Quando i cinquant’anni sono stati raggiunti e superati con la velocità del suono di una sirena arrabbiata, tre sono le possibilità che rimangono all’uomo che non vuole rimanere ad attendere l’impatto indifeso e inconsapevole: farsi l’amante, farsi una macchina rossa, scrivere un blog. Dato che mi state leggendo (davvero? Mi state davvero leggendo?) avete compreso che ho scartato le prime due ipotesi. E per scelta volontaria e creduta, non certo forzata.

Ma che cosa e perché scrivere? Condividere, o l’illusione di farlo, aiuta spesso a sentirsi in compagnia di fronte alla piccole battaglie della vita: quelle grandi, si sa, le si può affrontare solo in compagnia di se stessi, senza nessuno scudiero o cavaliere al proprio fianco.

La prima delle sfide e quella che affettuosamente potremmo definire di san Giuseppe, che di fatto nomino mio speciale e personale protettore confidando sulla sua ironia e bonomia. In che cosa consiste questa sindrome? Nel sentirsi ovviamente il più imperfetto della famiglia dovendone invece apparire la guida salda. Non che con questo voglia affidarmi a una melliflua umiltà fasulla, l’autocompiacimento di sentirsi negare la denigrazione e gustare così una vanitosa ricompensa per la propria maliziosa modestia. Affatto. Lauto compiacimento può derivare solo dalla concretezza. Non che non sia vanitoso, tutt’altro: la vanità è sempre in agguato, come ben sa il diavolo impersonato da Al Pacino nel mondo degli avvocati.
Gli è che essendo proprio vanitoso e anche intelligente, so bene che l’ambizioso deve attingere a piene mani all’umiltà: per crescere, ambizione che può essere anche nobile e saggia, bisogna capire dove migliorare. E per capirlo non c’è che l’umiltà.
L’ambizioso vanesio e superbo farà una brutta e rapida fine.

Quindi qui sto: con una moglie tendente alla perfezione, pur con difetti marginali che provocano in me tanto irritazioni quanto ammirazione per la loro trascurabile banalità; con tre figli che, come recitano brutti film, hanno preso maggiormente da me i difetti, e quindi non posso accusarli di una eredità che ho trasmesso loro; con un lavoro che amo e che ogni mese mi sfida sempre di più, aiutandomi a non fare mai mia la sicurezza.
Di che scrivere dunque?

Della precarietà, della inadeguatezza che mi rende comico a me stesso, specchio delle cose che ho appreso e che rivedo, con squarciante veridicità, nel mio quotidiano.

mercoledì 29 febbraio 2012

Giornata dedicata a Rossella Urru







Aderisco volentieri alla proposta di dedicare questa giornata a Rossella Urru ancora prigioniera, nella speranza che anche questo piccolo contributo possa essere d'aiuto.
E alla pagina di oggi aggiungo le preghiere nostre e di chi vorrà donarne una.
Conto su di voi. Rossella di più.
Grazie
Paolo


martedì 28 febbraio 2012

Le tre tentazioni





Mi hanno sempre intrigato le tre tentazioni con le quali si aprono. l’attività pubblica di Cristo e la Quaresima. Perché intuisci che c’è molto di più di quello che sembra.
Così una svogliata mattina di un febbraio che ha virato dal gelo profondo, aggressivo, assediante, ad una primavera precoce, timida e pur intrigante, maliziosa, che getta avanti un vento morbido e tiepido, per conquistare l’inverno e convincerlo a cedere strada con qualche anticipo, capita che per una serie di circostante vai a Messa in una chiesa foresta, in orario da suore e albeggia tori, un pugno di fedeli che sfida il mattino, e scopri un tesoro.
Perché il celebrante non scivola oltre l’ovvio per ricordare che insomma le tre tentazioni hanno avuto celebre etichettatura da san Giovanni che le ha descritte come concupiscenze: quella della carne (includendo tutto ciò che è sensuale: anche il pane) quella degli occhi (il possesso: i regni della terra) e la superbia (sfida Dio e Ti servirà). No, va oltre e ti apre scenari più limpidi di quelli che fuori il sole inizia a dipingere.
Che le tre tentazioni diventano frasi quotidiane, quella banalità del male che si insinua tra un caffè e un sorriso, e le scopri spalmate in tutta la tua giornata per mostrare la tua fragilità, apparentemente nascosta sotto piccoli sbuffi di irrilevanza. O di ironia. Che anche questa è una grande tentazione: la battuta che graffia, ma irride, che stupisce, e offende.
La prima sta nell’inutilità del gesto: sarebbe lecito al taumaturgo sfamarsi con delle pietre dopo quaranta giorni di digiuno. Che male c’è? Non faccio del male a nessuno! Già: ma che bene c’è? In che cosa questo gesto aumenta il bene del mondo e non alimenta solo ciò che tu consideri personalmente un bene per te?
La seconda sta nella ricerca delle giustificazioni: lo dice anche Dio! Beh, magari non esattamente, magari estrapolando, stiracchiando, interpretando. Cerchiamo di costruirci una verità che ci faccia comodo partendo dalla Verità.
La terza nel tutto e subito: in fin dei conti la missione di Gesù è proprio quella, divenire padrone di tutta la Terra, e invece che faticare di persona per tre anni culminati sulla croce e di duemila anni a seguire, ecco qui il trucco che schiude tutto. Un gesto e tutto e subito. Ecco, quello che spesso vogliamo e accettiamo: per fare il bene, e adesso, siamo pronti a cedere ad un apparente piccolo compromesso, senza accorgerci che è una falla nel disegno,  “la mosca che rovina il lavoro dei profumieri” per dirla con la Scrittura.

lunedì 27 febbraio 2012

Dei tepori e dei frigori






Insomma va bene che in questa domenica di fine febbraio il clima ha messo la testa fuori da quel buco gelido che l’aveva stretto in una morsa; va bene che la primavera sta cercando di sedurre l’inverno mandando avanti qualche profumo di tepore e il sole le tiene bordone accendendo colori che sembrano sinfonie vivaldiane; va bene che i colori stanno scaldandosi e stringendo i pugni buttano fuori i primi sudori; ma adesso dire che faceva caldo…
C’è che in casa nostra si combattono due partiti: quelli del chiudi la finestra che fa freddo e quelli dello spegni il calorifero che fa caldo.
Oggi ho segnato un gran gol. Perché avevo appena cioccato con Franca che, presa dall’entusiasmo, aveva affermato che il vento che soffiava esaltato era caldo (diciamo che non era freddo via), e aveva spalancato qualche finestra al punto che s’era formato riscontro (come dicono a Firenze) alias corrente, come diciamo a Milano, e mi ero preso qualche rimbrotto in cambio, quando è piombata a casa una figlia che, parola per parola, ha ripetuto le medesime parole, neanche ci fossimo messi d’accordo.
E sono soddisfazioni che ti danno i figli.
Intanto si va verso il caldo e quindi la spunteremo noi.
A proposito di temperature, a sentire i (tele/radio)giornali un giorno la temperatura è sotto la media, un giorno sopra: ma lo sapranno come si fa a calcolare una media?

domenica 26 febbraio 2012

Il coraggio di commuoversi








22 gennaio 2009

Ieri ho avuto la fortuna di essere presente alla giornata che il Faes ha dedicato al lancio della campagna di comunicazione del suo progetto scolastico. Non solo, ma ho anche avuto l’occasione di prendere la parola nell’evento serale per illustrare il collegamento tra i messaggi della campagna, magistralmente realizzati da Skeda.com, e la realtà. Il che per uno che combatte quotidianamente con la propria vanità è una tagliente opportunità. E se sono riuscito a mascherare –almeno spero- l’orgoglio per quasi tutta la serata, come sempre non ho ceduto una volta chiusa la porta di casa chiedendo a mia moglie come me l’ero cavata. Qui si vede la saggezza, oltre che l’amore, di una moglie, e della mia in particolare, perché riesce con una irraggiungibile miscela di affetto e ironia, ad accarezzarmi e strigliarmi al tempo stesso. Che è esattamente quello che mi serve per non cadere nell’autocontemplazione. Non ripiegarmi su me stesso, grazie ai pacati e pizzicanti commenti coniugali, mi ha permesso di riscoprire un sentimento che mi ero tenuto dentro per tutta la giornata, nato nell’ascoltare i preziosi relatori della conferenza stampa di mezzogiorno come i ragazzi nel pomeriggio e soprattutto nel vedere il filmato istituzionale
proiettato sul grande schermo: la commozione. Che non bisogna aver vergogna di esplicitare. Sì, mi sono commosso, nel vedere il cuore di tante persone, che commetteranno anche errori, ma per passione. Perché c’è errore ed errore: la differenza non è certo nelle conseguenze, che producono sempre sofferenza di intensità variabile, quanto nella causa. L’errore prodotto dalla buona fede merita misericordia e soprattutto merita una correzione speciale: perché la sua anima è salva, il suo cuore è azzurro.

sabato 25 febbraio 2012

La sfolgorante assenza





Ci sono momenti un cui tutto sembra andare male: sarà la nebbia che spegne ogni colore e cosa, senza negarle, ma diluendole in modo tale da privarle di sostanza. Sarà il freddo che rallenta e punge persino la volontà, sarà che una notizia non brillante piomba su questo scenario grigio e gelido e risalta in modo speciale, ma ci sono giorni in cui mi verrebbe davvero voglia di fare mio quel verso di una splendida canzone di Vecchioni: “papà, lasciamo tutto e andiamo via”. Peccato che, tra l’altro, io sia ormai orfano. E quanto questo mi pesa lo scopro ogni giorno.
Per fortuna però c’è la mia famiglia che sa, con provvidenziale sapienza, rischiarare inconsapevolmente l’attimo che fugge trasformandolo in attimo che resta e che conta. Se c’è un segno che l’adolescenza stia finendo questo è sicuramente nel sorriso: un figlio che sorride, con costanza e soprattutto con  serietà, intendendo con questo che non di ebete sturamento delle labbra trattasi, ma di cosciente volontà di trasmettere serenità, un figlio che sorride così è fuori dal tunnel. E noi con lui.
Ed è così rilassante cenare insieme con volti sorridenti, capaci di raccontare gioie e pene della loro giornata, senza quella veemenza tipica di chi cerca assoluzioni, di chi cerca consensi forzati, ma con la pacatezza di chi sa riflettere sui propri comportamenti ed imparare.
Così sopra la tavola estratti di ginnastica artistica si mescolano con  esperienze di tirocinio, esercizi di zumba, la nuova frontiera del fitness, con racconti di visite ai clienti e di seminari sui serial televisivi. Qualche volta riesco a stare ai margini delle discussioni, frenando la mia figliounicità –caratteristica che mi distingue da ogni altro membro della mia famiglia e che mi viene giustamente rinfacciata ogni volta che il figlio unico che è in me si palesa ad esempio mangiando l’ultimo boccone di una portata senza chiedere nulla agli altri- ed ascoltare. E allora è un flusso di felicità bianca che irrompe a sanare ogni illusione di tristezza. Perché lì c’è la speranza di aver dato un contributo alla gioia solida della propria famiglia.  Non è un silenzio ed una assenza implosa però, sebbene la vanità sia in agguato sempre: no, è più una lieve letizia, la sensazione di avere dato risposta a ciò che ci si attendeva da te, di non avere tradito. E non può durare a lungo, per non stordirti fino a toglierti la ragione. Un lampo di gioia, pura, profonda. E poi si torna nella quotidianità con la figlia che ti sorride, ti mette una mano sulla spalla, cosa che vale molto di più di un abbraccio, e, da laureanda in psicologia, comincia ad applicare a te i suoi studi e ti sciorina una serie di ragioni per cui te ne stai appartato in silenzio ad osservare. Ma questa volta non fa centro.

venerdì 24 febbraio 2012

Lo smacco del problem solver






Noi due in macchina: parliamo del più e del meno. Mi racconta di una conoscente che ha avuto da poco un bambino. Le ha chiesto un consiglio: la pediatra le ha proposto di entrare nella sperimentazione di un vaccino. Lei ha dei dubbi. La mia mente parte: valutare i pro e i contro, testare le possibilità, ricercare i dati. E poi se lo propongono è perché avranno già superato le prove.
Flash back: mesi fa. Torno a casa. La caldaia non funziona. Chiedo: hai provato con il libretto delle istruzioni? Hai chiamato il tecnico?
Flash lateral (si dirà poi): in un ufficio non meglio precisato. “Non so se chiamare adesso il cliente oppure se aspettare che chiami lui”. Risposta “Hai preso in esame le possibilità e le conseguenze”.
La linea allo studio: ma perché noi uomini cerchiamo sempre una soluzione al problema? Davvero siamo convinti che le donne ci raccontano questo perché non sono in grado di risolvere da sole il groviglio? Siamo convinti che senza di noi il mondo non andrebbe avanti? O invece di essere una faccenda di presunzione è solo una risposta automatica, un’eredità genetica che davanti alla esternazione di un problema ci fa diventare dei solutori? Perché, udite udite, non è questo che le donne cercano.
Torniamo in macchina: “io le ho detto: se hai dei dubbi, lascia perdere. Se non sei convinta qualunque cosa succede te la sentirai addosso come un peso”.
Resto a bocca aperta: questa non è una soluzione. No. E’ condivisione, sostegno, vicinanza. E’ questo che cercano le donne. La caldaia?
Tecnico già chiamato. Occasione mancata per dire: “certo un bel peso, e anche questo è ricaduto sulle tue spalle”.
Il cliente? “sono sicuro che troverai il modo migliore per lavorare con lui”.
E invece noi… pronti a calare sul tavolo il molosso della soluzione. Mi sa che dobbiamo farci regolare un po’ il minimo della sensibilità…

Bonus track: anni fa, molti anni fa, ho trovato un circolazione un libello ormai esaurito. Lo zingarello, il piccolo dizionario della lingua italiana… interpretata. Inizio a citare e ad aggiungere: alcune di queste definizioni sono sue, altre mie. E le vostre? Si accettano contributi.
Anello                Te decidi a sposamme?
Guardasigilli   Curioso passatempo
Gravidanza     Ballo propiziatorio della fertilità
Amante           Improvvido fedifrago che si nasconde ancora oggi nell’armadio
Calorifero      Esposizione al caldo che produce una riduzione di peso

giovedì 23 febbraio 2012

Un filo senza fine






Papà, lasciamo tutti e andiamo via, papà, lasciamo tutto e andiamo via” Mi stanno indosso come un maglione caldo queste parole di una delicata canzone di Vecchioni, e tutte le volte che le incontro nei miei pensieri mi assale una commozione umida, una malinconia che ondeggia sul viso prima di calare lieve verso il cuore dove si ferma a lungo, lasciandomene le tracce negli occhi. Non perché io senta il desiderio di dover scappare. Tutt’altro. Poiché fuggire da qui sarebbe la fuga del disertore e non quella del prigioniero, o tanto meno quella dell’eroe, so bene che non posso neppure pensarci. E’ che sento forte questa privazione, questa lontananza, questa assenza.
Sento di aver perso troppe volte l’occasione di stringerlo, di abbracciarlo, come vorrei fare ora con mio figlio, e come me allora, lui oggi sfugge perché non è da uomini, non si fa, non è consentito: tragico inganno che si scioglie solo quando è troppo tardi o quando ti trovi tu dall’altra parte di quell’abbraccio che non si riesce a stringere.
Lo vorrei abbracciare, adesso. Non c’è più. E brucia. E sì che ho avuto il privilegio di tenergli la mano a mio padre mentre moriva, seduto su quella poltrona che ancora conservo, come se guardarla da vicino –non oserei mai sedermici sopra- potesse accorciare una distanza che di fatto già non esiste, dato che ci sovrapponiamo nella dimensione dello spirito. Eppure mi manca. Più di mia madre? Non so, forse sì, se è mai possibile dare una misura ad un taglio netto, a una ferita che ha reciso completamente le radici. Sono io ora la radice, il rizoma che si spinge giù in profondità nel presente. Nulla intorno a me, nessuno più. Solo discendenza. E questo peso, questa responsabilità la sento gravarmi addosso ogni giorno, quando mi soffermo sulla soglia della sera, a pensare, a raccontarmi parole che trovo sempre con maggiore difficoltà ed estro, e che in questa rarefazione si fanno ardenti e spesse.
E sento che questo sentimento lo ho condiviso con lui, me lo disse il giorno del funerale di sua madre, seduto al tavolo mentre aspettavamo che tutto avesse inizio –strana parola inizio per una cerimonia che rende sacra una fine; eppure no, perché effettivamente di un nuovo inizio si tratta. Stava lì a capo chino, mescolava lento il caffè che sua sorella gli aveva offerto, e lo si vedeva che soffriva, con dignità. Alzò di scatto il viso, mi guardò e me lo disse, lui che non era di tante parole, lui che non si era mai confidato con me, lui che ascoltava, he sapeva ascoltarmi, sapeva come volermi bene, sapeva come discernere tra la valanga delle mie parole quelle da trattenere, estranedole non da un tesoro, ma da un mucchio di ciarpame, lui alzò di scatto il viso e mi disse: “Adesso alla base dell’albero ci sono io. Non c’è più nessuno dietro di me”. Poi tacque. Non era triste. Non disperato. Semmai compunto. Ispirava rispetto. Emanava ricchezza. E io l’ho ereditato questo dono e mi chiedo fin dove tracciare la retta che scende nelle pieghe del tempo per trovare un primo, tra i miei avi, che abbia ricevuto questa illuminazione e l’abbia così donata in eredità a tutti i discendenti fino a me (e spero di meritarmi il privilegio di poterla tramandare ai miei figli).
Frugando tra le sue carte ho trovato questa vecchia foto: non credo gli appartenga perché ciò che contiene racconta di un’epoca ancora precedente alla sua. Chissà forse appartiene a mio nonno o a suo nonno: la conservo perché si sovrappone alle parole di quella canzone: un desiderio di partire per fare ritorno, non di abbandonare, ma di riscoprire. Mettere dentro una valigia non per portare via, ma per selezionare, sfoltire, recidere quello che non serve tenere addosso, appiccicato come un indumento sudato.  Me lo immagino questo antenato, a contemplare la valigia sul letto, ad accumulare carte ed indumenti, a sedersi per guardare fuori dalla finestra, prima di decidere che cosa tenere con sé. Perché non sta fuggendo, semmai arriva. Ma è più un tesoro quello che sta esaminando, è una valigia che contiene la sua vita. Chissà forse è appena sceso da un battello, o ha cambiato casa. O si sta esaminando. Ciò che trasmettere è una lucida serietà, la capacità di guardarsi dentro e di valutarsi con ironica misericordia, con il medesimo sguardo che si dovrebbe applicare a tutti, ma che si finisce per conservare solo per se stessi, e per giunta addolcito dalla compiacenza.
E ciò che questo mio bisnonno accumula mi pare come le immagini che ti porti appresso, succhiate qua e la dalla vita quando meno te lo aspetti e solo se sei sempre pronto a deporre i tuoi pensieri per accendere cuore e intelletto. Ho capito ad esempio il senso della paternità ben dopo che sono diventato padre: non perché non ne avessi coscienza, ma perché non ne avevo penetrato l’essenza. Una sera di Gerusalemme –anche questo è un verso di Vecchioni- scendendo attraverso il quartiere ebraico, vidi un bambino gettarsi fuori dalla sua casa per correre incontro ad un uomo gridando “abbà, abbà” e poi abbracciarlo. E lì tutto si è fuso, si è rappreso, e poi si è steso in un nuovo chiarore: tutto ha preso senso e profondità. E ho ripensato a mio padre. 
Dell’infanzia ti rimangono in mente immagini spezzate, vivide ma dai bordi taglienti, imprecisi. Ricordo un gioco che facevamo nella primavera promettente di Milano: ci sedevamo sul balcone della cucina, guardavamo la strada che si intravvedeva tra le costruzioni, e scommettevamo ad indovinare da quale direzione sarebbe arrivata la prossima macchina. Oggi quella stessa strada, se potessi tornare a vederla da quel balcone, penetrando i muri delle case che nel frattempo hanno oscurato la vista, la vedrei intasata da una coda senza fine in ogni direzione ad ogni ora del giorno.
E me ne sto qui ora, in silenzio, a guardare il tramonto, situazione banale da scrittore di seconda fila, eppure così quotidiana da assumere, se la si sbuccia rimuovendo quella patina di consuetudine che la rende sciatta e opaca, un valore acceso. Guardo e ascolto i suoni della città pacati e lievi, come la risacca e , prima di rientrare in casa dai miei, spengo la canzone che ancora Vecchioni mi cantava nella testa

mercoledì 22 febbraio 2012

Overload






Overload. Si chiama così. Tecnicamente. Sovraccarico.
E’ un fenomeno scientificamente dimostrato. Un problema tecnico diremmo.
Un limite di progettazione. Impossibile porvi rimedio.
Al massimo lamentarsi con il designer, con il progettista, con la fabbrica.
Però qualche volta ve ne dimenticate: è un po’ come chiedere ad una Cinquecento di affrontare una salita ghiacciata per giunta senza ruote da neve.
Tecnicamente si definisce mission impossibile.
Perciò evitate di formulare richieste come questa:
“vai a portare la carta igienica nel bagno grande, nel frattempo controlla se il calorifero è acceso e se Michele ha rifatto il letto. Poi mentre torni porta il phone che Laura ha lasciato sul mobile, che non è quello il suo posto. Ah quando poi esci c’è da prendere, insieme al pane, anche il latte e se lo trovi lo yogurt al naturale, senno poi vado io al supermercato. E chiudi la finestra in camera nostra che l’ho lasciata aperta per arieggiare. Poi la spazzatura e la carta: ci puoi pensare tu?”.
Ecco, se va tutto bene siamo già arrivati a darci una risposta alla domanda “quale sarà il bagno grande?” oppure “dove trovo la carta igienica?”.
Il resto è perso.
Per le lamentele rivolgersi al Creatore.

martedì 21 febbraio 2012

La macchina del capo ha un buco nella gomma






Ho bucato. Nel senso che ho squarciato una gomma. Una collega mi ha detto: una roba da donne! Non credo fosse un complimento. Ho accostato per lasciar passare, come si dice, “un veicolo che procedeva in direzione opposta a forte velocità” e ho preso in pieno lo spigolo del marciapiede. Seccata la gomma in un battibaleno. Lo racconti e si scatena una battaglia sulle donne che non sanno parcheggiare. Come diceva Micio (ve lo ricordate? Lo faceva Bisio a mai dire gol) “dai retta a un cretino” tra le tante virtù delle signore, quella del parcheggio scivola sotto l’asse dello zero. E’ roba da uomini. Perché ci vuole arte per parcheggiare, buona visione degli spazi, geometria con il volante, creatività e coraggio con le distanze, e mano agile e morbida. Ora non dico che le donne non abbiano tutte queste qualità.
Gli è che non le hanno contemporaneamente specie quando cercano di parcheggiare. Punto (non inteso come autovettura Fiat si intende).
Per noi l’auto è ben più che un mezzo di trasporto. Come cantava Lauzi (era Lauzi?) “si parlava di donne e motori, si diceva son gioie e dolori”.
Ecco: non parli mica di gioie e dolori se il treno è in ritardo. Magari ti incazzi (quanno ce vò ce cò…) ma non soffri.
Eppoi noi italiani siamo tutti ferraristi mancati. Su questo dovremo riflettere: sulla nostra sportività competitivo-critica. Siamo tutti ferraristi, siamo tutti commissari tecnici, siamo tutti arbitri… vediamo che cosa ne viene fuori.
E dopo l’ironia, concediamoci una riflessione più intima e profonda sul medesimo tema: prendiamo a spunto la foratura. In una frazione di secondo possono cambiare profondamente le cose: per una gomma a terra i programmi di una giornata, ma per ben altro…  Non solo: tardare di un secondo o arrivare un secondo prima a quel bivio avrebbe ugualmente cambiato le cose. L’effetto sliding doors.
Sì, ma capire che la vita può rovesciarsi in un istante per una differenza di un secondo, fa tutta la differenza del mondo: mi aiuta a capire come la vita sia davvero appesa al filo di una volontà che non è mia, che non posso determinare. E questa consapevolezza può condurre a due estremi: da un lato la disperazione più cupa, dall’altro l’orgoglio più arrogante. Preferisco la virtù, che anche in questo caso sta nel mezzo: la speranza.

lunedì 20 febbraio 2012

Dormi e sogna










“Stai dormendo?”
In effetti è una domanda che potrei risparmiarmi quando entro in camera da letto trovando tutto spento e un silenzio notturno, soprattutto se sono le 23 e mia moglie non dà apparenti cenni di vita quando mi avvicino nel corridoio.
Eppure è una domanda legittima se non viene espressa per risolvere un enigma, che non è affatto tale, né per indagare nella vita privata della mia signora, che peraltro condivide con me in buona parte.
No, è più che altro una richiesta di attenzione, una affermazione di stupore (come puoi dormire quando l’Inter ha perso 3-0 in casa con il Bologna, terza sconfitta consecutiva, seconda in casa, un punto nelle ultime 5 partite, 6 se ci mettiamo pure la coppaitalia? Come puoi dormire e non condividere con me questo dolore profondo?).
E invece, neanche fosse il principe di Condé alla vigilia della battaglia di Rocroi, dorme e sogna. No, non russa, le signore non russano mai, ricordatevelo.
E poi si sveglia. Cioè, alla fine l’ho svegliata io con quella intempestiva ed improvvida domanda.
E poi mi parla. Ovvio. E’ sveglia. Colpa mia.
Vorrei leggere. Ma adesso do fastidio. Ha ragione.
Rinuncio.
C’è sempre da imparare. Mai farti travolgere dal calcio. Le donne non capiscono. 

domenica 19 febbraio 2012

Le misure di un uomo

Scrosci di blog: le grandi repliche





Settantasette e novanta.
Chilogrammi i primi, i secondo centimetri: peso e girovita.
Per dare feedback bisogna fare benchmark: segnatevi dunque
otto, ottantotto, centootto.
Vale a dire otto mesi fa pesavo ottantotto chili e il mio addome misurava centootto centimetri. Ma non vi voglio parlare di un calo di undici chili  e diciotto centimetri. Che fai presto a dire che va tutto bene. Vogliamo parlare dei vestiti che adesso mi fanno sembrare un adolescente con le fregole e i pantaloni di cavallo basso? O la cintura che, unica salvezza, ha dovuto farsi sforacchiare due o tre volte per non doverci fare il nodo? O la scommessa persa, che 77 chili l’ultima volta li pesavo che non avevo ancora diciotto anni? (nota: mentre scrivo, altri sei mesi dopo questo post, i chili sono diventati 73 e i centimetri settantacinque, la taglia 50)

Voglio parlare di mia moglie e della forza del matrimonio. Perché è come un turbine che accarezza la vita e le fa voltare lo sguardo. Andò così. All’approssimarsi del quarantanovesimo compleanno (segnatevi la data: 11 agosto, leone, il prossimo -2010- come sapete fanno cinquanta), rammollito in un senso di stanco compiacimento, o meglio di compiaciuta stanchezza, impigrito su una sedia a sfogliare sotto il sole fresco di montagna un non meglio precisato romanzo, fu colto da una improvvisa uggia, come pioggia acida, che colasse giù ruspante e irritata da nuvole brevi e sorprese, alzai lo sguardo dalle pagine, per sentirmi come un animo tormentato, per superbia si intende e voglia di stupire, quasi come posseduto dal giovane  Werther, ed esclamai: “mi sento invecchiare”. Così, per farmi coccolare, non perché lo pensassi realmente, non perché soprattutto potessi lamentarmene. Gli uomini sono così: ad un tratto scoprono un anima dolce, quando è ferita, e senza preavviso, si lasciano controllare da una malinconia tenue, come la luce che si spegne al tramonto su mare, per un improvviso bisogno, fisico, di carezze.
Ma quali carezze! deve aver pensato la mia saggia signora, qui ci vuole uno schiaffone di quelli che, come dicevano le madri di un tempo, ti stampa le cinque dite sulla guancia e ti fa girare per tre giorni la faccia. Per pudore, mio si intende – non suo, taccio le parole dette: cadere nudo in un prato di ortiche sarebbe stato meno pungente. Ma la signora conosce i suoi polli. E sa che per ottenere quello che a me serve, non è con la strategia moncherie ma con quella fullmetaljacket che bisogna agire.

E così, provocato sul lato della sfida, è iniziata la lotta con pancia, fianchi e fiato, che in meno di otto mesi mi ha condotto a questo risultato, neanche il mio peso fosse il Nasdaq dell’inverno 2008-2009. Precipitato!



Ora che senso ha tutto questo? Prendete nota:

1)            a che cosa serve il matrimonio se non ad aiutarsi, nelle piccole come nelle gradi sfide della vita?
2)            Anche gli uomini possono migliorare: se c’è una donna che si fida di loro e li sa indirizzare,
3)            amarsi significa conoscersi al punto da parlare con le parole dell’altro,
4)            la vita, insieme, la si può affrontare a testa alta, sempre, comunque, con il sole in fronte, ma se si è da soli, tutto sembra grigio e depresso
5)            conoscete mica un sarto che possa darmi una mano con gli abiti?

sabato 18 febbraio 2012

La figliola sportiva








Rientra dallo stadio mia figlia, Inter-Lazio 2-1.
Contenta. Infreddolita.
Io la partita l’ho vista su Sky. Adesso è il momento delle interviste e dei commenti.
Mi dice: “fanno rivedere i gol?”
“Certo”
“Bene, perché me li sono persi tutti. Sai, chiacchieravamo…”.
Ora, ecco la differenza. Che quando un uomo guarda una partita, specie allo stadio, è come due delle tre scimmiette: non sente e non parla. Vede solo: la palla. La segue ovunque, si perde magari anche lo schema, lo scatto; si perde il figlio che chiama; non fa pipì fino all’intervallo. E’ pronto ad uccidere il ragazzino (una volta, oggi più probabilmente l’extracomunitario) che grida “ramazzotti, succo d’arancia” se non gli scivola via dal campo visivo entro un millisecondo.
Come fai a perderti i gol perché stai chiacchierando?
Dovrebbero vietare gli stadi alle donne…

giovedì 16 febbraio 2012

Madre


Il racconto del giovedì
Madre






Madre, oh madre. Mi è vietato dimenticarmi di te. Ogni volta che passo davanti all’ospizio dove sei morta, mi assale un brivido che riesce a mescolare senso di colpa e di liberazione, come se queste due dimensioni non potessero essere disgiunte neppure ora che non sei più qui e che ti immagino in una pace senza fine, la pace che hai inseguito sempre, travolgendo tutto e tutti in questa tua ricerca astiosa e irrequieta.
Anche me.
E questa ansia, la tua inquietudine, me l’hai lasciata come un dono, come una eredità scomoda, ma saggia. Di quelle che ti tengono desta l’anima, in un combattimento senza fine. Perché la pace può essere figlia di due opposti: della stupida e dannata pacificazione, come una pianura secca e deserta, sotto un cielo dilavato e piallato, senza vento; oppure di una guerra senza fine, combattuta contro noi stessi, senza tregua e senza prigionieri, senza notti in cui riposare, senza cieli da contemplare, piena di vento, quello freddo, tagliente, che scende da Nord e non si arresta se non alla giuntura tra anima e carne, e forse neppure lì, quella guerra che lascia senza fiato, eppure felici come l’eroe che dà la vita per ciò in cui crede.
Dicono che coloro ai quali viene amputato un arto, chessò una gamba, per anni continuano a sentirlo ancora come se fosse ancora lì, appeso a loro. Ecco, con te io provo la medesima cosa. Sei sempre qui, aggrappata a me come lo eri in vita. Il tuo amore rabbioso e violento mi soffocava: lo caricavi di tutte quelle risposte che non avevi avuto dalla vita, non perché lei non te le avesse date, ma perché non ne eri mai contenta. Eri tesa sì, ma non serena: sostenevi di avere un conto aperto con la vita, e lo facevi pagare a tutti coloro che provavano ad amarti, come se per contrappasso quell’amore dovesse torcersi in vendetta.
E’ strano, anche se la tua morte, da sola –mi hai preso per sfinimento e questo io non me lo so perdonare, di averti lasciato morire da sola, in coma d’accordo, ma senza nessuno che ti tenesse la mano, nemmeno io, e questo mi ripugna, per pietà e per orgoglio: non poter dire che io c’ero, che sana umiliazione, vedi in fin dei conti mi hai amato anche morendo di notte per lasciarmi questa amarezza dolce che sana e sradica i miei vizi- in quella stanza singola che finalmente avevi ottenuto, come ennesimo capriccio, come se stesse lì tutto il bene dell’universo, anche se la tua morte ha sedato il mio risentimento, e spalancato la porta ad un amore che sapevo di avere per te, ma non di questa intensità, non ha sopito i ricordi oscuri, né li ha ammantati di quella dolcezza che sembra l’assenza regali ad ogni memoria. Tutt’altro. Li ha resi più vivi, lucidi, taglienti, anche se li ha privati di quel veleno che, quand’eri in vita, mi annebbiava la vista e mi soffocava il cuore spingendolo giù in un fango d’odio e di dipendenza nel quale mi sembrava di sprofondare come in sabbie mobili maligne.
E così la prima immagine che vedo non è il sorriso con il quale mi accoglievi da bambino, non ancora così tirato e sciapo come da vecchia, né l’abbraccio con il quale mi ringraziavi di esserci. Non è quello sguardo acceso d’amore che luccica ancora in una vecchia foto in bianco e nero. Sei sullo sfondo, di sbieco, chinata, tieni quegli occhi luminosi, come non ho mai più visto, su di me che poco più avanti, ma a fuoco, in primo piano, muovo i primi passi e si vede che traballo, con quella bavaglina di stoffa colorata che ricordo benissimo, per uno di quegli strani giochi della memoria che si divertono a estrarre dalla nebbia particolari che ti dicono quello che non riesci più a ricordare. Stai lì e mi guardi e la gioia sembra colorare questa foto con i bordi bianchi frastagliati; e io non ti vedo, ma so che ci sei, che sei pronta a sorreggermi. Mi fido. C’è tutta la nostra vita lì. Anche papà, lontanissimo, nell’oscurità del corridoio, lui che se ne è andato per primo e che ti ha aspettato con la medesima delicatezza celata con la quale ti lasciava in primo piano, in piena luce, per scegliere sempre le tinte pastello, gli spigoli dei minuti, le macchie d’ombra. Sono sempre convinto che ti avesse dato uno schiaffo alla tuo ennesimo capriccio, avesse avuto il coraggio, la vita di tutti sarebbe stata diversa. Presumo migliore.
No. Non è quel viso, quella luce che ricordo quando chiudo gli occhi e ti penso.
Ma la brace della tua sigaretta che cerca di contrastare l’oscurità nella quale ti chiudevi. La luce rossa intermittente di quando mi portavi a dormire con te di pomeriggio, da bambino, in due sul mio letto, testa a piedi, perché io dormendo non ti disturbassi il riposo. E vedo quella luce accendersi e spegnersi alternata al rumore che facevi per scrollare la cenere nel posacenere di rame sbalzato che ora fa mostra di sé, come un reliquiario, tra gli oggetti che ho conservato. E la stessa luce, nella cucina scura, tenevi sempre le tapparelle abbassate, mentre severa mi giudichi –mi giudicavi sempre trovandomi sempre colpevole per potermi donare la tua misericordia, cosa che ti faceva felice perché ti permetteva di crederti magnanima- e stai in silenzio, fumando, toccandoti i capelli, torcendo la bocca e gli occhi curvando al suolo, sospendendo il tempo, così da prolungare la mia sofferenza e la tua soddisfazione.
Eppure mi amavi, tanto. E volevi tenermi per te. Solo per te. E anch’io ti amavo, ti amo anche ora. Come potrei non amare chi mi ha dato la vita. E che, tragicamente, per conservarmela felice, ha spento dentro di sé quella di due fratelli che non ho mai avuto. Così come spegnevi la sigaretta, con rabbia e rapidità. Sono un sopravvissuto, mamma. Un figlio unicizzato. Un bambino bagnato nel sangue dei fratelli ed elevato a divinità, con il compito di tenere insieme la famiglia perché tutto si fa per lui. Tutto. Come un buco nero che attragga ogni cosa a sé, strappandola alla sua esistenza, macinandola in un affetto che si macera nell’autocompiacimento. Perché l’amore per me, me ne sono accorto presto, in realtà era un pretesto, uno specchio: avevi così tanto bisogno di affetto che mi imprigionavi in quell’abbraccio che assomigliava di più alla presa di un rapitore che alla protezione di una madre.
Mamma, questo acido mi cola ancora in cuore adesso che ti parlo, qui in piedi davanti a quel che rimane di te qui in mezzo a noi, e non riesco a discernere il bene dal dolore, a tirare una riga secca tra il tuo egoismo e il mio, tra la tua sofferenza e quella che provocavi con una scienza quasi perfetta.
Perché soffrire hai sofferto, e spesso per causa di altri, anche se negli ultimi anni i tuoi ricordi spesso venivano annacquati dalla fantasia, da ciò che temevi, volevi, speravi. E la violenza subita si confondeva con quella che desideravi aver ricevuto per poterti vendicare e vantare. Ricordo gli ultimi giorni. Di agosto, sulla terrazza abbruciata della casa protetta. Biascicavi parole, parlavi a sproposito, criticavi, mi chiedevi, pretendevi. Niente di diverso. Eppure dovevo capire che erano le ultime ore e restarne appeso come ad un ramo che ti salva dall’abisso. E invece l’ho lasciato andare e invece di precipitare io, sono rimasto sospeso e nella voragine sei caduta tu.
E mamma, mentre non riesco a rimuovere quella rigatura d’odio che attraversa la nostra vita in comune -sapessi quanto ci hai fatto soffrire, madre mia- adesso non posso che sentir crescere l’affetto nuovo, purificato, rafforzato che nasce da una vicinanza nuova, separata solo dal sottile velo del cielo.

mercoledì 15 febbraio 2012

Sesso e calcio

lampi di blog: le repliche




“E poi quando te la metti?”
Questa frase rivolta da una moglie al marito e avente per oggetto una maglia dell’Inter che il poveruomo cercava di comperare, dimostra la profondità dell’incomprensione tra i sessi e la ancora più profonda frattura che tiene separati due mondi.
Tutto questo affermato, nel caso fosse complesso comprenderlo, all’interno del tono umoristico e autoironico che caratterizza queste righe.
Perché diciamolo: che cosa cerca un uomo in una maglia? Perché comperare un capo d’abbigliamento onestamente inutilizzabile, se non nelle sere calcistiche a bordo divano con altri tifosi come lui agghindati?
Una maglia è appartenenza, è dimostrazione laica di una fede sportiva che sta dentro radicata (impossibile cambiare la squadra del cuore una volta raggiunta la coscienza di sé stessi: mio nonno paterno, milanista come mio padre, mi prendeva in giro mostrando delle mie fotografie a due anni nelle quali indossavo i colori rossoneri.
Ribattevo facendogli notare che nelle foto dell’anno seguente, alla soglia della capacità di intende e volere, già vestivo il nerazzurro). L’appartenenza ai colori è sicurezza, è sguardo al futuro quanto alla tradizione, è sentirsi parte di un tutto che trascina con sé gioie e sofferenze, come la vita. Indossare una maglia è tutto questo: val più il nome Milito o Zanetti (personalmente sceglierei la seconda) che la firma Ferragamo o Blahnick su un capo che non dice nulla se non l’effimera transitorietà che lo contraddistingue. Perché una maglia non passa di moda, neppure quando il nome è da cambiare: perché c’è stato un momento in cui Ronaldo è stato il simbolo di quei colori. Non è più oggetto da saldo di fine stagione o capo dismesso. E’ storia.
Le donne invece sono pragmatiche: che te ne fai? Quest’anno è già finito e magari il prossimo sarà un disastro (facciamo le corna e tocchiamo ferro. Ho detto ferro…) e poi quando mai la puoi mettere? Mica alla serata della scuola. O all’uscita con gli amici. Al massimo quando da solo guardi le partite. E allora spendere questi soldi per una maglia che non si può sfoggiare… che serve?
Credo che le donne siano non solo più pragmatiche ma anche più individualiste, nella loro consorteria solidale. Noi saremo anche competitivi, ma lo spirito di squadra dentro ci rugge. E con esso quello dell’appartenenza ai colori. Mah. Che ne dite? 

martedì 14 febbraio 2012

L'amico del cinema






Ascolto per radio Voi siete qui, ne ho già raccontato, quella bella trasmissione di Radio24 condotta da Matteo Caccia.
Il tema del giorno è la rabbia, non tra i più divertenti. Ma all’improvviso il conduttore butta lì una frase, che mi cambia la giornata.
Dice: gli amici veri sono quelli che testi al cinema, se ami gli stessi film e ci vai volentieri.
Quadro: scompare la collina veronese sulla quale si slancia la A4 e mi trovo davanti al cinema Aurora di via Paolo Sarpi prima metà degli anni 70, quando l’Aurora era cinema di seconda visione e non brillavano luci rosse alle porte, e Paolosarpi (tutto attaccato) era un salotto buono e non la Chinatown odierna.
Sono lì nonostante quel giorno avessi deciso di studiare, per preparare un compito in classe. Erano gli anni del ginnasio e delle declinazioni di grecoelatino (anche questo tutto attaccato).
 Sono lì perché un amico carissimo, anzi l’amico, quello che ammiri e che invidi, in quel modo sano e che rafforza, mi aveva telefonato dicendo poche parole “ho piantato la Paola, andiamo al cinema tu ed io”. Neanche una domanda, forse, un ordine.
E un amico obbedisce. Anche se alla Paola ci morivo dietro anche io, e non mi filava neanche di striscio come si dice. Anche se al cinema ci sarei andato più volentieri con la Paola che potevo telefonarle e dirle: so che quel pirla ti ha piantato, ci sono io.
E così abbiamo visto Rollerball, quello originale, con James Caan. E Albinoni.
E prima di Natale (2011 ovvio) con il medesimo amico abbiamo pranzato insieme. Che il cinema va bene finché sei sbarbino, poi la prova del nove è la trattoria.

domenica 12 febbraio 2012

Il cafone in ascensore





Mia moglie sta caricando in ascensore tre borsoni della spesa. Sopraggiunge vicino recante panettone, la guarda perplesso e afferma: "ho fretta". Quindi prende l'ascensore e la lascia lì.
Questo è quello che a Milano definiamo "un pirla".
Ma proprio grande. E pure cafone.
O no?
Ora gli scalini da fare non erano più di 60 (li ho contati di persona).
Ma accertata la grossolanità del suddetto ominicchio, ciò che colpisce è la diffusa incapacità di cogliere il senso di ciò che si fa.
Mi piace, esagerando lo so, elevare questa scenetta a icona di un certo modo di fare: che mettiamo noi al centro, e quindi sempre davanti.
E poi è dura farsi da parte quando il gioco si fa duro.
Diceva un santo sacerdote che le battaglie dello spirito si vincono nelle piccole cose, e anche quelle della convivenza non fanno differenza: che è impossibile vincere alle Olimpiadi senza essersi allenati tutti i giorni, e se si continua a fregare l’ascensore alle signore perché c’abbiamo fretta, si finisce poi a cadere nelle scialuppe della nave che affonda, gettata la divisa per non essere riconosciuti, spaventati dal buio (ma non dalle proprie responsabilità).