Quando i cinquant’anni sono stati raggiunti e superati con la velocità del suono di una sirena arrabbiata, tre sono le possibilità che rimangono all’uomo che non vuole rimanere ad attendere l’impatto indifeso e inconsapevole: farsi l’amante, farsi una macchina rossa, scrivere un blog. Dato che mi state leggendo (davvero? Mi state davvero leggendo?) avete compreso che ho scartato le prime due ipotesi. E per scelta volontaria e creduta, non certo forzata.

Ma che cosa e perché scrivere? Condividere, o l’illusione di farlo, aiuta spesso a sentirsi in compagnia di fronte alla piccole battaglie della vita: quelle grandi, si sa, le si può affrontare solo in compagnia di se stessi, senza nessuno scudiero o cavaliere al proprio fianco.

La prima delle sfide e quella che affettuosamente potremmo definire di san Giuseppe, che di fatto nomino mio speciale e personale protettore confidando sulla sua ironia e bonomia. In che cosa consiste questa sindrome? Nel sentirsi ovviamente il più imperfetto della famiglia dovendone invece apparire la guida salda. Non che con questo voglia affidarmi a una melliflua umiltà fasulla, l’autocompiacimento di sentirsi negare la denigrazione e gustare così una vanitosa ricompensa per la propria maliziosa modestia. Affatto. Lauto compiacimento può derivare solo dalla concretezza. Non che non sia vanitoso, tutt’altro: la vanità è sempre in agguato, come ben sa il diavolo impersonato da Al Pacino nel mondo degli avvocati.
Gli è che essendo proprio vanitoso e anche intelligente, so bene che l’ambizioso deve attingere a piene mani all’umiltà: per crescere, ambizione che può essere anche nobile e saggia, bisogna capire dove migliorare. E per capirlo non c’è che l’umiltà.
L’ambizioso vanesio e superbo farà una brutta e rapida fine.

Quindi qui sto: con una moglie tendente alla perfezione, pur con difetti marginali che provocano in me tanto irritazioni quanto ammirazione per la loro trascurabile banalità; con tre figli che, come recitano brutti film, hanno preso maggiormente da me i difetti, e quindi non posso accusarli di una eredità che ho trasmesso loro; con un lavoro che amo e che ogni mese mi sfida sempre di più, aiutandomi a non fare mai mia la sicurezza.
Di che scrivere dunque?

Della precarietà, della inadeguatezza che mi rende comico a me stesso, specchio delle cose che ho appreso e che rivedo, con squarciante veridicità, nel mio quotidiano.

sabato 28 febbraio 2015

Gimmi five

Articolo apparso su La Croce del 25 febbraio 2015




I precedenti articoli si trovano qui


I media e le parole (versione ufficiale)
Il furto delle parole (extended version)
Le parole tra noi leggere
And then there were three
Ricomincio da quattro



Due sono le categorie di scultori di parole che amo particolarmente: gli esploratori e i giocolieri.
I primi sono capaci di leggere nella realtà le parole nascoste dalla creazione e non ancora rivelate, le frasi impigliate nelle situazioni e nelle immagini, che occhieggiano trattenute dalla grammatica e dalla fantasia  sospinte, e le sanno dichiarare e risplendere come un croco.
I secondi le intrecciano con così sublime agilità da tessere storie e umorismo, di quello sagace che castiga i costumi, che illumina a giorno le tenebre della noia, che confessano deridendo se stessi innanzitutto.
Perché a me l’ironia piace, e la sintesi pure. E mi sono scelto due amanti difficili, di quelle che sorridono poco e poco si mescolano con gli altri, perché sdegnano la battuta greve e unta, e il discorso che tenta di confondere con la quantità, come un vino d’osteriaccia.
Adoro le sfide che Six Words Memories lancia con frequenza assordante, invitando a condensare una vita, un sogno, un amore in sei sole parole. Ci provai, ed in inglese, e ebbi l’onore di finire in prima pagina, per i famosi 15 minuti di celebrità nel raccontare come vita e amore per me erano così fortemente intessuti da non essere più separabili: teen love: profound passion. Still married. Che in italiano suona così, con durezza imposta dal sestino: amore liceale, passione profonda. Ancora sposati.
E a ben vedere non è così male, la vita non la frase, anche quella d’accordo, ma le parole che scrivi nel vento o sull’acqua non possono essere specchio della vita che pure scivola e si dissolve, ma senza sfarinarsi se è ben piantata.
Perché è grazie alla Parola che il mondo è stato creato, e le parole devono aiutarci a rivelarlo fin nei minimi particolari per gustarlo e grazie a questo piacere risalire al Creatore, come può fare un cielo stellato, la cima di un monte, l’alto mare, una scogliera a cascata, il sorriso di chi ami e molto di più.
Amo quindi coloro che sanno recuperare queste parole, capaci di dischiudere la verità, e ce le donano, dentro una poesia il più delle volte, ma non solo: perché tra gli esploratori, quelli che spremono il senso con novità di sillabe, io accanto a Dante ce li metterei Beppe Viola e Gianni Brera che quanto a smodellatori di aggettivi stanno bene insieme ai poeti laureati, non però in botanica, ma nella limonaia dove la solarità del giallo scroscia in petto e dà fiato alle trombe.
Se solo riflettessimo sul fatto che una intrigante numero di espressioni che oggi ci suonano così familiari da apparire quasi sdrucite trovano la luce nel buio dell’Inferno dantesco o si squadernano nei regni illuminati dalla Grazia, ci tremerebbero vene e polsi nel pronunciarle perché stiamo facendo poesia non trivialità e se alla fine dalle aule o dalle corti queste pennellate di verità sono scese nelle strade per impigliarsi nei discorsi di comari e carrettieri nei quadrivi, un significato ci sarà.
Perché la realtà va scoperta, non inventata, e le parole che ce la svelano raramente fanno rima con ideologia, che non è ahimè l’idea della ragione, ma l’idea che pretende di avere ragione e che sovrappone con la violenza della manipolazione le proprie presunzioni alla verità. Così come derideva Guzzanti affermando che “se la politica e i politici  non rappresenta più gli elettori, allora cambiamoli questi elettori!”.
La difesa delle parole, così come dei concetti base, quelli che non avrebbero bisogno di sguainare spade in un mondo che non si fosse fatto di egoismo trangugiato a grandi boccali di passionalità, diventa imperativa. Proprio domenica scorsa Paolo di Stefano sul Corrierone pubblica il vocabolario della nostra storia. Potete immaginare come ne sia rimasto colpito, prima dalla vanità (ci staranno copiando? MI staranno copiando?) poi dal timore (e quale parole sparano?) infine, letto il pezzo, sono stato assalito dalla delusione intrisa di una consapevolezza cupa e amareggiata. Perché tra le parole che secondo giornale e giornalista hanno cambiato il nostro costume non c’è nessuna di quelle qui sottoposte a raggi etimologici, bensì termini quali Bancomat, Scottex, Minigonna, Giradischi, Bosone, Hashtag e così via. Ora io capisco che questa roba qui c’ha modificato la vita, vero, ma a me interessa più capire come c’hanno modificato il cuore termini dell’antilingua-vale a dire “parole dette per non dire quello che si ha paura di dire”, molto simile alle neolingua orwelliana- come interruzione volontaria di gravidanza, divorzio, amore libero, pillolo, diritto alla scelta, omofobo e così via.
Pia illusione quella di vederla sventrata questa cattedrale del male che ci invita ad adorare noi stessi in una statua che solo quando si toglierà la maschera rivelerà l’inganno rivelando che nel culto di sé si nasconde quello del maligno. Un po’ come i vecchi Visitors dei miei anni.
Coltivare la poesia, questo sì. Lo diceva in un fortunato libro Donatella Bisutti “la poesia salva la vita” perché scava dentro. Certo bisogna però che il campo sul quale piovono versi e rime sia per lo meno predisposto, non dico fertile, ma nemmeno arido, gonfio di rovi, preda di corvi.
Insomma che il travaso di senso non si scontri con quella pochezza di ascolto che non è ignoranza –che come si sa spesso è intrisa di saggezza, come raccontano quei bellissimi libri di un vecchi sacerdote romagnolo del quale ora, a causa della confusione che fanno i miei inseparabili amici Al e Xaimer non ho che un velato ricordo, un libro che contiene nel titolo Parole e il posto dove lo conservavo sul comodino prima che fosse rimesso a posto, anzi se qualcuno ha capito che me lo ricordi per favore, la comunità che ci sta a fare? (ndr Parole Poverette di don Francesco Fuschini)-   non è ignoranza dicevo, ma rifiuto di ciò che non sta nel gradino della pancia piena, del piacere immediato, quell’assurda chiusura allo spirito che Paola Mastrocola racconta con una fulminante battuta “che dialogo ci può essere tra una generazione che esclama ‘c’è del marcio in Danimarca!’ e una che risponde ‘va bè, perché pensi che qui da noi si stia meglio?’”.
Parole dunque come dighe, come massi, come fondamenta, come strada.
Lasciamoci guidare dunque dalle ultime parole che insieme esploriamo, come territori nei quali trovare il nostro tesoro.



Progresso
Innanzitutto mito anche perché non si capisce perché andare avanti debba fare stare meglio. Mi sembrava che i tempi del “se avanzo seguitemi” fossero stati definiti un regresso. L’ingresso verso la sapienza non necessariamente sta davanti e le sorti magnifiche e progressive impongono la mediazione della coscienza per capire se per caso su alcune questioni non convenga restare nella retroguardia invece che nella linea che avanza e viene falciata dalle mitragliatrici nemiche. Perché a volte l’evoluzione si fa stando fermi, non con le rivoluzioni, ma magari con il pensiero laterale che aiuta ad avere una visione differente e a collegare tra loro causa ed effetto, preziosa capacità questa che mi sembra ormai sempre più rara (e scusate la digressione). Adelante Pedro con juicio era forse codardia per Ferrer, ma forse anche solo buonsenso.

Salute & salvezza
Due is megl che uan, diceva una vecchia pubblicità. E due siano. Perché spesso la prima viene presa per la seconda. Comprensibile in un mondo che ha ridotto tutto a materia e l’uomo a corpo così che risulti incomprensibili tutto ciò che è rinuncia per un fine superiore. Allora l’allegra proposta di creare un quartiere a luci rosse diventa protezione della salute per operatrici del sesso (ancora antilingua) e clienti come le case chiuse, che poi si può anche fatturare e pagarci le tasse e non so se questa roba qui sia tragica proposta politica o da affiancare ala cabaret dei Misteri di satira dove si afferma che per combattere corruzione e pizzo la migliore soluzione è legalizzarli e metterli in fattura. E a bilancio.
Salute è lo star bene di un corpo, va bene che Troisi affermava che quando c’è questa c’è tutto, ma solo per rimproverare a Fiorenza Marchegiani che l’amore non gli fosse bastante per perdonare un dolore. Salvezza gioca su un piano diverso, superiore, totalizzante: è la nave che ti ridà la speranza e la vita, intera non solo vegetativa; è la mano che ti solleva, l’orecchio che ascolta, l’abbraccio che ti rinfranca. La benedizione che ti ridona la Grazia. Nella tragedia di considerare la salute superiore alla salvezza sta i declino della nostra società.

Desiderio
Come ricorda Nembrini, spiegando Dante, l’etimologia di questa parola rimanda alle stelle, de-sidero, la voglia di andare alle stelle, a riveder le stelle, a salire alle stelle. Con facile battuta l’abbiamo reindirizzato alle stalle. Per via di quella voglia di materia che chiude l’orizzonte trasformando la Terra non in un paradiso, ma in una gabbia dove homo homini lupus, luogo che dà concretezza alla minaccia di Sartre “l’énfer c’est les autres”, l’inferno sono gli altri.
Desiderio desideravi dice il Signore che va incontro alla sua Passione. Ben altri desideri e ben altre passioni si giocano oggi nella quotidianità. Ditemi voi se ci abbiamo guadagnato o perso.

Piacere
Don Fabio Bartoli spiega che l’etimologia di questa parola di gran moda in realtà sembra negarne l’attuale applicazione: piacere deriva da placare, cioè ciò che placa il desiderio rendendo reale ciò che si agogna. Certo che se quello che desidero è l’insaziabile brama della carne, ma sarà placato questo abuso di piacere. A ben pensarci “mipiace” dovrebbe dire proprio questo: in Te mi riposo, in Te (ma anche in te) trovo quiete e pace.  Per sempre, non il tempo che il post svanisca dalla mia homepage. Se Ungaretti poetasse ora scriverebbe per comunicare la fragilità: si sta come di sera, un tweet sulla timeline.


Decisione
Taglio netto, rasoiata precisa che divide, spezza, cancella. Una decisione implica una rinuncia, perché questo è il bello della libertà: quando da potenza diventa atto, nell’esercitarsi si limita, deponendo tutte le scelte non fatte. Decisione è ancora di più. Taglio dopo aver pensato, visto, constatato. Come un chirurgo. Che poi non è che può ripensarci e rimettere insieme i lembi recisi. Non so se il plagio derivi dai videogiochi, che se muori puoi comunque ricominciare, o dalla follia che pretende l’uomo artefice del proprio destino, ma questa storia che chi decide si ritaglia il futuro una volta per sempre non sembrano averla capita in molti.

Allegria
Forse fu colpa di Mike Buongiorno, che nello sdoganarla la banalizzò al punto da diventare il claim di una grappa, o forse di chi ne ha frainteso il senso, com’è come non è, di gente allegra oggi in giro se ne vede pochissima. Spensierata sì, ma essere privi di pensieri non è un vanto a mio parere. Allegro deriva da alacre, che fa trasparire la sua gioia perché pervade tutto la sua persona, partendo come un fuoco dalla sua interiorità. Un santo a me caro diceva che l’allegria buona non è quella dell’animale sano, ma quella di chi si sa e si sente salvato.

Laico
Non ordinato. Tutto qui. I christifideles laici sono coloro che non hanno emesso voti o ricevuto il sacramento dell’ordine sacerdotale. Chissà come mai è diventato sinonimo di chi detesta la Chiesa perché ne nega i valori? Laico sembra voler dire non confessionale, che peraltro non vorrebbe dire anti-confessionale. Se per esser neutri bisogna essere contro c’è qualche cosa che in questa definizione di neutralità non funziona. Chiedere alla Svizzera, neutrale per definizione.

Perversione
Fuori dalla giusta strada. Per-vertire sta per distogliere con violenza dall’obiettivo. Un po’ come de-vertere, divertire, che ha un senso non dissimile –sempre un allontanamento dallo scopo- ma meno brutalità. Strano che sia diventato un sostantivo che evoca raffinati giochi di piacere, forse perché in assenza di bussola, tutto è un andare fuori strada. Che peraltro non è come andare fuoripista.
Fatto è che si tratta sempre di andare contromano, che è diverso da controcorrente e da controvento. E se per divertirsi ci si perverte….

Tentare
Che strana parola che reca significati ambigui: provare potrebbe essere positivo –va bè, Joda non sarebbe d’accordo, lui vuole fare o non fare, ma diciamo che provarci probabilmente è segno di una volontà che si allena- mettere in tentazione invece decisamente no. Lasciarsi tentare è ciò che chiediamo al Padre Nostro di non farci fare, eppure di questa espressione si sono appropriati i pubblicitari che senza accorgersene accostano i loro prodotti al sussurro del maligno. La tentazione si sconfigge con la resistenza –fino al sangue dice san Paolo, nella preghiera dico io- non certo cedendole. E se la tentazione oggi si esercita attraverso strutture di peccato, bene evitare di entrare nel vortice: non tentare di resistere alla tentazione, meglio fuggire. Non è la fuga del disertore, ma del prigioniero che torna a casa.

Abitudine

Se è habitus è sinonimo di virtù. Se è ripetizione abusata produce noia. La prima va coltivata, la seconda…. Per questo, per evitare che questo incontri diventi abitudine, è bene mettere qui l’ultima parola a questa traversata nell’oceano della confusione alla ricerca del senso perduto delle parole: punto.

sabato 21 febbraio 2015

La famiglia secondo Papa Francesco






Udienze generali del mercoledì
Papa Francesco

La Famiglia



  



La Famiglia - 1. Nazaret
Cari fratelli e sorelle buongiorno!
Il Sinodo dei Vescovi sulla Famiglia, appena celebrato, è stato la prima tappa di un cammino, che si concluderà nell’ottobre prossimo con la celebrazione di un’altra Assemblea sul tema “Vocazione e missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo”. La preghiera e la riflessione che devono accompagnare questo cammino coinvolgono tutto il Popolo di Dio. Vorrei che anche le consuete meditazioni delle udienze del mercoledì si inserissero in questo cammino comune. Ho deciso perciò di riflettere con voi, in questo anno, proprio sulla famiglia, su questo grande dono che il Signore ha fatto al mondo fin dal principio, quando conferì ad Adamo ed Eva la missione di moltiplicarsi e di riempire la terra (cfr Gen 1,28). Quel dono che Gesù ha confermato e sigillato nel suo vangelo.
La vicinanza del Natale accende su questo mistero una grande luce. L’incarnazione del Figlio di Dio apre un nuovo inizio nella storia universale dell’uomo e della donna. E questo nuovo inizio accade in seno ad una famiglia, a Nazaret. Gesù nacque in una famiglia. Lui poteva venire spettacolarmente, o come un guerriero, un imperatore… No, no: viene come un figlio di famiglia, in una famiglia. Questo è importante: guardare nel presepio questa scena tanto bella.
Dio ha scelto di nascere in una famiglia umana, che ha formato Lui stesso. L’ha formata in uno sperduto villaggio della periferia dell’Impero Romano. Non a Roma, che era la capitale dell’Impero, non in una grande città, ma in una periferia quasi invisibile, anzi, piuttosto malfamata. Lo ricordano anche i Vangeli, quasi come un modo di dire: «Da Nazaret può mai venire qualcosa di buono?» (Gv 1,46). Forse, in molte parti del mondo, noi stessi parliamo ancora così, quando sentiamo il nome di qualche  luogo periferico di una grande città. Ebbene, proprio da lì, da quella periferia del grande Impero, è iniziata la storia più santa e più buona, quella di Gesù tra gli uomini! E lì si trovava questa famiglia.
Gesù è rimasto in quella periferia per trent’anni. L’evangelista Luca riassume questo periodo così: Gesù «era loro sottomesso [cioè a Maria e Giuseppe]. E uno potrebbe dire: “Ma questo Dio che viene a salvarci, ha perso trent’anni lì, in quella periferia malfamata?” Ha perso trent’anni! Lui ha voluto questo. Il cammino di Gesù era in quella famiglia. « La madre custodiva nel suo cuore tutte queste cose, e Gesù cresceva in sapienza, in età e in grazia davanti a Dio e davanti agli uomini» (2,51-52). Non si parla di miracoli o guarigioni, di predicazioni - non ne ha fatta nessuna in quel tempo - di folle che accorrono; a Nazaret tutto sembra accadere “normalmente”, secondo le consuetudini di una pia e operosa famiglia israelita: si lavorava, la mamma cucinava, faceva tutte le cose della casa, stirava le camice… tutte le cose da mamma. Il papà, falegname, lavorava, insegnava al figlio a lavorare. Trent’anni. “Ma che spreco, Padre!”. Le vie di Dio sono misteriose. Ma ciò che era importante lì era la famiglia! E questo non era uno spreco! Erano grandi santi: Maria, la donna più santa, immacolata, e Giuseppe, l’uomo più giusto… La famiglia.
Saremmo certamente inteneriti dal racconto di come Gesù adolescente affrontava gli appuntamenti della comunità religiosa e i doveri della vita sociale; nel conoscere come, da giovane operaio, lavorava con Giuseppe; e poi il suo modo di partecipare all’ascolto delle Scritture, alla preghiera dei salmi e in tante altre consuetudini della vita quotidiana. I Vangeli, nella loro sobrietà, non riferiscono nulla circa l’adolescenza di Gesù e lasciano questo compito alla nostra affettuosa meditazione. L’arte, la letteratura, la musica hanno percorso questa via dell’immaginazione. Di certo, non ci è difficile immaginare quanto le mamme potrebbero apprendere dalle premure di Maria per quel Figlio! E quanto i papà potrebbero ricavare dall’esempio di Giuseppe, uomo giusto, che dedicò la sua vita a sostenere e a difendere il bambino e la sposa – la sua famiglia – nei passaggi difficili! Per non dire di quanto i ragazzi potrebbero essere incoraggiati da Gesù adolescente a comprendere la necessità e la bellezza di coltivare la loro vocazione più profonda, e di sognare in grande! E Gesù ha coltivato in quei trent’anni la sua vocazione per la quale il Padre lo ha inviato. E Gesù mai, in quel tempo, si è scoraggiato, ma è cresciuto in coraggio per andare avanti con la sua missione.
Ciascuna famiglia cristiana – come fecero Maria e Giuseppe – può anzitutto accogliere Gesù, ascoltarlo, parlare con Lui, custodirlo, proteggerlo, crescere con Lui; e così migliorare il mondo. Facciamo spazio nel nostro cuore e nelle nostre giornate al Signore. Così fecero anche Maria e Giuseppe, e non fu facile: quante difficoltà dovettero superare! Non era una famiglia finta, non era una famiglia irreale. La famiglia di Nazaret ci impegna a riscoprire la vocazione e la missione della famiglia, di ogni famiglia. E, come accadde in quei trent’anni a Nazaret, così può accadere anche per noi: far diventare normale l’amore e non l’odio, far diventare comune l’aiuto vicendevole, non l’indifferenza o l’inimicizia. Non è un caso, allora, che “Nazaret” significhi “Colei che custodisce”, come Maria, che – dice il Vangelo – «custodiva nel suo cuore tutte queste cose» (cfr Lc 2,19.51). Da allora, ogni volta che c’è una famiglia che custodisce questo mistero, fosse anche alla periferia del mondo, il mistero del Figlio di Dio, il mistero di Gesù che viene a salvarci, è all’opera. E viene per salvare il mondo. E questa è la grande missione della famiglia: fare posto a Gesù che viene, accogliere Gesù nella famiglia, nella persona dei figli, del marito, della moglie, dei nonni… Gesù è lì. Accoglierlo lì, perché cresca spiritualmente in quella famiglia. Che il Signore ci dia questa grazia in questi ultimi giorni prima del Natale. Grazie.




La Famiglia - 2. Madre
Cari fratelli e sorelle, buongiorno. Oggi continuiamo con le catechesi sulla Chiesa e faremo una riflessione sulla Chiesa madre. La Chiesa è madre. La nostra Santa madre Chiesa.
In questi giorni la liturgia della Chiesa ha posto dinanzi ai nostri occhi l’icona della Vergine Maria Madre di Dio. Il primo giorno dell’anno è la festa della Madre di Dio, a cui segue l’Epifania, con il ricordo della visita dei Magi. Scrive l’evangelista Matteo: «Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono» (Mt 2,11). E’ la Madre che, dopo averlo generato, presenta il Figlio al mondo. Lei ci dà Gesù, lei ci mostra Gesù, lei ci fa vedere Gesù.
Continuiamo con le catechesi sulla famiglia e nella famiglia c’è la madre. Ogni persona umana deve la vita a una madre, e quasi sempre deve a lei molto della propria esistenza successiva, della formazione umana e spirituale. La madre, però, pur essendo molto esaltata dal punto di vista simbolico, - tante poesie, tante cose belle che si dicono poeticamente della madre - viene poco ascoltata e poco aiutata nella vita quotidiana, poco considerata nel suo ruolo centrale nella società. Anzi, spesso si approfitta della disponibilità delle madri a sacrificarsi per i figli per “risparmiare” sulle spese sociali.
Accade che anche nella comunità cristiana la madre non sia sempre tenuta nel giusto conto, che sia poco ascoltata. Eppure al centro della vita della Chiesa c’è la Madre di Gesù. Forse le madri, pronte a tanti sacrifici per i propri figli, e non di rado anche per quelli altrui, dovrebbero trovare più ascolto. Bisognerebbe comprendere di più la loro lotta quotidiana per essere efficienti al lavoro e attente e affettuose in famiglia; bisognerebbe capire meglio a che cosa esse aspirano per esprimere i frutti migliori e autentici della loro emancipazione. Una madre con i figli ha sempre problemi, sempre lavoro. Io ricordo a casa, eravamo cinque figli e mentre uno ne faceva una, l’altro pensava di farne un’altra, e la povera mamma andava da una parte all’altra, ma era felice. Ci ha dato tanto.
Le madri sono l’antidoto più forte al dilagare dell’individualismo egoistico. “Individuo” vuol dire “che non si può dividere”. Le madri invece si “dividono”, a partire da quando ospitano un figlio per darlo al mondo e farlo crescere. Sono esse, le madri, a odiare maggiormente la guerra, che uccide i loro figli. Tante volte ho pensato a quelle mamme quando hanno ricevuto la lettera: “Le dico che suo figlio è caduto in difesa della patria…”. Povere donne! Come soffre una madre! Sono esse a testimoniare la bellezza della vita. L’arcivescovo Oscar Arnulfo Romero diceva che le mamme vivono un “martirio materno”. Nell’omelia per il funerale di un prete assassinato dagli squadroni della morte, egli disse, riecheggiando il Concilio Vaticano II: «Tutti dobbiamo essere disposti a morire per la nostra fede, anche se il Signore non ci concede questo onore… Dare la vita non significa solo essere uccisi; dare la vita, avere spirito di martirio, è dare nel dovere, nel silenzio, nella preghiera, nel compimento onesto del dovere; in quel silenzio della vita quotidiana; dare la vita a poco a poco? Sì, come la dà una madre, che senza timore, con la semplicità del martirio materno, concepisce nel suo seno un figlio, lo dà alla luce, lo allatta, lo fa crescere e accudisce con affetto. E’ dare la vita. E’ martirio». Fino a qui la citazione. Sì, essere madre non significa solo mettere al mondo un figlio, ma è anche una scelta di vita. Cosa sceglie una madre, qual è la scelta di vita di una madre? La scelta di vita di una madre è la scelta di dare la vita. E questo è grande, questo è bello.
Una società senza madri sarebbe una società disumana, perché le madri sanno testimoniare sempre, anche nei momenti peggiori, la tenerezza, la dedizione, la forza morale. Le madri trasmettono spesso anche il senso più profondo della pratica religiosa: nelle prime preghiere, nei primi gesti di devozione che un bambino impara, è inscritto il valore della fede nella vita di un essere umano. E’ un messaggio che le madri credenti sanno trasmettere senza tante spiegazioni: queste arriveranno dopo, ma il germe della fede sta in quei primi, preziosissimi momenti. Senza le madri, non solo non ci sarebbero nuovi fedeli, ma la fede perderebbe buona parte del suo calore semplice e profondo. E la Chiesa è madre, con tutto questo, è nostra madre! Noi non siamo orfani, abbiamo una madre! La Madonna, la madre Chiesa, e la nostra mamma. Non siamo orfani, siamo figli della Chiesa, siamo figli della Madonna, e siamo figli delle nostre madri.
Carissime mamme, grazie, grazie per ciò che siete nella famiglia e per ciò che date alla Chiesa e al mondo. E a te, amata Chiesa, grazie, grazie per essere madre. E a te, Maria, madre di Dio, grazie per farci vedere Gesù. E grazie a tutte le mamme qui presenti: le salutiamo con un applauso!





La Famiglia - 3. Padre
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Riprendiamo il cammino di catechesi sulla famiglia. Oggi ci lasciamo guidare dalla parola “padre”. Una parola più di ogni altra cara a noi cristiani, perché è il nome con il quale Gesù ci ha insegnato a chiamare Dio: padre. Il senso di questo nome ha ricevuto una nuova profondità proprio a partire dal modo in cui Gesù lo usava per rivolgersi a Dio e manifestare il suo speciale rapporto con Lui. Il mistero benedetto dell’intimità di Dio, Padre, Figlio e Spirito, rivelato da Gesù, è il cuore della nostra fede cristiana.
“Padre” è una parola nota a tutti, una parola universale. Essa indica una relazione fondamentale la cui realtà è antica quanto la storia dell’uomo. Oggi, tuttavia, si è arrivati ad affermare che la nostra sarebbe una “società senza padri”. In altri termini, in particolare nella cultura occidentale, la figura del padre sarebbe simbolicamente assente, svanita, rimossa. In un primo momento, la cosa è stata percepita come una liberazione: liberazione dal padre-padrone, dal padre come rappresentante della legge che si impone dall’esterno, dal padre come censore della felicità dei figli e ostacolo all’emancipazione e all’autonomia dei giovani. Talvolta in alcune case regnava in passato l’autoritarismo, in certi casi addirittura la sopraffazione: genitori che trattavano i figli come servi, non rispettando le esigenze personali della loro crescita; padri che non li aiutavano a intraprendere la loro strada con libertà - ma non è facile educare un figlio in libertà -; padri che non li aiutavano ad assumere le proprie responsabilità per costruire il loro futuro e quello della società.
Questo, certamente, è un atteggiamento non buono; però come spesso avviene, si passa da un estremo all’altro. Il problema dei nostri giorni non sembra essere più tanto la presenza invadente dei padri, quanto piuttosto la loro assenza, la loro latitanza. I padri sono talora così concentrati su se stessi e sul proprio lavoro e alle volte sulle proprie realizzazioni individuali, da dimenticare anche la famiglia. E lasciano soli i piccoli e i giovani. Già da vescovo di Buenos Aires avvertivo il senso di orfanezza che vivono oggi i ragazzi; e spesso domandavo ai papà se giocavano con i loro figli, se avevano il coraggio e l’amore di perdere tempo con i figli. E la risposta era brutta, nella maggioranza dei casi: “Mah, non posso, perché ho tanto lavoro…”. E il padre era assente da quel figliolo che cresceva, non giocava con lui, no, non perdeva tempo con lui.
Ora, in questo cammino comune di riflessione sulla famiglia, vorrei dire a tutte le comunità cristiane che dobbiamo essere più attenti: l’assenza della figura paterna nella vita dei piccoli e dei giovani produce lacune e ferite che possono essere anche molto gravi. E in effetti le devianze dei bambini e degli adolescenti si possono in buona parte ricondurre a questa mancanza, alla carenza di esempi e di guide autorevoli nella loro vita di ogni giorno, alla carenza di vicinanza, alla carenza di amore da parte dei padri. E’ più profondo di quel che pensiamo il senso di orfanezza che vivono tanti giovani.
Sono orfani in famiglia, perché i papà sono spesso assenti, anche fisicamente, da casa, ma soprattutto perché, quando ci sono, non si comportano da padri, non dialogano con i loro figli, non adempiono il loro compito educativo, non danno ai figli, con il loro esempio accompagnato dalle parole, quei principi, quei valori, quelle regole di vita di cui hanno bisogno come del pane. La qualità educativa della presenza paterna è tanto più necessaria quanto più il papà è costretto dal lavoro a stare lontano da casa. A volte sembra che i papà non sappiano bene quale posto occupare in famiglia e come educare i figli. E allora, nel dubbio, si astengono, si ritirano e trascurano le loro responsabilità, magari rifugiandosi in un improbabile rapporto “alla pari” con i figli. E’ vero che tu devi essere “compagno” di tuo figlio, ma senza dimenticare che tu sei il padre! Se tu ti comporti soltanto come un compagno alla pari del figlio, questo non farà bene al ragazzo.
E questo problema lo vediamo anche nella comunità civile. La comunità civile con le sue istituzioni, ha una certa responsabilità – possiamo dire paterna - verso i giovani, una responsabilità che a volte trascura o esercita male. Anch’essa spesso li lascia orfani e non propone loro una verità di prospettiva. I giovani rimangono, così, orfani di strade sicure da percorrere, orfani di maestri di cui fidarsi, orfani di ideali che riscaldino il cuore, orfani di valori e di speranze che li sostengano quotidianamente. Vengono riempiti magari di idoli ma si ruba loro il cuore; sono spinti a sognare divertimenti e piaceri, ma non si dà loro il lavoro; vengono illusi col dio denaro, e negate loro le vere ricchezze.
E allora farà bene a tutti, ai padri e ai figli, riascoltare la promessa che Gesù ha fatto ai suoi discepoli: «Non vi lascerò orfani» (Gv 14,18). E’ Lui, infatti, la Via da percorrere, il Maestro da ascoltare, la Speranza che il mondo può cambiare, che l’amore vince l’odio, che può esserci un futuro di fraternità e di pace per tutti. Qualcuno di voi potrà dirmi: “Ma Padre, oggi Lei è stato troppo negativo. Ha parlato soltanto dell’assenza dei padri, cosa accade quando i padri non sono vicini ai figli… È vero, ho voluto sottolineare questo, perché mercoledì prossimo proseguirò questa catechesi mettendo in luce la bellezza della paternità. Per questo ho scelto di cominciare dal buio per arrivare alla luce. Che il Signore ci aiuti a capire bene queste cose. Grazie.





La Famiglia - 3Bis Padre (II)
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Oggi vorrei svolgere la seconda parte della riflessione sulla figura del padre nella famiglia. La volta scorsa ho parlato del pericolo dei padri “assenti”, oggi voglio guardare piuttosto all’aspetto positivo. Anche san Giuseppe fu tentato di lasciare Maria, quando scoprì che era incinta; ma intervenne l’angelo del Signore che gli rivelò il disegno di Dio e la sua missione di padre putativo; e Giuseppe, uomo giusto, «prese con sé la sua sposa» (Mt 1,24) e divenne il padre della famiglia di Nazaret.
Ogni famiglia ha bisogno del padre. Oggi ci soffermiamo sul valore del suo ruolo, e vorrei partire da alcune espressioni che si trovano nel Libro dei Proverbi, parole che un padre rivolge al proprio figlio, e dice così: «Figlio mio, se il tuo cuore sarà saggio, anche il mio sarà colmo di gioia. Esulterò dentro di me, quando le tue labbra diranno parole rette» (Pr 23,15-16). Non si potrebbe esprimere meglio l’orgoglio e la commozione di un padre che riconosce di avere trasmesso al figlio quel che conta davvero nella vita, ossia un cuore saggio. Questo padre non dice: “Sono fiero di te perché sei proprio uguale a me, perché ripeti le cose che dico e che faccio io”. No, non  gli dice semplicemente qualcosa. Gli dice qualcosa di ben più importante, che potremmo interpretare così: “Sarò felice ogni volta che ti vedrò agire con saggezza, e sarò commosso ogni volta che ti sentirò parlare con rettitudine. Questo è ciò che ho voluto lasciarti, perché diventasse una cosa tua: l’attitudine a sentire e agire, a parlare e giudicare con saggezza e rettitudine. E perché tu potessi essere così, ti ho insegnato cose che non sapevi, ho corretto errori che non vedevi. Ti ho fatto sentire un affetto profondo e insieme discreto, che forse non hai riconosciuto pienamente quando eri giovane e incerto. Ti ho dato una testimonianza di rigore e di fermezza che forse non capivi, quando avresti voluto soltanto complicità e protezione. Ho dovuto io stesso, per primo, mettermi alla prova della saggezza del cuore, e vigilare sugli eccessi del sentimento e del risentimento, per portare il peso delle inevitabili incomprensioni e trovare le parole giuste per farmi capire. Adesso – continua il padre -, quando vedo che tu cerchi di essere così con i tuoi figli, e con tutti, mi commuovo. Sono felice di essere tuo padre”. È così ciò che dice un padre saggio, un padre maturo.
Un padre sa bene quanto costa trasmettere questa eredità: quanta vicinanza, quanta dolcezza e quanta fermezza. Però, quale consolazione e quale ricompensa si riceve, quando i figli rendono onore a questa eredità! E’ una gioia che riscatta ogni fatica, che supera ogni incomprensione e guarisce ogni ferita.
La prima necessità, dunque, è proprio questa: che il padre sia presente nella famiglia. Che sia vicino alla moglie, per condividere tutto, gioie e dolori, fatiche e speranze. E che sia vicino ai figli nella loro crescita: quando giocano e quando si impegnano, quando sono spensierati e quando sono angosciati, quando si esprimono e quando sono taciturni, quando osano e quando hanno paura, quando fanno un passo sbagliato e quando ritrovano la strada; padre presente, sempre. Dire presente non è lo stesso che dire controllore! Perché i padri troppo controllori annullano i figli, non li lasciano crescere.
Il Vangelo ci parla dell’esemplarità del Padre che sta nei cieli – il solo, dice Gesù, che può essere chiamato veramente “Padre buono” (cfr Mc 10,18). Tutti conoscono quella straordinaria parabola chiamata del “figlio prodigo”, o meglio del “padre misericordioso”, che si trova nel Vangelo di Luca al capitolo 15 (cfr 15,11-32). Quanta dignità e quanta tenerezza nell’attesa di quel padre che sta sulla porta di casa aspettando che il figlio ritorni! I padri devono essere pazienti. Tante volte non c’è altra cosa da fare che aspettare; pregare e aspettare con pazienza, dolcezza, magnanimità, misericordia.
Un buon padre sa attendere e sa perdonare, dal profondo del cuore. Certo, sa anche correggere con fermezza: non è un padre debole, arrendevole, sentimentale. Il padre che sa correggere senza avvilire è lo stesso che sa proteggere senza risparmiarsi. Una volta ho sentito in una riunione di matrimonio un papà dire: “Io alcune volte devo picchiare un po’ i figli … ma mai in faccia per non avvilirli”. Che bello! Ha senso della dignità. Deve punire, lo fa in modo giusto, e va avanti.
Se dunque c’è qualcuno che può spiegare fino in fondo la preghiera del “Padre nostro”, insegnata da Gesù, questi è proprio chi vive in prima persona la paternità. Senza la grazia che viene dal Padre che sta nei cieli, i padri perdono coraggio, e abbandonano il campo. Ma i figli hanno bisogno di trovare un padre che li aspetta quando ritornano dai loro fallimenti. Faranno di tutto per non ammetterlo, per non darlo a vedere, ma ne hanno bisogno; e il non trovarlo apre in loro ferite difficili da rimarginare.
La Chiesa, nostra madre, è impegnata a sostenere con tutte le sue forze la presenza buona e generosa dei padri nelle famiglie, perché essi sono per le nuove generazioni custodi e mediatori insostituibili della fede nella bontà, della fede nella giustizia e nella protezione di Dio, come san Giuseppe.




La Famiglia - 4. I Figli
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Dopo aver riflettuto sulle figure della madre e del padre, in questa catechesi sulla famiglia vorrei parlare del figlio o, meglio, dei figli. Prendo spunto da una bella immagine di Isaia. Scrive il profeta: «I tuoi figli si sono radunati, vengono a te. I tuoi figli vengono da lontano, le tue figlie sono portate in braccio. Allora guarderai e sarai raggiante, palpiterà e si dilaterà il tuo cuore» (60,4-5a). E’ una splendida immagine, un’immagine della felicità che si realizza nel ricongiungimento tra i genitori e i figli, che camminano insieme verso un futuro di libertà e di pace, dopo un lungo tempo di privazioni e di separazione, quando il popolo ebraico si trovava lontano dalla patria.
In effetti, c’è uno stretto legame fra la speranza di un popolo e l’armonia fra le generazioni. Questo dobbiamo pensarlo bene. C’è un legame stretto fra la speranza di un popolo e l’armonia fra le generazioni. La gioia dei figli fa palpitare i cuori dei genitori e riapre il futuro. I figli sono la gioia della famiglia e della società. Non sono un problema di biologia riproduttiva, né uno dei tanti modi di realizzarsi. E tanto meno sono un possesso dei genitori… No. I figli sono un dono, sono un regalo: capito? I figli sono un dono. Ciascuno è unico e irripetibile; e al tempo stesso inconfondibilmente legato alle sue radici. Essere figlio e figlia, infatti, secondo il disegno di Dio, significa portare in sé la memoria e la speranza di un amore che ha realizzato se stesso proprio accendendo la vita di un altro essere umano, originale e nuovo. E per i genitori ogni figlio è se stesso, è differente, è diverso. Permettetemi un ricordo di famiglia. Io ricordo mia mamma, diceva di noi – eravamo cinque -: “Ma io ho cinque figli”. Quando le chiedevano: ”Qual è il tuo preferito, lei rispondeva: “Io ho cinque figli, come cinque dita. [Mostra le dita della mano] Se mi picchiano questo, mi fa male; se mi picchiano quest’altro, mi fa male. Mi fanno male tutti e cinque. Tutti sono figli miei, ma tutti differenti come le dita di una mano”. E così è la famiglia! I figli sono differenti, ma tutti figli.
Un figlio lo si ama perché è figlio: non perché bello, o perché è così o cosà; no, perché è figlio! Non perché la pensa come me, o incarna i miei desideri. Un figlio è un figlio: una vita generata da noi ma destinata a lui, al suo bene, al bene della famiglia, della società, dell’umanità intera.
Di qui viene anche la profondità dell’esperienza umana dell’essere figlio e figlia, che ci permette di scoprire la dimensione più gratuita dell’amore, che non finisce mai di stupirci. E’ la bellezza di essere amati prima: i figli sono amati prima che arrivino. Quante volte trovo le mamme in piazza che mi fanno vedere la pancia e mi chiedono la benedizione … questi bimbi sono amati prima di venire al mondo. E questa è gratuità, questo è amore; sono amati prima della nascita, come l’amore di Dio che ci ama sempre prima. Sono amati prima di aver fatto qualsiasi cosa per meritarlo, prima di saper parlare o pensare, addirittura prima di venire al mondo! Essere figli è la condizione fondamentale per conoscere l’amore di Dio, che è la fonte ultima di questo autentico miracolo. Nell’anima di ogni figlio, per quanto vulnerabile, Dio pone il sigillo di questo amore, che è alla base della sua dignità personale, una dignità che niente e nessuno potrà distruggere.
Oggi sembra più difficile per i figli immaginare il loro futuro. I padri – lo accennavo nelle precedenti catechesi – hanno forse fatto un passo indietro e i figli sono diventati più incerti nel fare i loro passi avanti. Possiamo imparare il buon rapporto fra le generazioni dal nostro Padre celeste, che lascia libero ciascuno di noi ma non ci lascia mai soli. E se sbagliamo, Lui continua a seguirci con pazienza senza diminuire il suo amore per noi. Il Padre celeste non fa passi indietro nel suo amore per noi, mai! Va sempre avanti e se non può andare avanti ci aspetta, ma non va mai indietro; vuole che i suoi figli siano coraggiosi e facciano i loro passi avanti.
I figli, da parte loro, non devono aver paura dell’impegno di costruire un mondo nuovo: è giusto per loro desiderare che sia migliore di quello che hanno ricevuto! Ma questo va fatto senza arroganza, senza presunzione. Dei figli bisogna saper riconoscere il valore, e ai genitori si deve sempre rendere onore.
Il quarto comandamento chiede ai figli – e tutti lo siamo! – di onorare il padre e la madre (cfr Es 20,12). Questo comandamento viene subito dopo quelli che riguardano Dio stesso. Infatti contiene qualcosa di sacro, qualcosa di divino, qualcosa che sta alla radice di ogni altro genere di rispetto fra gli uomini. E nella formulazione biblica del quarto comandamento si aggiunge: «perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che il Signore tuo Dio ti dà». Il legame virtuoso tra le generazioni è garanzia di futuro, ed è garanzia di una storia davvero umana. Una società di figli che non onorano i genitori è una società senza onore;  quando non si onorano i genitori si perde il proprio onore! È una società destinata a riempirsi di giovani aridi e avidi. Però, anche una società avara di generazione, che non ama circondarsi di figli, che li considera soprattutto una preoccupazione, un peso, un rischio, è una società depressa. Pensiamo a tante società che conosciamo qui in Europa: sono società depresse, perché non vogliono i figli, non hanno i figli,  il livello di nascita non arriva all’uno percento. Perché? Ognuno di noi pensi e risponda. Se una famiglia generosa di figli viene guardata come se fosse un peso, c’è qualcosa che non va! La generazione dei figli dev’essere responsabile, come insegna anche l’Enciclica Humanae vitae del beato Papa Paolo VI, ma avere più figli non può diventare automaticamente una scelta irresponsabile. Non avere figli è una scelta egoistica. La vita ringiovanisce e acquista energie moltiplicandosi: si arricchisce, non si impoverisce! I figli imparano a farsi carico della loro famiglia, maturano nella condivisione dei suoi sacrifici, crescono nell’apprezzamento dei suoi doni. L’esperienza lieta della fraternità anima il rispetto e la cura dei genitori, ai quali è dovuta la nostra riconoscenza. Tanti di voi qui presenti hanno figli e tutti siamo figli. Facciamo una cosa, un minuto di silenzio. Ognuno di noi pensi nel suo cuore ai propri figli – se ne ha -;  pensi in silenzio. E tutti noi pensiamo ai nostri genitori e ringraziamo Dio per il dono della vita. In silenzio, quelli che hanno figli pensino a loro, e tutti pensiamo ai nostri genitori. (Silenzio). Il Signore benedica i nostri genitori e benedica i vostri figli.
Gesù, il Figlio eterno, reso figlio nel tempo, ci aiuti a trovare la strada di una nuova irradiazione di questa esperienza umana così semplice e così grande che è l’essere figli. Nel moltiplicarsi della generazione c’è un mistero di arricchimento della vita di tutti, che viene da Dio stesso. Dobbiamo riscoprirlo, sfidando il pregiudizio; e viverlo, nella fede, in perfetta letizia. E vi dico: quanto è bello quando io passo in mezzo a voi e vedo i papà e le mamme che alzano i loro figli per essere benedetti; questo è un gesto quasi divino. Grazie perché lo fate!




La Famiglia - 5. I Fratelli
Cari fratelli e sorelle, buongiorno.
Nel nostro cammino di catechesi sulla famiglia, dopo aver considerato il ruolo della madre, del padre, dei figli, oggi è la volta deifratelli. “Fratello” e “sorella” sono parole che il cristianesimo ama molto. E, grazie all’esperienza familiare, sono parole che tutte le culture e tutte le epoche comprendono.
Il legame fraterno ha un posto speciale nella storia del popolo di Dio, che riceve la sua rivelazione nel vivo dell’esperienza umana. Il salmista canta la bellezza del legame fraterno: «Ecco, com’è bello e com’è dolce che i fratelli vivano insieme!» (Sal 132,1). E questo è vero, la fratellanza è bella! Gesù Cristo ha portato alla sua pienezza anche questa esperienza umana dell’essere fratelli e sorelle, assumendola nell’amore trinitario e potenziandola così che vada ben oltre i legami di parentela e possa superare ogni muro di estraneità.
Sappiamo che quando il rapporto fraterno si rovina, quando si rovina il rapporto tra fratelli, si apre la strada ad esperienze dolorose di conflitto, di tradimento, di odio. Il racconto biblico di Caino e Abele costituisce l’esempio di questo esito negativo. Dopo l’uccisione di Abele, Dio domanda a Caino: «Dov’è Abele, tuo fratello?» (Gen 4,9a). E’ una domanda che il Signore continua a ripetere in ogni generazione. E purtroppo, in ogni generazione, non cessa di ripetersi anche la drammatica risposta di Caino: «Non lo so. Sono forse io il custode di mio fratello?» (Gen 4,9b). La rottura del legame tra fratelli è una cosa brutta e cattiva per l’umanità. Anche in famiglia, quanti fratelli litigano per piccole cose, o per un’eredità, e poi non si parlano più, non si salutano più. Questo è brutto! La fratellanza è una cosa grande, quando si pensa che tutti i fratelli hanno abitato il grembo della stessa mamma durante nove mesi, vengono dalla carne della mamma! E non si può rompere la fratellanza. Pensiamo un po’: tutti conosciamo famiglie che hanno i fratelli divisi, che hanno litigato; chiediamo al Signore per queste famiglie - forse nella nostra famiglia ci sono alcuni casi - che le aiuti a riunire i fratelli, a ricostituire la famiglia. La fratellanza non si deve rompere e quando si rompe succede quanto è accaduto con Caino e Abele. Quando il Signore domanda a Caino dov’era suo fratello, egli risponde: “Ma, io non so, a me non importa di mio fratello”. Questo è brutto, è una cosa molto, molto dolorosa da sentire. Nelle nostre preghiere sempre preghiamo per i fratelli che si sono divisi.
Il legame di fraternità che si forma in famiglia tra i figli, se avviene in un clima di educazione all’apertura agli altri, è la grande scuola di libertà e di pace. In famiglia, tra fratelli si impara la convivenza umana, come si deve convivere in società. Forse non sempre ne siamo consapevoli, ma è proprio la famiglia che introduce la fraternità nel mondo! A partire da questa prima esperienza di fraternità, nutrita dagli affetti e dall’educazione familiare, lo stile della fraternità si irradia come una promessa sull’intera società e sui rapporti tra i popoli.
La benedizione che Dio, in Gesù Cristo, riversa su questo legame di fraternità lo dilata in un modo inimmaginabile, rendendolo capace di oltrepassare ogni differenza di nazione, di lingua, di cultura e persino di religione.
Pensate che cosa diventa il legame fra gli uomini, anche diversissimi fra loro, quando possono dire di un altro: “Questo è proprio come un fratello, questa è proprio come una sorella per me”! E’ bello questo! La storia ha mostrato a sufficienza, del resto, che anche la libertà e l’uguaglianza, senza la fraternità, possono riempirsi di individualismo e di conformismo, anche di interesse personale.
La fraternità in famiglia risplende in modo speciale quando vediamo la premura, la pazienza, l’affetto di cui vengono circondati il fratellino o la sorellina più deboli, malati, o portatori di handicap. I fratelli e le sorelle che fanno questo sono moltissimi, in tutto il mondo, e forse non apprezziamo abbastanza la loro generosità. E quando i fratelli sono tanti in famiglia - oggi, ho salutato una famiglia, che ha nove figli?: il più grande, o la più grande, aiuta il papà, la mamma, a curare i più piccoli. Ed è bello questo lavoro di aiuto tra i fratelli.
Avere un fratello, una sorella che ti vuole bene è un’esperienza forte, impagabile, insostituibile. Nello stesso modo accade per lafraternità cristiana. I più piccoli, i più deboli, i più poveri debbono intenerirci: hanno “diritto” di prenderci l’anima e il cuore. Sì, essi sono nostri fratelli e come tali dobbiamo amarli e trattarli. Quando questo accade, quando i poveri sono come di casa, la nostra stessa fraternità cristiana riprende vita. I cristiani, infatti, vanno incontro ai poveri e deboli non per obbedire ad un programma ideologico, ma perché la parola e l’esempio del Signore ci dicono che tutti siamo fratelli. Questo è il principio dell’amore di Dio e di ogni giustizia fra gli uomini. Vi suggerisco una cosa: prima di finire, mi mancano poche righe, in silenzio ognuno di noi, pensiamo ai nostri fratelli, alle nostre sorelle, e in silenzio dal cuore preghiamo per loro. Un istante di silenzio.
Ecco, con questa preghiera li abbiamo portati tutti, fratelli e sorelle, con il pensiero, con il cuore, qui in piazza per ricevere la benedizione.
Oggi più che mai è necessario riportare la fraternità al centro della nostra società tecnocratica e burocratica: allora anche la libertà e l’uguaglianza prenderanno la loro giusta intonazione. Perciò, non priviamo a cuor leggero le nostre famiglie, per soggezione o per paura, della bellezza di un’ampia esperienza fraterna di figli e figlie. E non perdiamo la nostra fiducia nell’ampiezza di orizzonte che la fede è capace di trarre da questa esperienza, illuminata dalla benedizione di Dio.



http://w2.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2015/documents/papa-francesco_20150218_udienza-generale.html


La Famiglia - 6. I Nonni (I)
Cari fratelli e sorelle, buongiorno.
La catechesi di oggi e quella di mercoledì prossimo sono dedicate agli anziani, che, nell’ambito della famiglia, sono i nonni, gli zii. Oggi riflettiamo sulla problematica condizione attuale degli anziani, e la prossima volta, cioè il prossimo mercoledì, più in positivo, sulla vocazione contenuta in questa età della vita.
Grazie ai progressi della medicina la vita si è allungata: ma la società non si è “allargata” alla vita! Il numero degli anziani si è moltiplicato, ma le nostre società non si sono organizzate abbastanza per fare posto a loro, con giusto rispetto e concreta considerazione per la loro fragilità e la loro dignità. Finché siamo giovani, siamo indotti a ignorare la vecchiaia, come se fosse una malattia da tenere lontana; quando poi diventiamo anziani, specialmente se siamo poveri, se siamo malati soli, sperimentiamo le lacune di una società programmata sull’efficienza, che conseguentemente ignora gli anziani. E gli anziani sono una ricchezza, non si possono ignorare.
Benedetto XVI, visitando una casa per anziani, usò parole chiare e profetiche, diceva così: «La qualità di una società, vorrei dire di una civiltà, si giudica anche da come gli anziani sono trattati e dal posto loro riservato nel vivere comune» (12 novembre 2012). E’ vero, l’attenzione agli anziani fa la differenza di una civiltà. In una civiltà c’è attenzione all’anziano? C’è posto per l’anziano? Questa civiltà andrà avanti se saprà rispettare la saggezza, la sapienza degli anziani. In una civiltà in cui non c’è posto per gli anziani o sono scartati perché creano problemi, questa società porta con sé il virus della morte.
In Occidente, gli studiosi presentano il secolo attuale come il secolo dell’invecchiamento: i figli diminuiscono, i vecchi aumentano. Questo sbilanciamento ci interpella, anzi, è una grande sfida per la società contemporanea. Eppure una cultura del profitto insiste nel far apparire i vecchi come un peso, una “zavorra”. Non solo non producono, pensa questa cultura, ma sono un onere: insomma, qual è il risultato di pensare così? Vanno scartati. E’ brutto vedere gli anziani scartati, è una cosa brutta, è peccato! Non si osa dirlo apertamente, ma lo si fa! C’è qualcosa di vile in questa assuefazione alla cultura dello scarto. Ma noi siamo abituati a scartare gente. Vogliamo rimuovere la nostra accresciuta paura della debolezza e della vulnerabilità; ma così facendo aumentiamo negli anziani l’angoscia di essere mal sopportati e abbandonati.
Già nel mio ministero a Buenos Aires ho toccato con mano questa realtà con i suoi problemi: «Gli anziani sono abbandonati, e non solo nella precarietà materiale. Sono abbandonati nella egoistica incapacità di accettare i loro limiti che riflettono i nostri limiti, nelle numerose difficoltà che oggi debbono superare per sopravvivere in una civiltà che non permette loro di partecipare, di dire la propria, né di essere referenti secondo il modello consumistico del “soltanto i giovani possono essere utili e possono godere”. Questi anziani dovrebbero invece essere, per tutta la società, la riserva sapienziale del nostro popolo. Gli anziani sono la riserva sapienziale del nostro popolo! Con quanta facilità si mette a dormire la coscienza quando non c’è amore!» (Solo l’amore ci può salvare, Città del Vaticano 2013, p. 83). E così succede. Io ricordo, quando visitavo le case di riposo, parlavo con ognuno e tante volte ho sentito questo: “Come sta lei? E i suoi figli? - Bene, bene - Quanti ne ha? – Tanti. - E vengono a visitarla? - Sì, sì, sempre, sì, vengono. – Quando sono venuti l’ultima volta?”. Ricordo un’anziana che mi diceva: “Mah, per Natale”. Eravamo in agosto! Otto mesi senza essere visitati dai figli, otto mesi abbandonata! Questo si chiama peccato mortale, capito? Una volta da bambino, la nonna ci raccontava una storia di un nonno anziano che nel mangiare si sporcava perché non poteva portare bene il cucchiaio con la minestra alla bocca. E il figlio, ossia il papà della famiglia, aveva deciso di spostarlo dalla tavola comune e ha fatto un tavolino in cucina, dove non si vedeva, perché mangiasse da solo. E così non avrebbe fatto una brutta figura quando venivano gli amici a pranzo o a cena. Pochi giorni dopo, arrivò a casa e trovò il suo figlio più piccolo che giocava con il legno e il martello e i chiodi, faceva qualcosa lì, disse: “Ma cosa fai? – Faccio un tavolo, papà. – Un tavolo, perché? – Per averlo quando tu diventi anziano, così tu puoi mangiare lì”. I bambini hanno più coscienza di noi!
Nella tradizione della Chiesa vi è un bagaglio di sapienza che ha sempre sostenuto una cultura di vicinanza agli anziani, una disposizione all’accompagnamento affettuoso e solidale in questa parte finale della vita. Tale tradizione è radicata nella Sacra Scrittura, come attestano ad esempio queste espressioni del Libro del Siracide: «Non trascurare i discorsi dei vecchi, perché anch’essi hanno imparato dai loro padri; da loro imparerai il discernimento e come rispondere nel momento del bisogno» (Sir 8,9).
La Chiesa non può e non vuole conformarsi ad una mentalità di insofferenza, e tanto meno di indifferenza e di disprezzo, nei confronti della vecchiaia. Dobbiamo risvegliare il senso collettivo di gratitudine, di apprezzamento, di ospitalità, che facciano sentire l’anziano parte viva della sua comunità.
Gli anziani sono uomini e donne, padri e madri che sono stati prima di noi sulla nostra stessa strada, nella nostra stessa casa, nella nostra quotidiana battaglia per una vita degna. Sono uomini e donne dai quali abbiamo ricevuto molto. L’anziano non è un alieno. L’anziano siamo noi: fra poco, fra molto, inevitabilmente comunque, anche se non ci pensiamo. E se noi non impariamo a trattare bene gli anziani, così tratteranno a noi.
Fragili siamo un po’ tutti, i vecchi. Alcuni, però, sono particolarmente deboli, molti sono soli, e segnati dalla malattia. Alcuni dipendono da cure indispensabili e dall’attenzione degli altri. Faremo per questo un passo indietro?, li abbandoneremo al loro destino? Una società senza prossimità, dove la gratuità e l’affetto senza contropartita – anche fra estranei – vanno scomparendo, è una società perversa. La Chiesa, fedele alla Parola di Dio, non può tollerare queste degenerazioni. Una comunità cristiana in cui prossimità e gratuità non fossero più considerate indispensabili, perderebbe con esse la sua anima. Dove non c’è onore per gli anziani, non c’è futuro per i giovani.



INCONTRO DEL PAPA CON GLI ANZIANI
DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Piazza San Pietro
Domenica, 28 settembre 2014

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Vi ringrazio di essere venuti così numerosi! E grazie della festosa accoglienza: oggi è la vostra festa, la nostra festa! Ringrazio Mons. Paglia e tutti quelli che l’hanno preparata. Ringrazio specialmente il Papa Emerito Benedetto XVI per la sua la presenza. Io ho detto tante volte che mi piaceva tanto che lui abitasse qui in Vaticano, perché era come avere il nonno saggio a casa. Grazie!
Ho ascoltato le testimonianze di alcuni di voi, che presentano esperienze comuni a tanti anziani e nonni. Ma una era diversa: quella dei fratelli venuti da Qaraqosh, scappati da una violenta persecuzione. A loro tutti insieme diciamo un “grazie” speciale! E’ molto bello che siate venuti qui oggi: è un dono per la Chiesa. E noi vi offriamo la nostra vicinanza, la nostra preghiera e l’aiuto concreto. La violenza sugli anziani è disumana, come quella sui bambini. Ma Dio non vi abbandona, è con voi! Con il suo aiuto voi siete e continuerete ad essere memoria per il vostro popolo; e anche per noi, per la grande famiglia della Chiesa. Grazie!
Questi fratelli ci testimoniano che anche nelle prove più difficili, gli anziani che hanno fede sono come alberi che continuano a portare frutto. E questo vale anche nelle situazioni più ordinarie, dove però ci possono essere altre tentazioni, e altre forme di discriminazione. Ne abbiamo sentite alcune dalle altre testimonianze.
La vecchiaia, in modo particolare, è un tempo di grazia, nel quale il Signore ci rinnova la sua chiamata: ci chiama a custodire e trasmettere la fede, ci chiama a pregare, specialmente a intercedere; ci chiama ad essere vicino a chi ha bisogno… Gli anziani, i nonni hanno una capacità di capire le situazioni più difficili: una grande capacità! E quando pregano per queste situazioni, la loro preghiera è forte, è potente!
Ai nonni, che hanno ricevuto la benedizione di vedere i figli dei figli (cfr Sal 128,6), è affidato un compito grande: trasmettere l’esperienza della vita, la storia di una famiglia, di una comunità, di un popolo; condividere con semplicità una saggezza, e la stessa fede: l’eredità più preziosa! Beate quelle famiglie cha hanno i nonni vicini! Il nonno è padre due volte e la nonna è madre due volte. In quei Paesi dove la persecuzione religiosa è stata crudele, penso, per esempio, all’Albania, dove mi sono recato domenica scorsa, in quei Paesi sono stati i nonni a portare i bambini a essere battezzati di nascosto, a dare loro la fede. Bravi! Sono stati bravi nella persecuzione e hanno salvato la fede in quei Paesi!
Ma non sempre l’anziano, il nonno, la nonna, ha una famiglia che può accoglierlo. E allora ben vengano le case per gli anziani… purché siano veramente case, e non prigioni! E siano per gli anziani, e non per gli interessi di qualcuno altro! Non ci devono essere istituti dove gli anziani vivono dimenticati, come nascosti, trascurati. Mi sento vicino ai tanti anziani che vivono in questi Istituti, e penso con gratitudine a quanti li vanno a visitare e si prendono cura di loro. Le case per anziani dovrebbero essere dei “polmoni” di umanità in un paese, in un quartiere, in una parrocchia; dovrebbero essere dei “santuari” di umanità dove chi è vecchio e debole viene curato e custodito come un fratello o una sorella maggiore. Fa tanto bene andare a trovare un anziano! Guardate i nostri ragazzi: a volte li vediamo svogliati e tristi; vanno a trovare un anziano, e diventano gioiosi!
Però esiste anche la realtà dell’abbandono degli anziani: quante volte si scartano gli anziani con atteggiamenti di abbandono che sono una vera e propria eutanasia nascosta! E’ l’effetto di quella cultura dello scarto che fa molto male al nostro mondo. Si scartano i bambini, si scartano i giovani, perché non hanno lavoro, e si scartano gli anziani con la pretesa di mantenere un sistema economico “equilibrato”, al centro del quale non vi è la persona umana, ma il denaro. Siamo tutti chiamati a contrastare questa velenosa cultura dello scarto!
Noi cristiani, insieme a tutti gli uomini di buona volontà, siamo chiamati a costruire con pazienza una società diversa, più accogliente, più umana, più inclusiva, che non ha bisogno di scartare chi è debole nel corpo e nella mente, anzi, una società che misura il proprio “passo” proprio su queste persone.
Come cristiani e come cittadini, siamo chiamati a immaginare, con fantasia e sapienza, le strade per affrontare questa sfida. Un popolo che non custodisce i nonni e non li tratta bene è un popolo che non ha futuro! Perché non ha futuro? Perché perde la memoria, e si strappa dalle proprie radici. Ma attenzione: voi avete la responsabilità di tenere vive queste radici in voi stessi! Con la preghiera, la lettura del Vangelo, le opere di misericordia. Così rimaniamo come alberi vivi, che anche nella vecchiaia non smettono di portare frutto. Una delle cose più belle della vita di famiglia, della nostra vita umana di famiglia, è accarezzare un bambino e lasciarsi accarezzare da un nonno e da una nonna. Grazie!


https://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2014/september/documents/papa-francesco_20140928_incontro-anziani.html