brucia, azzera, confonde in una distruzione che cancella la civiltà, come alle falde di un vulcano che vomita dolore e disperazione; sedersi lì con un amico al fianco e ripetere quelle soavi parole: “Sono felice di essere con te, Samvise Gamgee, qui alla fine di ogni cosa”.


Perché di questo solo siamo certi: le aquile a prenderti arriveranno di certo.

venerdì 22 maggio 2015

Ubi odium ibi fabula: come riconoscere i falsi miti dalla verità





 Apparso su LaCroce del 19 maggio 2015

Due sono fondamenta dei miei studi: il liceo classico e la laurea in chimica industriale.
Il che vuol dire che sono stato abituato ad osservare e a ragionare, del resto “Osserva, sperimenta e impara” era anche il titolo del testo di scienze delle mie scuole medie.
Ora questo imprinting scolastico, associato a una serie di talenti ricevuti e dei quali dovrò rendere conto –e per non seppellirli nella sabbia li squaderno anche qui su LaCroce-, hanno prodotto in me una maniacale passione per cercare di svelare i meccanismi, estrarre il filo conduttore.
Dicono che sia attitudine tipicamente maschile, perché le donne sono più attente al presente, all’individuo, alla concretezza di un affetto speso hic et nunc, e quindi non è che fanno fatica a leggere in trasparenza il minimo comune denominatore: è che proprio non gliene importa nulla.
Invece a me sì, e non per disdegno con la persona che ho di fronte, ma proprio per l’opposto, perché solo capendo il disegno e la causa prima posso applicare una soluzione.
E faccio fatica, un fatica bestiale, perché invece oggi tutto sembra schiacciato sull’esperienza personale, non però nel senso della cura, ma in quello dell’egoismo. La mia vita diventa uno schermo che filtra tutto e tutto colora, e siccome ormai abbiamo espulso dalla vita la coscienza e con essa la percezione dell’errore –ma sì chiamiamolo come è giusto: del peccato!- tutto viene giudicato e condannato in funzione di ciò che nella mia vita è capitato.
Ho assistito ad una discussione in cui ci si stava avvolgendo attorno all’influenza dei genitori sui figli: se la partenza era la medesima che m’ha spinto a scrivere “La bella e il pirla” la scorsa settimana, lo svolgimento era curioso. Da un lato una accanita difesa de “i figli fanno la loro strada a prescindere dall’educazione ricevuta” dall’altra una timida replica: “certo, ma l’educazione conta”.
Poi si scopre che chi sosteneva la prima versione soffre perché uno dei suoi figli ha preso una pessima strada.
Ora questo dolore non deve produrre come conseguenza la convinzione che l’educazione è inutile perché poi i figli fanno quello che pare loro. La vita e gli studi dicono il contrario. Dicono che se non fai nulla per educare i figli questi quasi sicuramente ne verranno distrutti, se invece fai tutto quello che è umanamente possibile, in buona fede, per educarli non hai mai la certezza che ne escano fuori incorruttibili, inattaccabili dalle cattiverie del mondo.
La mia esperienza non può diventare metro di giudizio.

Torniamo quindi al fattore comune, alla causa prima, al fattore ricorrente che sta dentro le cose e le marchia, in quanto filo intessuto in esse dalla fonte, e cerchiamo di prenderlo in mano questo filo.
È rosso sangue e mi dice, urlando in una cacofonia sussurrata, che dove trovi odio, di sicuro non c’è una verità, ma un falso mito, una ideologia distorta. Perché la verità ti squilla in faccia che non c’è altra strada che l’amore: “ubi odium et sceleris, ibi fabula”.
Sono false religioni, o credenze, o filosofie, o stili di vita, quelli che per affermare un bene invitano ad odiare: basta che ti giri e le trovi. Prendi la tizia che in nome dell’animalismo spara su fFacebook che il terremoto in Nepal è il castigo di Dio per le sedicenti uccisioni di animali perpetrate a favore di una non ben precisata dea (massacro che tra l’altro pare solo una grossa bufala). Prendi il grillino che suggerisce l’eutanasia della figlia malata alla madre, la quale difende la sperimentazione sugli animali dei farmaci. Prendi la vegana che alla stessa donna rimprovera di non averla abortita la figlia malata o peggio di averla ridotta così per averla nutrita con carne. Prendi i black bloc che per affermare distruggono ciò che incontrano. O i NoTav, o i NoG8 e tutti i vari No che trovi. Prendi quelli che aggrediscono le sentinelle o che si divertono pubblicando foto blasfeme per demolire ciò in cui altri credono. Prendi quelli che il Papa sbaglia quando mostra misericordia e che dovrebbe ospitare lui tutti quelli che dice di accogliere.
Prendi le ideologie che per farsi belle hanno bisogno di odiare qualcuno, come hanno fatto nel secolo degli olocausti nazismo e comunismo.

E non vale dire che anche il cattolicesimo. No, semmai alcuni cattolici di testa loro.
Beh allora anche alcuni vegani, alcuni animalisti, alcuni NoTav…
Eh no, perché lì sta dentro il loro credo, non c’è qualcuno che si alza e ricco di una autorevolezza che non ha bisogno di conferme, spiega che non è così, che ciò che il Signore ha raccomandato è di amare tutti, non solo una parte.

Perché questo è il punto su cui tutto si infrange, il cambio di colore della cartina al tornasole (e lo vedi che sono chimico?), il segnale che fa scattare l’allarme: che se dividi il mondo in “noi” e “loro” e loro devono essere odiati se non si convertono –se possono farlo, perché in alcuni casi non è previsto-, allora sei dentro una ideologia, un falso mito di progresso.

Perché o ami tutti o nessuno: a quel punto è solo una questione di confini, di dove scrivi il cerchio sulla polvere, ed è una faccenda di gusto, di interesse.
Hai sporcato il bianco con una macchia, è la mosca che distrugge il lavoro del profumiere, è la crepa che si espande e manda tutto in briciole.
O ami chiunque, perché al di là dei suoi errori c’è una radice comune in Dio Padre, ed è lui che si fa garante per ogni persona; oppure se inizi ad odiare, a disegnare un nemico, hai solo iniziato a precipitare verso la violenza senza fine.

Quando la solidarietà, il mutuo aiuto è contro qualcuno non è amore, è consorteria, è massoneria. Questa presunta carità “ contro”è falsa, è egoismo di categoria, non è apertura. L’amore vero è senza nemici, se ho bisogno di costruirmi dei nemici è perché non è vero amore. L’amore è diffusivo, è per tutti (o per nessuno): quello è solo un modo per mascherare in modo diabolico –ricordati: dia-ballein, da cui diavolo deriva,  vuol dire dividere!- un egoismo che cerca complicità nel numero.

Noi invece siamo senza nemici, ci dice il Signore, ed è condizione durissima perché la nostra fragilità ha bisogno di appoggiarsi ad un muro e tra Dio, che a volte sembra così lontano e diafano, e il nemico, solida roccia vicina e ben marcata, la nostra debolezza ci fa scegliere l’odio, grazie anche all’alito fetido del demonio, come bene racconta il nostro Berlicche.

Ma noi sappiamo che è errore, peccato, distonia, stonatura nel canto.
Dove invece l’imposizione del nemico è prerequisito, sostegno, verità fondante, allora lì sappiamo che non c’è realtà, non c’è verità, c’è solo una delirante ideologia, c’è solo un falso mito di progresso che si traveste da bene per meglio demolire l’uomo inquinandolo di livore, rabbia, acredine che come cancro divora da dentro.


Dove c’è odio non può esserci la verità. #sallo. Adesso guarda con questo schermo ciò che ti circonda e capisci dove portare il tuo cuore.

giovedì 14 maggio 2015

La bella e il pirla: ovvero di noi, la rete, la carità



apparso su LaCroce Quotidiano del 12 maggio 2015


La bella e il pirla: questi i segni che racchiudono la devastazione di Milano del primo maggio.
E ci danno un criterio per leggere dentro queste vicende, in trasparenza, per capirne il senso e le radici, e per difenderci.
Non contenere, ma sradicare. Dal nostro cuore innanzitutto.
Che questo è il compito di ognuno di noi, e delle riflessioni che questo quotidiano pubblica: aiutarci a combattere la buona battaglia, che è innanzitutto dentro di noi, contro principati e potestà, perché la vita dell’uomo è battaglia, come spiega Giobbe, che qui scriverebbe volentieri.

La bella e il pirla dunque, così, lasciati anonimi, dipinti come la rete li ha ritratti, connotati nel gesto e nelle apparenze, non nella sostanza della loro persona.

Il pirla, definito così dal padre, è quello che in virtù della bella del “bordello” afferma che spaccare è giusto, distruggere si deve, spezzare le reni ai simboli del capitalismo schiavista è un dovere morale.
Concetto decisamente radicato dato che lo ribadisce un’altra ragazza, militante di qualche cosa di imprecisato se non la violenza, poche ore dopo. Spaccare serve.
A che cosa?

Ma la medaglia ha sempre due facce, e sul retro di questa violenza spacciata come protesta s’affaccia il ritratto della bella e la macchina incendiata.
Che si dice fosse una ignara modella russa. Ignara? Di che? Che nelle città non è così normale parcheggiare carcasse bruciate? Mah.

Due episodi apparentemente connessi solo dal fatto di stare a contorno di scontri violenti nel centro della capitale meneghina. In realtà profondamente radicati e connessi, specchio di una società alla deriva, tenuta insieme solo da un profondo e, spero di no, insanabile egoismo.

I falsi miti, che ci hanno spacciato come perfetta descrizione della realtà e strada per la felicità. affermano con molta convinzione che:

a)    ogni opinione ha diritto di essere espressa a priori, non siamo forse tutti Charlie?
b)   La vita è fatta da scelte personali, che devono essere viste sconnesse da una continuità di tempo e logica: viviamo nel presente, cogliamo l’attimo. Fai adesso che poi…
c)    L’educazione è coercizione, sempre per definizione. Nella sua comica tragicità, devastante violenza, è molto illuminante l’episodio raccontato dalla coraggiosa giornalista Monica Ricci Sargentini –segnatevi il nome, questa donna va difesa e abbracciata!- che addirittura su la 27esimaOra, blog al femminile (ofemminista?) del CorSera taglia i panni alla teoria gender. Ecco cosa racconta: “Mio figlio Simone a tre anni aveva una fidanzatina e io, come tutti i genitori, mi divertivo a raccontare le loro gesta: «Vogliono 11 figli, anzi 99». Tutti ridevano. Finché un mio amico omosessuale, scandalizzato, mi apostrofò così: «Monica, ma che fai? Lo cresci come un eterosessuale?».”
d)   Per cui agisci come ti dice il cuore, che spesso in realtà sono i genitali, ma anche il centro aristotelico delle pulsioni –non passioni: pulsioni- come la rabbia, la violenza, l’invidia.

Ancora il gender allora? E che cosa c’entra con i No-Expo e i Black Bloc?
No, non è di gender che voglio parlare ma della sua radice filosofica, quella che afferma che l’uomo modella la realtà e la natura, le quali non possono esistere in sé in quanto se lo fossero, limiterebbero la libertà dell’uomo.

Ecco qua i risultati. Non parlo dei terroristi in carrozzina e tuta nera, dei facinorosi che provano solo piacere nel distruggere –e già questo ha un profondo tratto demoniaco a non voler ficcare la testa sotto la sabbia, che il demonio non sa costruire ma solo demolire- ma di chi ne sostiene l’ideologia, la propaga, ne diventa succube anche solo perché “pirla”.

Avete sentito le farneticazioni di questi personaggi? Sono prive di senso, sono parole buttate alla rinfusa, nella migliore delle ipotesi, si tratta della ripetizione becera e sguaiata di frasi fatte, luoghi comuni affogati nella più bieca ideologia. Sono lo specchio di una totale assenza di pensiero, di un elettroencefalogramma praticamente piatto. Sono flatus vocis, mozziconi chiocci e aspri di balbetti infernali ripetuti da manichini. E queste persone, se non loro i loro epigoni, accusano chi combatte questi falsi miti di essere appiattiti sulle posizioni della Chiesa, incapaci di ragionare perché obnubilati da una presunta fede che nega la ragione!

Mi chiedo, e so di essere provocatorio e aggressivo, ma anche queste opinioni hanno il diritto di essere espresse? Non è forse una palese istigazione alla violenza, nei due sensi: quello concreto di indurre altri a fare le medesime pazze cose, e quello sarcastico e arrabbiato di chi viene stimolato a mettere loro le mani addosso….?
Non è possibile intervenire ufficialmente per far tacere chi è intimamente convinto, o indotto a credere, che esprimere un dissenso –attività lecita in sé- significhi bruciare macchine, spaccare vetrine, distruggere scivoli per carrozzine, divellere rotaie del tram, rompere un capolavoro del passato come la Barcaccia del Bernini? E poi magari è sicuro, senza pensare di essere incoerente, che stare in silenzio, in piedi, in una piazza, leggendo un libro, sia violenza culturale, sia fascismo, sia aggressione!

Davvero ogni opinione è lecita? Discorso complesso ma che va affrontato prima o poi.
Perché il problema è che ormai si è confusa l’idea con la persona, come già dicevo, e quindi sembra che rispettare la dignità della persona voglia dire accettare tutto quello che questa persona qui ha da dire. Ne siamo sicuri?

E qui si torna all’educazione e, altra provocazione, al potere dello schiaffo. L’ho detto, adesso si scatena l’inferno. L’ho proprio scritto: il potere dello schiaffo, la forza pedagogica del buffetto.
La mamma di Baltimora è diventata esempio per la sua furia, la sua violenza, perché l’amore a volte si manifesta anche così. E allora al papà di quel pirla, come lui l’ha definito, che intervistato afferma che non c’è nulla da fare, che non serve dargli oggi qualche ceffone (e poi –e quindi chapeau!- si domanda dove ha sbagliato come genitore), che forse beh anche oggi qualche sberlotto potrebbe essere utile perché non è segno di violenza, ma di amore, quando non è frutto di rabbia, ma strumento di educazione, perché quando vedo il mio infante cercare di infilare le dita nella presa elettrica per fermarlo gli do uno schiaffettino sulla mano, non gli tengo una conferenza sull’elettromagnetismo e la corrente alternata!

Onde evitare querele, denunce, minacce o simili strumenti di convincimento democratico preciso: l’educazione non è mai rabbia, violenza che sgorga dalla mortificazione, dal rancore. L’educazione è il bene per te e sfrutta tutti gli strumenti che fanno arrivare al bene, anche se in quel momento procurano sofferenza, perché è solo nella sofferenza che si cresce. L’uomo è fatto così. In tutto. Nel fisico come nel morale. L’educazione tira fuori come passando da un pertugio che strozza e graffia. Non esiste una via larga, solo angusta. E fa male.

L’educazione tira fuori l’uomo, non lo manipola: manipolazione è non educare perché in realtà è solo delegare alla crudezza della vita il ruolo di plasmare. Educare è mettere amore per dare senso, è preparare al cammino e non preparare il cammino.
È dare una pala non fare da spazzaneve per i figli, come scrive Simone Lunghi su Facebook, ripreso dall’Huffington Post, con una onestà cruda e diretta “Ti riconosco tutti i giorni in tantissimi ragazzini con cui ho a che fare. Giovani ai quali i genitori cercano di evitare qualunque difficoltà; questi genitori io li definisco "spazzaneve" per come cercano, costantemente, di spianare le strade ai loro piccoli, con il solo risultato che, togliendo gli ostacoli togli anche i gradini ritrovandoti un figlio terra terra, capace solo di strisciare.”

Peccato che questa condizione sia figlia di una ideologia che ha negato il ruolo del padre, lo ha spento, ha reso i figli oggetti del desiderio e quindi perfetti per definizione. Immaginatevi che cosa verrebbe fuori da figli comperati! Figli frutto di egoismo e non di un amore gratuito. Figli del desiderio, come li definiscono molti pedagogisti, psicologi e sociologi, destinati a essere ritenuti perfetti e quindi paradossalmente abbandonati a se stessi. Scrive Marcel Gauchet sulla rivista francese Le débat (novembre-dicembre 2004) che i figli del desiderio, non scatenano più passioni nei loro genitori, che non sentono più il bisogno di educarli. Il loro arrivo, programmato nel minimo dettaglio, li appaga e li svuota del desiderio di educare. Ribadisce il pedagogista francese Daniel Marcelli, come segnala ilsito SuperEva.it in un post non firmato, che “il genitore odierno non è teso a educare, nel senso di tirar fuori le potenzialità del figlio (ex-ducere), ma ad attirare il figlio a sé (se-ducere), a compiacerlo, a sostenere ogni suo bisogno. Egli non si accorge che l’educazione esige il rispetto della distanza, in quanto un rapporto di tipo identificatorio mira alla duplicazione di se stessi nell’altro, a realizzare nell’educando ciò che non si è riusciti ad essere”.
Alla figura del genitore educatore, subentra, così, quella del genitore amico che abdica alle proprie responsabilità formative.
La rinuncia ad educare è devastante eppure il frutto di una ideologia che impone di avere sempre consenso e di lasciar fare quello che si vuole. Educare è faticoso perché impone attenzione, studio costante, generosità e soprattutto capacità di sopportare frustrazioni continue, quasi sentirsi odiati –non è odio ovviamente, ma pare- dai figli perché educare è soprattutto insegnare la rinuncia ad un capriccio immediato per un bene maggiore futuro.

E la Bella? Che cosa c’èntra la Bella in tutto questo?

La Bella c’entra. Come la figura del pirla (suo padre lo definisce così), il bamboccione incapace di articolare un pensiero in italiano corrente e incline alla violenza per puro gusto del “bordello” (ipse dixit), così quella della Bella che occhieggia sorridente in posa da fidanzatina anni Settanta appoggiata mollemente ad una carcassa di auto distrutta, mostra molte cose e ne spiega altrettante.

Mostra che si è perso di vista il senso della bellezza, il senso del ridicolo, il senso del decoro. Che la decenza è sepolta, che il buon senso evaporato.

Spiega che ormai tutto è davvero lecito, che ormai quello che io trovo bello lo deve essere perché la mia opinione conta, non solo: non solo conta, ma è anche bella, degna, inattaccabile. Dimostra che il pensiero è ormai preda dell’emotività, l’immediatezza –che dura ben più dell’attimo fuggente- prevale sulla mediazione della ragione, sul pensiero. Non ci si sofferma a ragionare sulle conseguenze, sul dolore, sul rispetto. Tutto va bene, perché piace a me. Tutto.
Spiega che il giudizio e il bene sono spariti, e non poteva che essere così nel momento in cui tutto diventa relativo, tutto perde consistenza, si sfarina. Diventa un tweet. Diventa occasione di notorietà. Mi si nota? E allora va bene, perché così divento famoso. Famoso? Per farne che? A che prezzo? Con quali conseguenze? Con quale scopo?

E qui emerge il secondo estremo della vicenda, l’oscillare del pendolo che trascina all’eccesso opposto. La rete che si scatena, ma non nel senso desiderato dal pirla, dalla bella e dal fotografo tweetatore, bensì in direzione opposta anche se sempre nella direzione della altrettanto violenta distruzione.
Perché tutti ci sentiamo giudici dentro. Anche coloro che in fin dei conti credono che è bene non giudicare per non essere giudicati.

Così c’è chi scrive che la foto della bella è la vera fotosconcia in sé, ontologicamente, c’è che si lancia in parodie del pirla, c’è chi inizia a insultare l’uno e l’altra, c’è chi fa prediche, c’è chi minaccia.

C’è che ci scrive articoli su LaCroce

Ora io sono d’accordo, io stesso sto criticando aspramente il succo di questi fatti e forse commetto il medesimo peccato che sto raccontando. Ma mi sembra utile farlo, e se sbaglio i lettori mi correggeranno e pregheranno per me.

Perché il tormento che mi prende è che nello sventrare il fatto, si finisce per disossare i protagonisti. In quest’epoca che non riesce più a separare fatto da persona, lo dicevamo già, nel descrivere l’evento e nel mostrarne la sua malizia, non corriamo il rischio di scorticare i personaggi?
La Bella e il pirla potranno ancora avere una vita?
Il medesimo giornalista che ha realizzato l’intervista con il “ragazzo cioè” una settimana dopo lancia una campagna a suo favore: basta sbeffeggiarlo, diventa cyber-bullismo, diventa attacco ingeneroso.
E la Bella si salva solo perché è sparita dalla circolazione, magari fosse davvero una modella turista russa!

Ci sta prendersi gioco dei personaggi famosi, che si mettono in gioco quotidianamente, quando non si superi la linea del rispetto personale e della violenza. Ci sta l’aggressione mediatica a colpi di gattini sulla pagina Facebook di Salvini, ci stanno le parodie della caduta di Boateng davanti a sua dribblosità Messi, ci stanno anche gli inviti a lavorare ai rapper che aprono la bocca a sproposito.
Ma la gogna continua a persone comuni, capaci solo di fare errori più grandi di loro, è lecita? O è una grave mancanza di misericordia?
Il web scatena l’urlo demoniaco o ci aiuta a moltiplicare la segnalazione di un fatto palesemente sbagliato?

Ecco che le false ideologie ci spingono nell’angolo, perché è palese che dipenda dalla politically correctness la pressoché invincibile incapacità di separare persona da fatto, la tecnologia stessa la amplifica permettendoci di scagliare una pietra senza vedere il sangue scorrere. Anche io ne sono affetto! Mi rendo conto che mi preoccupo perché non capisco più dove finisce il fatto e dove inizia la persona!
La lapidazione era la forza con la quale una comunità espelleva da sé il male: era la comunità che uccideva, non il singolo. Chi poteva essere accusato di omicidio? Tutti erano al contempo assassini e innocenti. Ma erano lì, a guardare, a vedere una persona morire. A vederne il sangue. Una comunità e le sue leggi.

Oggi invece si scaglia il tweet, si colpisce con il post, si uccide con un condividi. E senza vedere nulla. E senza essere comunità. Forse lo si vorrebbe essere? Non lo so.

Non so come mettere insieme questi estremi, non riesco a capire questa liquidità illogica, che tutto spazza, tutto manipola di continuo per rendere ogni cosa vera nell’istante che la si pronuncia e solo finché non ne svanisce l’eco e poi… poi si vedrà, se serve è vera, se non serve più… chissenenfrega… siamo Charlie con chi ci fa comodo, per gli altri siamo boia.


La Bella e il pirla ci insegnano molto, ci chiariscono la violenza e l’illogicità di noi quando siamo preda di ideologiche che ci muovono come burattini senza fili.

giovedì 7 maggio 2015

Il falso mito del lavoro senza doveri




apparso su LaCroce quotidiano di martedì 5 maggio

Manca il lavoro, lo dicevamo la scorsa settimana. Manca il lavoro o la voglia di farlo?
Tutti e due probabilmente e come i personaggi di una fiaba, o di una tragedia alla Giulietta e Romeo, i due sono destinati a inseguirsi senza mai trovarsi.
Qualche giorno dopo lo scivolone sugli stagisti di Expo, ecco un bellissimo pezzo di Luca Tobagi, uscito sul CorSera domenica 26 aprile, sullo smarrito senso del lavoro.
Fa notare il giornalista milanese come si sia perso il gusto del lavoro ben fatto, del lavoro portato a termine con passione. Insomma del lavoro alla Peguy, quello descritto nel acutissimo brano intitolato “LA SEDIA”:

Un tempo gli operai non erano servi.
Lavoravano.
Coltivavano un onore, assoluto, come si addice a un onore.
La gamba di una sedia doveva essere ben fatta.
Era naturale, era inteso. Era un primato.
Non occorreva che fosse ben fatta per il salario, o in
modo proporzionale al salario.
Non doveva essere ben fatta per il padrone,
né per gli intenditori, né per i clienti del padrone.
Doveva essere ben fatta di per sé, in sé, nella sua stessa natura”.

E questa passione era percepita, era il ponte che collegava committente ed esecutore, che stabiliva una relazione dentro la quale si creava un mistero, il senso del lavoro spianava la strada alla creazione.

Era un lavoro che aveva ben altro destinatario, come illustra questa breve e intensa riflessione di San Josemarìa Escrivà de Balaguer: “Mi piaceva salire su una delle torri della Cattedrale di Burgos, per far contemplare da vicino a quei ragazzi la selva di guglie, un autentico ricamo di pietra, frutto di un lavoro paziente, faticoso. In quelle conversazioni facevo notare che tutta quella meraviglia non era visibile dal basso. E, per materializzare ciò che tanto spesso avevo loro spiegato, commentavo: questo è il lavoro di Dio, l’opera di Dio!: portare a termine il lavoro professionale con perfezione, in bellezza, con la grazia di questi delicati merletti di pietra”.

Il lavoro ha questo senso: contribuire alla creazione mentre mi aiuta a migliorarmi nel compierlo. Perché io divento quello che faccio e nel fare bene, con passione, il mio lavoro, miglioro me stesso per dare gloria a Dio.

È questo senso del lavoro che Tobagi vorrebbe vedere oggi, un lavoro dove si crei realmente una relazione basata sull’apprezzamento reciproco, costruita a partire dall’esecuzione impeccabile e appassionata del compito assegnato: “Come clienti, può capitarci di rimanere delusi da un prodotto acquistato o da un servizio ricevuto. Tale delusione di solito non nasce solo perché si è pagato un prezzo: spesso riguarda il mancato soddisfacimento di un’aspettativa ed è tanto più acuta quanto più percepiamo la distanza o il disinteresse di chi sta «dall’altra parte». L’esecuzione meccanica di un compito può non bastare.”.

Perché questo non è più possibile? Dove s’è guastato il senso? Dove si è persa questa dimensione verticale? Chi ha ucciso questo ponte che, attraverso un lavoro ben fatto, genera relazioni costruttive?

Il lavoro è virtù e come ogni virtù, sciaguratamente, trascina con sé due vizi: uno per eccesso ed uno per difetto.
Il vizio per eccesso ha dominato gli anni Ottanta e dintorni: i workaholic, lavorotossici, che non potevano vivere se non per lavorare, lo avevano eletto a scopo della vita, a fine ultimo. Il resto era solo contorno, un fastidioso intervallo tra una giornata lavorativa e l’altra.
Li hanno eliminati le aziende stesse, dopo l’ubriacatura iniziale. Se all’inizio sembravano eccellenti questi stakanovisti urbani, le corporation si sono presto rese conto che figure del genere spaccano la squadra, distruggono il tessuto aziendale, deprimono i colleghi e finiscono per essere un peso.
Poi oggi sarebbero comunque in minoranza, nel mondo del “tutto è tuo diritto”.

Oggi è l’epoca del lavoratore stanco, infastidito. Quelli che la vita è fuori perché posso fare quello che voglio e ho diritto a tutto, ho diritto a soddisfare il mio istinto, a disobbedire, che poi non è disobbedire ma dare retta a me stesso a quello che voglio.
Oggi è l’epoca di chi ha confuso il diritto al lavoro con il diritto a non fare fatica, a fare ciò che voglio, quando voglio.
Chiaro che non è generalizzato, chiaro che ci sono molti –giovani ed adulti- che hanno ben altro modo di affrontare il lavoro e la vita. Ma è altrettanto evidente che ci sia questa interpretazione distorta del lavoro, che deriva pari pari dai falsi miti, quelli che appunto pretendono che tu ti debba sentire libero di fare quello che vuoi.
E a lavorare si fa fatica.
Perché la fatica, la sofferenza, è implicita se vuoi raggiungere la felicità e il senso. E se vuoi migliorare su questa strada.
“Tutto e subito” non fa parte della vita, è la strada verso la morte della felicità, quella che si basa sul senso vero della tua esistenza. “Tutto e subito” conduce alla negazione di ogni cosa che venga vista come un ostacolo a soddisfare i propri desideri: che si tratti di un lavoro da fare, di Expo, delle Sentinelle in Piedi.

Questa società dei diritti, in cui la pubblicità mal pensata soffia sul fuoco acceso dai maitre à penser dell’istinto, distrugge anche il senso del lavoro come migliore occasione della persona di essere migliore, di impegnare se stessa in un’opera che è sempre d’arte, che io pulisca la strada o diriga una orchestra o svolga un intervento a cuore aperto. La nobiltà sta nell’impegno messo, nella passione, nell’intenzione oltre che ovviamente nella cura, ma le due cose vanno di pari passo. Non regaleresti mai un mazzo di fiori appassiti o una scatola di cioccolatini scaduti. Così se il lavoro è mezzo per dare gloria, non puoi non farlo al meglio di te stesso e con attenzione alle persone.
È questo il mondo che Luca Tobagi rimpiange. E sottolinea un ulteriore fattore di decadenza: se da un lato c’è sufficienza nel fare, quasi che ciò che conti sia togliersi di mezzo lo sforzo al più presto, dall’altro manca sempre la dimensione del ringraziamento, dell’apprezzamento.
Il lavoro altrui è disprezzato: non se ne capisce il valore. Tutti sono convinti di poter fare tutto meglio degli altri. E quindi ciò che viene fatto è sempre scadente, sempre sottovalutato.

L’unico lavoro importante è il mio, il tuo… beh lo potrei fare meglio se solo avessi tempo di fare anche queste banalità: “Apprezzare il merito degli altri è un passaggio cruciale. Riconoscere che un lavoro ben svolto abbia un valore in sé richiede la capacità e la volontà di farlo”.
Certo, se io sono convinto, come i falsi miti mi insegnano, di essere il centro della vita, di essere l’unico importante, di essere chi ha diritto a tutti, lo svilimento del lavoro altrui è immediata conseguenza.


Tiriamo le somme, perché non è di aspetti tecnici che stiamo parlando, ma di felicità, di senso della vita, di relazioni umane: anche nel lavoro i falsi miti producono disperazione e degradazione, svilimento, impoverimento, prosciugamento.  È veramente questo che vogliamo per noi e i nostri figli?

sabato 2 maggio 2015

Bamboccioni! Anzi no: schiavi delle multinazionali!






Schizofrenia.
Sindrome dissociativa.
Con isteria.
Non so quanto consapevole. Da un certo punto di vista spero non lo sia.
Spero sia inconsapevole. Spero sia frutto di totale obnubilamento.
Perché vivere così è difficile, vivere nella menzogna. Vivere in totale disconnessione con le realtà. Vivere imprigionati in una galleria degli specchi, tutti deformi, che ti fanno vedere solo quello che vuoi vedere, che la tua mente proietta, che distorce il vero.
Lo so è un mio pallino, lo so: sono come un martello per cui tutto è chiodi, chiodi da ribattere, chiodi da picchiare dentro ad un muro..
Forse sono anche io malato: monomaniaco.
Oppure sono Cassandra. Costretto a vedere senza essere capito.
C’è che vedo: vedo questo meccanismo con cui i falsi miti vengono a galla, vengono assorbiti per osmosi, vengono stesi come una vernice, come pellicola che soffoca, che spegne la ragione.
Un continuo assedio alla logica.
Prendi questa vicenda, marginale magari, ma molto istruttiva –e a me interessa questo: spiegare i meccanismi per difendersi, per  svelare gli inganni, perché abbiamo bisogno di bambini che gridino “il re è nudo”, che ci riportino alla realtà, che smontino le costruzioni demoniache per rifarci vedere le stelle, per risvegliare il de-siderio come spiega  Nembrini- prendi questa vicenda dei bamboccioni di Expo e capisci come sia possibile intessere una serie impressionante di menzogne e trucchi e mistificazioni in due notizie e l’effetto che fa.
Prendi questa perché in apparenza è lontana da ciò che ci sta più a cuore. E invece no, perché se nella banalità, se nella leggerezza si distorce, allora tutti siamo in pericolo constante.
Ne discende che abbiamo proprio bisogno di capire i meccanismi con cui i media lavorano, ci serve per difenderci e aiutare gli altri a comprendere.
Seguitemi che ne vale la pena.
Dunque: su un “prestigioso quotidiano nazionale” (si dice così no?) esce una paginata sul tema “i giovani ed Expo”, seguita da equivalente articolo on-line con grande risalto. Obiettivo: sostenere la tesi che questi giovani sono choosie (quanto disprezzo in questa parola eh?) e fannulloni.
Il che in sé può avere un certo senso, che basta guardarsi in giro per capire che questo non è un problema da trascurare, ma da prendere seriamente in conto.
Quindi varrebbe la pena cercarne la radice. Eh, ma non si fa, perché è la medesima dei falsi miti: è la voglia di avere tutti, il diritto di avere tutto senza fare nulla. E questo non lo si può dire che verrebbe giù lo scenario di cartapesta costruito per far credere che libertà non sia fare la verità, ma fare quello che ho voglia: si scrive “segui il tuo cuore” e si legge “segui i tuoi ormoni, quali che siano”.
Quindi non è ben chiaro che cosa ci guadagnino a voler denigrare una generazione facendole fare la figura degli invertebrati. Ma il tono dell’articolo è questo fin dal titolo, che metto tra virgolette per staccarlo dal mio testo, ma che non assicuro sia letterale, diciamo che il senso è questo: “80% dei giovani rifiutano lavori da 1300-1700 € perché si lavora anche nei festivi”.
Monta l’onda: questi giovani bambocciosi, imbambagiti, derisi e catalogati, condannati senza ricercare né cause né attenuanti, reagiscono.
Ne viene fuori un quadro diverso, dove la figuraccia la fanno, nell’ordine, il giornalista e l’agenzia che intendeva reclutare i giovani.

Perché intanto pare che
a) le cifre citate siano lorde,
b) che quelli che hanno rifiutato in massa,  per ragioni le più disparate non ultimo che sono stati avvisati poche ore prima dell’articolo e hanno trovato altro nel frattempo, sono quelli che vengono definiti stagisti (stagisti? Ed Expo? Ma non dovrebbe essere un passaggio per imparare un mestiere? E qui quale mestiere impari? Quello dello schiavo?) per i quali era previsto un rimborso spese (lordo?) di 500 € mese,
c) che l’agenzia non l’abbia raccontata proprio così o proprio giusta.

Ora, o abiti dentro Expo o quei 500 € quasi quasi non ti bastano neanche per i trasporti (biglietto giornaliero 4,50 €, nessuna convenzione con l’agenzia: fa 135 € per 30 giorni di lavoro, poi c’è il vitto, l’alloggio per chi non abita a Milano e molti dei selezionati vengono da altre regioni dice l’articolo…).

Questo non è un lavoro sottopagato, questo è un hobby abbastanza costoso.

I giovani reagiscono con orgoglio e razionalità: dati alla mano. Infatti ecco il dietrofront: l’agenzia pubblica goccia a goccia i dati e il quotidiano in questione una serie di interviste e contro-articoli che demoliscono la tesi del primo pezzo.
Ma, attenzione, senza mai metterlo in discussione  o scusarsi. Mai. Così, come se la notiziona fuffa l’avesse data un altro periodico.

Che cosa c’è da imparare qui?
Beh intanto che della stampa non ci si può davvero più fidare: o scegli le firme di giornalisti che conosci –oltre a quelli che scrivono qui, ne ho in mente una trentina di persone dal carattere specchiato e dall’onestà conclamata, onestà intellettuale innanzitutto- oppure tutto va messo in discussione, perché qui le fonti non le cerca più nessuno. Quasi più nessuno, absit iniuria verbis, alza più il culo dalla sedia.
Ti nascondi dietro al fatto che ti è arrivata così la notizia, sì ma che cosa ci stai a fare tu? Tutti editorialisti?

Non sarà che quello che i media hanno in mente non è trasmettere notizie ma sostenere una ideologia?
Lo si vede quotidianamente sui temi che questo quotidiano discute con passione, come vengono trattati da altre testate manipolando i fatti, aggettivando con malizia, virgolettando i loro pensieri per attribuirli ad altri con cattiveria, rifiutando sistematicamente la correzione.
Pensi: ma questa è guerra, non è corretto, non è etico, ma per lo meno lo posso comprendere.
Ma sulla vicenda citata? Guerra con chi?

No, il punto è che ormai scatta solo la visione ideologica: questi giovani sono smidollati, non se ne salva uno, guarda qua, non vogliono più lavorare! E giù botte senza neanche provare a informarsi. È la costante manipolazione del reale, deformato dallo schermo della propria ideologia tutto deve conformarsi a questo.
Chessò, fanno un servizio su un istituto pubblico non statale perché ha ottenuto un prestigioso risultato sportivo? Ti trovi il cronista che indaga per sapere quanto ha speso o intrallazzato la scuola per arrivare al quel successo, e che per forza sei una scuola di ricchi e che con i soldi che hai speso sai quante scuole povere e democratiche rimettevi in sesto? Invece avrebbe potuto intervistare allenatori e studenti e genitori per tirarne fuori una di quelle belle storie all’americana dove lo sport aiuta a superare tutto.
Tutto è ideologia e tutto deve essere incastrato dentro ad uno schema precostituito.

Ma non basta: altra lezione. La notizia è effimera, i lettori sono imbecilli che non ricordano. Ho preso un colossale abbaglio, non sento il diritto di scusarmi, di dare una spiegazione. No, basta che rigiro la notizia: prima la tesi era che i giovani di oggi non vogliono fare più fatica (e quindi magari abbiamo bisogno di navigli di immigrati che li facciano) e invece adesso al centro ci sono questi poveri ragazzi che vorrebbero tanto lavorare ma che sono sfruttati, colpa del Jobs act, colpa delle imprese capitaliste cattive a caccia di mandopera schiavizzata.
Rigiri la notizia, cambi focus e il gioco è fatto.
Oppure tutto è opinabile, non esiste realtà: basta mettere “a confronto” opinioni diverse, due voci –che poi non sono mai equilibrate, basta cambiare il carattere, dosare i titoli e sai bene da che parte far pendere la bilancia- che sostengano tesi diverse e tutto è giusto, corretto. Davvero? Non c’è più una verità? Immaginiamo un dibattito tra chi sostiene che 2+2=4 e chi invece dice che 2+2=3 e lasciamo scegliere al lettore?

Ma è così? lettori così imbecilli che non se ne accorgono?

Terzo elemento: l’inconsistenza culturale. Parlavo di schizofrenia. Dissociazione. Sostenere una tesi ideologica senza esaurirla. Senza cercarne le fonti. Vuoi stigmatizzare il fannullismo dei giovani? Può starci dicevo, è un fenomeno vero, crescente, doloroso. Si ricollega davvero ad una visione distorta dell’educazione. Sono frequenti i casi ormai di aziende che segnalano un fatto che ha dell’incredibile: il candidato si presenta al colloquio accompagnato da almeno un genitore che vuole avere voce in capitolo!
Il senso del lavoro è stato smarrito: non è un più percepito come una attività significativa della mia vita che mi permette di sviluppare qualità umane mentre con serietà contribuisco alla costruzione della società, ma è diventato quel doloroso tunnel nel quale devo transitare per poter vivere la mia vita che è fuori da lì.
Bene, e allora non ti chiedi perché si è arrivati qui? Non cerchi di indagare sulla demolizione della educazione che i falsi miti rilanciano? Non provi a capire come la distruzione delle figure genitoriali, del ruolo del padre e della madre, sono la causa prima?
No!
Per te conta solo l’ideologia, la notizia. Non ti fai neanche più domande. Non cerchi di capire, non cerchi di trovare il perché, non vuoi farlo. Troppa fatica e poi magari si rischia di dare ragione a chi indica la verità, a chi combatte questi falsi miti.


E una società che abbia perso il gusto della domanda è una società sazia e impazzita destinata all’estinzione in tempi brevi.