Quando i cinquant’anni sono stati raggiunti e superati con la velocità del suono di una sirena arrabbiata, tre sono le possibilità che rimangono all’uomo che non vuole rimanere ad attendere l’impatto indifeso e inconsapevole: farsi l’amante, farsi una macchina rossa, scrivere un blog. Dato che mi state leggendo (davvero? Mi state davvero leggendo?) avete compreso che ho scartato le prime due ipotesi. E per scelta volontaria e creduta, non certo forzata.

Ma che cosa e perché scrivere? Condividere, o l’illusione di farlo, aiuta spesso a sentirsi in compagnia di fronte alla piccole battaglie della vita: quelle grandi, si sa, le si può affrontare solo in compagnia di se stessi, senza nessuno scudiero o cavaliere al proprio fianco.

La prima delle sfide e quella che affettuosamente potremmo definire di san Giuseppe, che di fatto nomino mio speciale e personale protettore confidando sulla sua ironia e bonomia. In che cosa consiste questa sindrome? Nel sentirsi ovviamente il più imperfetto della famiglia dovendone invece apparire la guida salda. Non che con questo voglia affidarmi a una melliflua umiltà fasulla, l’autocompiacimento di sentirsi negare la denigrazione e gustare così una vanitosa ricompensa per la propria maliziosa modestia. Affatto. Lauto compiacimento può derivare solo dalla concretezza. Non che non sia vanitoso, tutt’altro: la vanità è sempre in agguato, come ben sa il diavolo impersonato da Al Pacino nel mondo degli avvocati.
Gli è che essendo proprio vanitoso e anche intelligente, so bene che l’ambizioso deve attingere a piene mani all’umiltà: per crescere, ambizione che può essere anche nobile e saggia, bisogna capire dove migliorare. E per capirlo non c’è che l’umiltà.
L’ambizioso vanesio e superbo farà una brutta e rapida fine.

Quindi qui sto: con una moglie tendente alla perfezione, pur con difetti marginali che provocano in me tanto irritazioni quanto ammirazione per la loro trascurabile banalità; con tre figli che, come recitano brutti film, hanno preso maggiormente da me i difetti, e quindi non posso accusarli di una eredità che ho trasmesso loro; con un lavoro che amo e che ogni mese mi sfida sempre di più, aiutandomi a non fare mai mia la sicurezza.
Di che scrivere dunque?

Della precarietà, della inadeguatezza che mi rende comico a me stesso, specchio delle cose che ho appreso e che rivedo, con squarciante veridicità, nel mio quotidiano.

lunedì 27 aprile 2015

L’amore senza inganno




apparso su LaCroce Quotidiano del 21 e 22 aprile 2015

C’entra sempre l’amore, è tutto qui. C’entra l’amore come strada per vincere la morte. Ma di quale amore parliamo?
No, non è che ho sbagliato e ho copia-incollato l’inizio dell’articolo della scorsa settimana. È che ci ho pensato a lungo, grazie anche ai commenti che mi sono arrivati da amici e meno amici.
E da (dis-) e –avventure varie capitate in rete, sui social media in questi giorni.
Tutto ruota intorno a questo, intorno alla comprensione di che cosa sia l’amore e che cosa comporti. E di come si faccia ad amare, innanzitutto se stessi. Questo però non deve essere il centro, ma il motore. E la cosa è molto diversa: ama il prossimo tuo COME te stesso e non, come mi ha fatto notare una cara amica per mostrarmi dove si è arrivati oggi, ama il prossimo tuo DOPO te stesso.  Un DOPO che non arriva mai, di solito.
Perché è sempre dall’amore che nascono i falsi miti, i quali, anche quando non sono manipolati da persone senza scrupoli che distruggono coscienze e vite per i loro interessi economici, politici e di potere -sempre ideologici comunque- sono lo specchio più o meno inconsapevole di un egoismo profondo che cerca l’amore che non conosce.
Perché senza amore non si vive.
Everybody need somebody to love…. E soprattutto di essere amato da qualcuno.
Dicevo già la scorsa settimana che chiunque, anche nella più profonda perversione egoistica, ha il desiderio profondo di essere dalla parte della ragione: nessuno vuole sbagliare, nel senso di fare male o addirittura di fare IL male.
Per questo si vogliono elevare i capricci a possibilità, libera scelta, addirittura unico bene. Perché anche se la società consente ogni esercizio della propria libertà, se questo non viene “amato” cioè riconosciuto appunto come un bene, inquina il cuore. Noi cerchiamo approvazione. Non vogliamo essere esclusi.
Il coniuge traditore ricerca giustificazioni, anzi di più: non gli/le basta la comprensione, che è sempre comunque illuminata dalla pietà, vuole l’approvazione che esalta invece di compatire. “Hai fatto bene, era la cosa migliore da fare” vuol sentirsi dire per affogare i sensi di colpa che invece stanno sempre alla superficie.
Lo studente che bulleggia il compagno vuole l’approvazione, derubrica –complice la famiglia- a scherzo la violenza, perché la satira è sempre ammessa: siamo tutti charlie, vero?
I violenti volgari bolognesi che mettono in scena una blasfema parodia, non si scusano: hanno agito bene loro,  hanno reagito all’inquinamento della Chiesa, quindi semmai la colpa è di quest’ultima, non loro.

Leggo sui social “se Dio esiste e ha creato tanti gay significa che sono sue creature naturali e che devono fare l'amore come due etero”.
Questa frase contiene un numero impressionate di errori, a partire dal fatto che nell’originale Dio era scritto con la minuscola. Confonde la creazione con la libertà dell’uomo, la natura con i comportamenti. Potremmo argomentare allora così: “se Dio esiste e ha creato tanti assassini, significa che sono sue creature naturali e che possono sparare a chi vogliono”.
O peggio così “se Dio esiste, e ha creato tanti carnivori, significa che sono sue creature naturali e che devono mangiare come vogliono”.
O ancora: “se Dio esiste, e ha creato tanti cacciatori, significa che sono sue creature naturali, e che devono ammazzare tutti gli animali, di qualunque specie, come piace a loro”.
Non mi interessa proseguire su questa linea ma sottolineare il senso che ci leggo dentro, tra le righe: il bisogno di sentirsi naturali, di sentirsi amati, di sentirsi approvati.
Ora l’amore, chi crede in Cristo, non lo negherà mai nessuno a nessuno. Non dico che sia facile, non dico che sia alla portata di tutti, ma per lo meno una cosa noi che ci riteniamo credenti abbiamo chiaro in modo inequivocabile: saremo giudicati sull’amore, e ogni mancanza d’amore verso chiunque -verso ogni peccatore quindi, perché tutti lo siamo- ci verrà addebitata come responsabilità grave.
Saremo giudicati secondo come giudicheremo.
Per cui se non sappiamo amare anche la peggiore persona al mondo, chi ci ha fatto più male, ce ne verrà chiesto conto. Mica facile, ma è così.
Nel mentre però ci viene chiesto, proprio perché non siamo noi a dover giudicare, di non manipolare neppure il… codice giuridico, che è stato stabilito da Dio.  Non possiamo fare leggi a nostro uso e consumo.

Dobbiamo fare la verità nella carità.

Che cosa ha a che fare tutto questo con i falsi miti di progresso?

Per spiegarlo metto sul tavolo un ulteriore elemento: la misericordia e l’anno santo che le è intitolato che inizierà a dicembre.
Sì, un anno santo che è Grazia, perché abbiamo tutti bisogno di una misericordia infinita, e il compito di noi credenti, in questo ospedale da campo, oggi, qui, adesso, ad ogni persona che incontriamo, sta proprio nel ricordare questo, che Dio ama il peccatore.
Non quindi “ricordati che devi morire” o “pentiti e credi al Vangelo”, ma oggi è il tempo di “Dio ti ama e ti perdona ogni cosa”.
E qui casca l’asino; e qui si fa difficile per noi. Perché Gesù ci ricorda che c’è un solo peccato che non verrà mai perdonato: "Qualunque peccato o bestemmia verrà perdonata agli uomini, ma la bestemmia contro lo Spirito non verrà perdonata" (Matteo 12,31). Sarà mica proprio quell’atteggiamento che fa pensare all’uomo di non avere colpa alcuna? Di non avere bisogno di Dio? Di potersi dare il perdono da sé? Di non essere bisognoso di misericordia perché non esiste l’oggetto necessario? Di voler essere amato da Dio come giusto? Un po’ come quei giudei –che avevano creduto in Lui!- che si ritenevano liberi per definizione, per eredità: «Noi siamo discendenti di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno. Come puoi dire: “Diventerete liberi”?» (Giovanni 8,33).
Ecco il falso mito: voglio che tu mi ami perché io sono quello buono, non ho colpa, la colpa –hai un demonio!- ce l’hai tu che insisti nel dire che sbaglio.
E qui si svela un altro effetto collaterale devastante dei falsi miti: si può amare solo il giusto; chi sbaglia non va amato, va disprezzato, va distrutto.
Fateci caso: le categorie che vengono sostenute dai profeti dei falsi miti sono tutte idealizzate, non c’è macchia in loro. Non riescono ad affermare che al loro interno ci sono ladri ed assassini, colpevoli e approfittatori. Non possono! Perché vorrebbe dire ritornare al piano della responsabilità individuale e del confronto con la verità. E questo distruggerebbe il falso mito.
Questi profeti di una falsa libertà possono amare solo i perfetti, i puri, chi è nel peccato è da togliere dalla faccia della terra. Sono figli dei farisei dei tempi di Cristo: “Sei nato tutto nei peccati e vuoi insegnare a noi?” E lo cacciarono fuori (Giovanni 9,34).
Non capiscono come si possa distinguere l’errore dall’errante, proprio perché non sanno amare: non riescono ad ammettere che ci siano persone che amano la persona anche se detestano il suo errore.
Esula dai loro schemi, dalle loro categorie di ragionamento.
Come si fa a condurre alla misericordia chi, sulla branda dell’ospedale da campo, rifiuta il medico perché pretende di non avere ferite?
Mi faccio aiutare a cercare il bandolo da un inaspettato suggeritore, Roberto Vecchioni, che alle sue canzoni ha affidato una saggezza più profonda di quanto non possa sembrare al primo ascolto.
Tre sono le canzoni che prendo a prestito per gettare luce sulla vicenda, sempre che poi io riesca a cogliere il riflesso –ma qui cado in piedi perché conto sull’aiuto dei lettori!- e tirare fuori un piano d’azione utile.

La prima è L’estraneo (infiniti ritorni) che disvela come divellere questa resistenza ideologica: in una sera di Gerusalemme il primo incontro con Dio produce fastidio, irritazione:

“Ho visto un Dio che mi veniva incontro
e ho provato tutto per scappare,
ma lui insisteva: "Dài, fatti salvare,
ho tanto amore, amore, amore...". 

Dio insiste, con tale coraggio da sembrare folle in questa volontà di salvare tutti:

“E in un cortile di Gerusalemme
che aveva scelto lui da chissà quanto
mi abbracciò e baciò e stava delirando,
e aver capito tutto in un istante
fu come morir le morti tutte quante
e non volere essere più niente, niente, niente...” .

E’ la morte che dà senso alla vita, come dicevamo tempo fa.  Ma il processo di conversione, di abbandono dell’io, non è lineare, non è semplice. Si torna indietro perché lasciare la zavorra dei propri piaceri è difficile, è come un elastico fissato alla schiena:  ti lascia crede di esserti liberato dalla gabbia e poi ti tira di nuovo a sé con un abbraccio ancora più violento.
Così incontri di nuovo Dio in treno e di nuovo lui vuole aiutarti, e parte dalla realtà a raccontarti il mondo, ma tu non ci stai, vuoi vivere la vita come ti pare:

“Lasciami
questo sogno disperato
di esser uomo,
lasciami
quest'orgoglio smisurato
di esser solo un uomo:
perdonami, Signore,
ma io scendo qua,
alla stazione di Zima. 

Con te, Signore
è tutto così grande,
così spaventosamente grande,
che non è mio, non fa per me” 

Questo è il punto chiave: la misericordia si effonde su tutti, ma resta solo su coloro che la accolgono. E per accoglierla bisogna sentirsi peccatori, o anche solo desiderosi di una vita “spaventosamente grande”. Finché te ne vuoi stare chiuso dentro alla tua piccolezza –o meschinità?- finché resti alla stazione di Zima, il perdono non potrà abbracciarti, perché Dio non può salvarti senza di te, senza il tuo consenso.
Questo è il mondo di oggi. Il mondo che rifiuta Dio perché non vuole sentirsi per nulla in colpa, il mondo in cui nessuno vuole essere colpevole e quindi abroga la legge e distorce la natura.
E come fai a dialogare con gente così? Come è possibile un dialogo con chi ha già deciso che tu sbagli perché hai una verità, perché la verità non esiste, anzi tutti ne hanno una, tutti sono charlie, tutti tranne tu che ritieni di avere una verità vera, perché allora dai fastidio, allora sei intollerante? Vale la pena dialogare con questa gente? O non è un dare loro un palcoscenico per confondere i semplici? Stiamo aiutando il demonio illudendoci di dialogare?
Eh sì, è vero: sono intollerante, come ha scritto in poche righe da premio Pulitzer, da premio Benedetto XVI ancora meglio, don Fabio Bartoli qui sabato scorso.
Sono intollerante perché amo e non voglio dare ragione solo per una falsa cortesia, per dimostrare -soprattutto a me stesso e quelli della mia parte- che ti sopporto (perché questo vuol dire tollerare, implica una dimensione superiore, una spocchia appena celata, una sufficienza annoiata). Invece io voglio capire che cosa sei e in che cosa credi, per amarti come sei, e proprio perché ti amo raccontarti la verità, mostrarti la piaga, aiutarti a curarla.
Come fai ad amarli questi qui che ti sputano in faccia appena indichi la piaga? Che ti danno del pazzo perché dici di vederla, toccarla quell’ulcera, di conoscerne le conseguenze?
Come si ama in un ospedale da campo?
Ecco come risponde Vecchioni, tre versi da tre canzoni:

Pazienza, ci vuole pazienza e attesa del momento giusto

“E il mio vecchio che sa la verità
guarda il tramonto dalla collina:
da qualche punto lontano
suo figlio tornerà.”

Ma non basta: bisogna andare incontro con questa pazienza

“Guardami,
io so amare soltanto
come un uomo:
guardami,
a malapena ti sento,
e tu sai dove sono...
ti aspetto qui, Signore,
quando ti va, alla stazione di Zima.”

Certo ci vuole un cuore che aspetti, che Lo aspetti, e allora per prepararlo questo cuore bisogna saper amare in molti modi

“Forse non lo sai ma pure questo è amore”  canta il professore in Stranamore.
E se vai a vedere bene in tutti (beh quasi tutti diciamo) i quadretti di questa delicata canzone del 1978 l’amore è gratuità, è donazione, è coraggio, è qualche cosa di più grande di me, che va oltre l’egoismo, ben oltre: che si tratti di avere a cuore un ideale o una persona, una figlia o un coniuge, c’è questa dimensione di sacrificio, che non è se non rendere sacra una relazione che conta. Ben altro che il “love is love” con cui i falsi miti oggi sdoganano ogni capriccio e voglia.

Il punto però non è l’annuncio della verità, non solo: la sfida che ci viene chiesta è la sintesi, come i tre ultimi Papi, che in questa tempesta devono governare non solo la barca di Pietro ma quella dell’umanità,  la sintesi di fare la verità nella carità.

Come sappiamo amare noi tutti questi fratelli imbevuti dei falsi miti, accecati dai profeti di sventura, illusi che quello che non è se non l’applicazione del loro egoismo sia una forma nuova di amore, trascinanti da profeti che fanno credere loro che quella roba lì sia amore?

Non lo so. Non lo so perché sono anche io qui a lottare con il mio egoismo, con la voglia di lasciargliela lì come fosse un gioco questa vita, e rintanarmi nel mio buco come i ramarri che ritirano la testa quando è buio, quanto è tardi, quando è freddo, quando tutto sembra caderti addosso. E chi me lo fa fare di amare? Invece Lui insiste, la carità di Cristo ci spinge, ci trascina, ci chiama fuori, ci impone –un dovere d’amore- di metterci la faccia. Come non lo so, so che devo amare.

E se qualcuno mi aiuta, ci aiuta, a capire come, prometto che lo abbraccio.

martedì 21 aprile 2015

La meccanica dell'inganno




Pubblicato su LaCroce quotidiano del 16 aprile 2015

C’entra sempre l’amore. E la morte. È tutto qui.
Come la vinci la morte? Come la sfidi?
Il mito di oggi è che non la puoi vincere e quindi mentre l’aspetti consentiti di tutto. E fingi che sia amore. Che in realtà vuol dire chiudersi nell’egoismo, quindi l’esatto contrario dell’amore.  Basta fare finta che sia così. Basta illudersi che l’egoismo sia una forma sublime di amore, che ci sia bisogno di amare se stessi per primi per amare poi gli altri… (il demonio non può che scimmiottare il Cristo, e illudere giocando con le parole come un giocoliere fa con le sue palline e così tramuta “ama il prossimo tuo come te stesso” in “ama te stesso per amare il prossimo tuo” di fatto prosciugando la bellezza dell’amore).

Perché in realtà la morte la puoi fregare, la puoi deridere, la puoi sconfiggere.
Ma solo con l’amore, come spiega nella sua bellissima omelia di Pasqua una firma celebre di questo quotidiano, don Fabio Bartoli (cercatela in rete, su Facebook, su mauroleonardi.it, e ascoltatela tutta: ne vale la pena!).
L’amore però non è quello che vogliono farci credere questi mercanti di morte che si riempiono la bocca di falsi miti, dei quali hanno bisogno per propagare i loro interessi.

I quali sono di due nature: da un lato togliere ogni ombra di male alle loro voglie, perché in fondo l’uomo ha bisogno -un bisogno fisico, profondo, un abbraccio- l’uomo ha bisogno di essere rassicurato che sta facendo il bene. Nessuno vuole fare il male, anche se si rifiuta di credere che un male esista, lo percepisce che non si può fare il male, e allora si illude, lotta, rifiuta se stesso per assecondare i propri capricci e vuole che tutti li chiamino bene, perché non può sopportare l’abbraccio che condanna il suo peccato, poiché anche l’accoglienza del medico, che non può negare l’ulcera neppure nell’ospedale da campo, gli dà fastidio, la percepisce come una condanna, perché da che mondo è mondo il giusto ricorda all’empio il suo agire male, e allora lo vuole distrutto, lo vuole annientato. Vuole un mondo senza speranza, senza amore, ma facendo finta che l’amore e la speranza esistano.
Non sanno che cosa sia l’amore, perché non hanno questa categoria intrisi nell’ideologia dell’individualismo, dell’-ismo quale che sia, forse davvero isterismo. Sembra non capire, non sperimentare che cosa sia l’amore la presidenta che si lamenta delle donne che servono a tavola la famiglia già seduta e pronta all’evento,  e non capisce che quello è solo amore, un amore infinito, che regala generosità, che produce gioia e non sottomissione –alla maniera della Boldrini, mica secondo il canone Miriano si intende!- e che produce relazioni e non schiavitù.
Poi sarà il turno del marito di riparare la tapparella, dei figli di fare la spesa o sparecchiare la tavola, perché l’amore che fa battere il cuore è questo, non un passaggio più o meno rapido a letto, è ascoltare quando non ce la faresti, è gesti di servizio, è momenti speciali. Proprio non capiscono perché non parlano i linguaggi dell’amore, ma quelli del piacere e pretendono che tutti prendano questi miti e li facciano propri così da rassicurarli che sono nel giusto.

Dall’altro, l’altra natura dei mercanti dei falsi miti puzza di Grandevecchio, di interesse commerciale, di budget trimestrali da raggiungere, di nuovi prodotti da lanciare, perché l’amore non spreca, l’amore non spende a vanvera, l’amore conserva, è l’egoismo che sperpera e fa girare l’economia. C’è questo dubbio che per certi versi rassicura: dall’ ISIS ci salveranno le multinazionali, dato che se conquistassero l’Europa raderebbero il mercato a zero ben peggio di quanto possano fare anche tantissime famiglie numerose cattoliche…

Non hanno l’amore nella loro grammatica, come non hanno la lungimiranza.
C’è questo folle che entra nel Tribunale a Milano e ammazza tre persone, e che cosa ti commentano? Che non si capisce come mai in questa società ci siano ormai così tante liti e tanto odio. Ma va? Ma se hai seminato per decenni la necessità di pensare solo a te stesso, di mettere IO al centro, che D-IO non esiste, che tutto è lecito, che puoi anzi devi essere l’uomo che non deve chiedere mai, Egoiste! E che Arrogance è un profumo che attira,  che tutto è diritto e nulla dovere, anche il lusso è diritto, il figlio è un diritto –tanto a lui va bene comunque- che l’aborto è un diritto, che la fedeltà è una cosa da cattolici tradizionalisti o peggio ancor integralisti, che l’amore è sesso, come fai a meravigliarti che questi miti –perché questo sono, miti e falsi- producano solo odio e liti e violenza?

Come fai a non capire che l’egoismo non può partorire generosità?
Ah ma siamo tutti fratelli. Dobbiamo rispettarci, aiutarci, accoglierci, comprendere le altre culture, dare da mangiare agli affamati, vestire gli ignudi.
Altra falsificazione mitologica.
Chiariamo. Tutte cose da fare s’intende, ma perché c’è un senso che viene disconosciuto.
Come facciamo ad essere tutti fratelli senza un Padre comune.
Prendiamo questa cosa qui degli zingari o degli immigrati, lo dico da un punto di vista filosofico, con gli uni che fanno d’ogni erba un fascio e bruciano tutti, radono al suolo e gli altri che fanno di ogni erba un fascio dicono che vanno amati tutti perché vanno capiti.
Spiegami: perché?
Perché li devo amare? Perché li devo capire? Accogliere? Sacrificare per loro? Perché?
Perché sono uomini! Affermano (e pare che invece in questa categoria non rientrino le sentinelle in piedi, i vogliolamma, i cristiani massacrati nel mondo, per i quali non c’è un #jesuis che tenga).
Sono uomini come te, ripetono. E allora? Che cosa ne devo dedurre? Perché da qui deve discendere il mio sacrificio per loro?

Il punto è che i falsi miti si reggono sulla confusione, perché alla prova della logica, alla prova della grammatica, alla prova del dizionario non possono reggere.
Non c’è nessuna ragione per cui, in nome di una generica umanità, io debba sacrificarmi per il mio vicino, peggio per un lontano. Neppure per la legge del “oggi a te, domani a me”, ti faccio un favore per averne un altro domani. Non sta in piedi in una società che ha scelto di vincere la morte con l’egoismo. Non potrebbe fare diversamente, l’amore ha bisogno di ben altro fondamento.
Va analizzata allora una volta per tutte questa costruzione filosofica dei falsi miti, e già etichettare come filosofia questa ricerca della dissoluzione è farle un omaggio che non merita.
Il punto nodale è esaltare i propri desideri, le proprie pulsioni, senza dover sottostare a nessuna limitazione. Perché? Perché di fronte al dolore, se sei incapace di dare un senso, non resta che anestetizzarlo. Viviamo nell’esaltazione del divertimento, inteso in senso letterale dis-vertere: distogliere l’attenzione, guardare altrove. Poiché l’uomo non può da solo darsi un senso, capire come gestire questa cosa qui –la morte, il dolore- che cerca di sconfiggere (vedi il recente articolo, pubblicato qui lo scorso 11 aprile, di Emiliano Fumaneri sulla pratica della ibernazione e la filosofia del trans umanesimo) senza riuscirci, non gli resta che guardare altrove, ubriancandosi di passione per dimenticare la morte.
Allora tutto deve concorrere a questa follia: tutto deve essere permesso perché la presenza di un limiti mi ricorda la fine alla quale sono destinato. E la Chiesa, che invece ricorda la morte per esaltare la vita che viene dopo, va sconfitta perché non mi permette di “distrarmi”.
Ma poiché la ragione stessa grida contro questa follia, l’ideologia del “divertimento” deve confondere, ubriacare.  Non resta che creare una realtà parallela, manipolata, in cui l’ideologia plasma il vero distorcendolo.
Per raggiungere il risultato e ottenere questo diabolico obiettivo, c’è bisogno essenzialmente di tre fattori:

a)    svuotare di senso la logica e il linguaggio, distorcere il senso delle parole e cancellare il rapporto di causa ed effetto,
b)   stroncare con la violenza chiunque si ostini a ragionare con la propria tesa usando le categorie della logica e della verità,
c)    illudere che tutto questo sia un felice passo avanti verso il progresso.

Il trucco è tutto qui, e lo si percepisce in tutto ciò che sta accadendo nella società occidentale.
L’amore è ribaltato, si comincia da qui: bisogna infatti che questo sia il primo baluardo a cadere perché se l’amore viene compreso e vissuto per quello che è, innanzitutto gratuità e generosità nella rinuncia a se stessi, vale a dire il modo migliore per essere felici, allora il mondo dei falsi miti del progresso non può reggersi in piedi, si abbatte su se stesso.

Per questo l’amore è ridotto a piacere e ad auto-celebrazione, perché solo così si può costruire un mondo alla rovescia, un mondo in cui vince la morte. Ma, temo tragicamente, questo i profeti dei falsi miti non l’hanno capito.

sabato 11 aprile 2015

La dissoluzione della verità





apparso su LaCroce Quotidiano di martedì 7 aprile 2015


Due notizie di questi giorni ci mostrano, quando analizzate con certosina attenzione, un inquietante spaccato dei falsi miti che ci vogliono propinare oggi. O meglio, del meccanismo con il quale queste menzogne ideologiche si spargono e infettano le coscienze.
Mi riferisco all’episodio di bullismo perpetrato da 14 liceali minorenni ai danni di un compagno che, secondo le ricostruzioni, si era probabilmente ubriacato ed è stato denudato e ricoperto di caramelle.
Il secondo fatto è la vicenda che riguarda la maestra Margherita e i compiti assegnati ai suoi alunni per la Pasqua.
Che cosa c’entrano due fatti così diversi? Il primo è quello che ha sollevato uno sdegno pressoché generale per la reazione di quei genitori che hanno difeso ad oltranza i figli resisi colpevoli di un atto di bullismo e che sono sospesi per 14 giorni dalle lezioni; e il secondo  si tratta di un fatto che ha beneficiato della forza del web per regalare all’attenta maestra ben più dei famosi 15 minuti di celebrità?
I temi sono molti ed intrecciati tra loro.
Partiamo dalla posizione dei genitori dei quindicenni irresponsabili: tutta questa vicenda mostra infatti una totale incapacità di connettersi con la realtà.
Questi sedicenti educatori, non dimentichiamo che questo è il ruolo principale dei genitori, confondono il bene con il piacere. In molti modi: intanto riempiendosi la bocca con questa parola che sembra magica “scherzo”. Era solo uno scherzo. E già qui c’è da riflettere: ammettendo che siano consapevoli di quello che dicono, e soprattutto che siano sinceri –cioè siano veramente convinti che si trattasse solo di uno scherzo- sarei interessato a sapere che cosa è scherzo. Fino a dove arriva uno scherzo. E se basta utilizzare questa categoria per giustificare qualsiasi cosa.
Si intravvede qui in trasparenza la follia di chi si autogiustifica adducendo come pretesto l’ironia, la satira. Non lontano da quanto sostengono quelli del Cassero e chi li difende: era solo satira contro la velenosissima e turpe religione cristiana (perché quella disgustosa messinscena ferisce tutti i cristiani, non solo i cattolici) quella, per inciso, che –come dice il Corsera- vanta –mai verbo fu più adeguato- 322 martiri ogni mese.
Scherzo dunque sembra la parola d’ordine per ammettere qualsiasi cosa, ovviamente tutto ciò che fanno quelli della nostra parte, perché se invece sono altri a farlo, quelli ritenuti per definizione “fascisti” “oscurantisti” “nemici della libertà” (come, ad esempio, la preside della vicenda o quei magistrati che fanno rispettare la legge, quella legge che non piace, sia chiaro!) allora si parla di provocazione, la quale va sempre declinata con l’aggettivo “fascista” appunto, trasformandola così in sinonimo di male assoluto, senza possibilità di redenzione. Che se la provocazione è invece illuminata, come quelle di Catellan o di Toscani, allora non solo ci sta, ma è anche un segno evidente di progresso.
Ecco, ecco qui come i miti si propagano, distorcendo le parole e le situazioni che stanno dietro ad esse, che vengono fatte scomparire in un gioco di prestigio che mescola i significati e li distorce.
Torniamo ai genitori e alla loro difesa d’ufficio: come si fa a ritenere che una azione simile non abbia conseguenze? Non dico sui rei, bensì sulla vittima. Come si può pensare che questa roba qui, fosse anche definibile scherzo, non impatti sulla vita di un quindicenne messo alla berlina davanti al mondo? Come si fa a pensare che sia una folata di vento che non lascia schegge dietro a sé?
Non solo, ma quali conseguenze ha una difesa ad oltranza di un gesto così pieno di sopraffazione, di arroganza, di disprezzo, poiché la mancanza di rispetto per la persona è sempre disprezzo? Che cosa resterà a questi ragazzi che si sentono discolpati, privati di ogni responsabilità da genitori che non solo prendono le loro parti, ma sono così convinti della loro posizione da non scusarsi nemmeno con la vittima e la sua famiglia?
Da dove deriva questa incapacità di lungimiranza, di prendere atto del rapporto causa-effetto?
Da un altro mita o forse da una manciata di miti: primo tra tutti l’invito a cogliere l’attimo che fugge, che se inteso dentro ad un senso profondo vuol dire spremere il bene da ogni situazione –“tutto concorre al bene”- ma se  invece ti privi di questa dimensione, allora resta solo l’istinto, il piacere materiale di fare quello che vuoi, di gustare tutto.
Questo insegnano queste pericolose prese di posizione che svuotano l’azione del suo senso educativo. Un genitore educa sempre, questi genitori pare abbiano abdicato a questo ruolo preferendo la popolarità al loro dovere, dovere grave, di far crescere i figli.
Questo vuol dire comprimerli per sempre in un mondo adolescenziale dove tutto è concesso, dove “love is love” nel senso più deteriore del termine, dove li vogliono i promotori dei falsi miti, perché di eterni adolescenti hanno bisogno: esseri privi di nerbo, privi di pensiero, asserviti ai propri istinti -“Facciamo uno scherzo? Dai che ci divertiamo!”- incapaci di assumersi responsabilità e di apprendere dai propri errori grazie ad una punizione che  racconta della dignità e della verità.
C’è tutta l’ideologia dei falsi miti del progresso in questa vicenda, è intrisa della filosofia di chi pretende di fare solo ciò che vuole schiacciando nell’odio chi si oppone, alla faccia dei proclami #jesuischarlie sbandierati come libertà di espressione.
E veniamo alla bravissima maestra di Copparo, provincia di Ferrara, che assegna ai suoi alunni dei compiti pieni di buon senso e di senso soprattutto, compiti che parlano di valori come la famiglia –fatti raccontare le storie dei nonni; se la mamma o il papà (mica genitore 1 e genitore 2, eh!) sono troppo stanchi per leggere, fallo per loro; abbi pazienza con fratelli, sorelle, cugini- di valori come la fatica e il giusto riposo –cerca di guardare meno tv, guarda il paesaggio, ripassa le tabelline- valori semplici, immediati, profondi.
Non appena la maestra pubblica sul suo profilo Facebook l’elenco si scatena la rete che moltiplica l’elogio. Dunque al fondo del cuore abbiamo ancora una coscienza che ci fa capire che cosa sia realmente importante, che riconosce un valore ai valori.
(E così, come speriamo, oppure è solo una nuova forma di emotività? Abbiamo capito che cosa abbiamo rilanciato con commenti entusiastici o siamo solo preda di un sentimento buonista da trend dei social media?)
Perché quello che sta scritto in trasparenza in questo elenco è il prendersi cura dell’altro, il fare gratuitamente, l’avere pazienza, amare nel senso di dare tempo, il proprio tempo agli altri. Tutto il contrario di cogliere l’attimo fuggente, come Eva la prima mela.
C’é dentro il senso di una famiglia tradizionale, naturale –no Fazio, non l’opposto di frizzante o ferrarelle, naturale nel senso che è secondo l’ordine della natura, della verità, distinto da artificiale, diverso da ogm come sono alcune delle proposte che continuamente fai- c’è dentro un papà, una mamma, una famiglia numerosa, una famiglia ampia che comprende nonni, zii, cugini. C’è il senso della responsabilità, l’impegno dei genitori, il senso del dovere dei figli.
Chi ha rilanciato il post lo ha compreso?
C’è dentro una scuola che non si limita a trasmettere istruzioni, nozioni, ma che si fa carico di educare insieme ai genitori, che insegna le virtù.
Ma una storia così non può avere il lieto fine, una maestra che promuove il bene dà fastidio –tra parentesi, mica è cattolica la Margherita, è segretaria locale di Rifondazione Comunista, quindi presumibilmente lontana da una presunta melassa religiosa- e allora ci si inventa che s’è copiata tutto, che non è farina del suo sacco.
A prescindere dal fatto che tra la fonte sedicente originale e l’elenco di compiti della maestra l’unica cosa in comune è che si tratta di una lista, Margherita non ha mai affermato di essere l’unica e sacra inventrice –al femminile, contenta Boldrini?- dell’elenco.
E qui si svelano nuovamente i meccanismi dell’ideologia dominante: negare i fatti se i fatti danno fastidio, attaccare tutto quello che si può per sostenere le proprie posizioni. E le conseguenze sulle persone: si legge, ma senza capire, o, peggio, si capisce quello che si vuole. La verità? Un accessorio ingombrante. Come è stata manipolata e stravolta la vicenda del disturbatore al convegno di Milano, così si distorce questa semplice e banale vicenda.
Come capita tutti i giorni suoi social media, dove il meccanismo ideologico è dilagante: non leggi, intervieni a gamba tesa, condanni, quando te lo fanno notare ti sdegni, ritieni di essere parte offesa, ti inalberi, accusi gli altri di averti insultato e giudicato. Tutto collegato con quanto prevede l’ideologia: ho ragione per definizione e tu torto, quindi ogni mezzo per schiacciarti è lecito.
Ecco allora che non importa che cosa abbia scritto Margherita: noi sosteniamo che copi solo perché ci serve per attaccarla politicamente –che delusione il quotidiano della destra che si attacca a queste cosucce- o per schiacciarne la popolarità, che non vada più in giro a dire che la famiglia è importante e soprattutto che non diventi pietra di scandalo per tutto quel mondo della scuola –e ce n’è così come di maestre Margherita ce ne sono tante, come ad esempio la preside di Cuneo- che non sa fare il suo mestiere che alla fine è quello di aiutare le famiglie ad educare.
E qui si chiude il cerchio: i falsi miti che vogliono distruggere la responsabilità e la relazione, e chi si oppone, chiunque sia di buona volontà, che sostiene i valori fondanti della società.
E qui si svela anche il meccanismo delle ideologie dominanti: separare le parole dal loro senso, separare la causa dall’effetto, incarcerarci nell’attimo che fugge, incatenarci alle voglie dell’istinto.

Proprio ciò che noi combattiamo.

domenica 5 aprile 2015

Or per empierti bene ogni disio






Articolo apparso su LaCroce quotidiano mercoledì 1 aprile 2015

Era la settimana santa di 715 anni fa, quando Dante iniziò il suo viaggio per ritrovare la strada del cielo. Sono 750 anni dalla nascita del sommo poeta quest’anno, proprio per questo definito anno dantesco, e vale la pena interrogarsi sul poema che più di ogni altro spezza le vene dei polsi squadernando il cielo e la Trinità dopo averci condotto per rima aspre e chiocce a discendere fin nel Cocito del nostro cuore per riscaldarlo e discernere il bene che vi possiamo trovare.
Vale la pena farci guidare in questo altro viaggio non da ombra ma da donna certa, così certa che ha pensato bene di scrivere un nuovo saggio sulla Commedia che ormai si dice Divina.
Elena Landoni Scotti, che insegna Letteratura italiana moderna all’Università Cattolica di Milano, ha dato alle stampe “Or per empierti bene ogni disio” (edizioni Universitas Studiorum) per raccontare che in Dante fede e ragione si danno la mano come Nitsche e Marx nella canzone di Venditti. Elena è coordinatrice di diversi progetti di ricerca sulla letteratura italiana delle origini e dell’Ottocento, direttrice scientifica di Convegni nazionali e internazionali, e ha tenuto lezioni anche nelle università di Freiburg, Hannover, Leuven, Cracovia, Città del Messico.
Le ho chiesto innanzitutto se dopo oltre settecento anni Dante sia ancora attuale e perché

Quando parliamo di Dante pensiamo subito alla Commedia: e giustamente, perché se è vero che Dante non è solo la Commedia, è anche vero che Dante non sarebbe quello che è senza la Commedia. Perciò la sua attualità è prima di tutto quella della grande opera d'arte, che sa parlare attraverso i secoli e le generazioni. Ma in questo caso specifico c'è qualcosa di più: Dante è espressione grandiosa di una mentalità e di una cultura radicalmente diverse da quelle attuali: addentrarsi nelle ragioni di questa diversità ci aiuta a recuperare una parte della nostra umanità che rischierebbe di perdersi, sommersa dall'invadenza dei criteri dell'attualità.

Sermonti, Nembrini: in che cosa la tua visione di Dante è diversa dalla loro? che cosa aggiunge?

Non parlerei di visione e soprattutto non aggiungo niente; anzi, io mi limito a prendere in considerazione solo alcune  porzioni del testo. E’ semplicemente un altro tipo di approccio. Quello che mi preme comunicare è la complessità della pagina dantesca, che sorprende sempre per la capacità di attivare simultaneamente più livelli di senso: la produzione di bellezza, la comprensione del sé, l’appartenenza al mondo medievale, la filiazione dalla cultura classica, ecc. Noi invece siamo inclini a sezionare l'offerta di significato in comparti, sforzandoci poi di renderli comunicanti.

In che modo Dante può parlare alla nostra società?

Proprio perché espressione di una società, e quindi di una mentalità, diversa, Dante può aiutare la nostra, di società, a confrontarsi con uno sguardo sulla realtà che oggi ci è diventato estraneo. Ti faccio solo alcuni esempi tra i molti possibili. In cima al Purgatorio, Dante rivede Beatrice, che lo rimprovera in modo durissimo per la sua infedeltà. L’idea di fedeltà che salta fuori da questo dialogo non ha niente a che vedere col dovere (parola che infatti non si trova nei paraggi), ma, al contrario, col piacere. Beatrice fa letteralmente, e solamente,  riferimento al proprio corpo, che tanto era piaciuto all’innamorato. L’errore di Dante è posto nei termini di un non-rispetto nei confronti di ciò che ha scelto lui stesso.
Il piacere è strettamente connesso anche con la libertà, che è il perno intorno a cui ruota tutta l’organizzazione dell’aldilà dantesco. Quando Virgilio abbandona Dante, gli dice “ora prendi per guida il tuo libero arbitrio”. E’ incredibile, ma è così. E Virgilio può dirglielo perché ha passato due terzi del viaggio a educarlo a riconoscere ciò che è più conveniente per lui.
E’ lo stesso meccanismo con cui un’anima smette di emendarsi nel Purgatorio, e decide di salire al Paradiso. Nessuno le ha dato il permesso, nessuno glielo vieta: lo decide lei liberamente.
La fede che Dante disegna nella Commedia è il trionfo della libertà. E della ragione: non per nulla anche su questo Dante avrebbe molto da dire alla nostra società. Quando nel XXIV canto del Paradiso S.Pietro interroga Dante sulla fede, gli chiede di rendere conto razionalmente di ogni minimo dettaglio. Cerca addirittura di metterlo in difficoltà, perché non ha paura di niente. Dante aderisce alla fede perché appaga in primo luogo il suo bisogno di ragionevolezza.
Mi sembra che ci sia parecchio da imparare.

In che modo l’opera di Dante è bella? Che cosa è bellezza per Dante e per noi?

Ah, la bellezza. Concetto per noi difficile da definire, mentre Dante sapeva bene che cos’è. Un valore di serie A, tanto per cominciare, come la Verità o la Bontà. Qualcosa di cui l’uomo ha perennemente nostalgia e che quindi sa riconoscere nella realtà. Un’evidenza, insomma, ma che esige una corrispondenza da parte del singolo individuo con la totalità di se stesso. E infatti per Dante e per la sua epoca sarebbe fuorviante  separare nettamente il bello dal vero e dal buono. Forse la caratteristica principale della bellezza in Dante è proprio questa: nel momento in cui ne afferma la necessità come bene primario, ne implica l’individuazione sulla base di un giudizio. Come l’amore.
Nella Commedia c’è un itinerario che lega la bellezza, l’arte, l’amore, che nel libro cerco di delineare. E che è estremamente affascinante.

Come mai Dante lo si riscopre e lo si ama dopo la scuola mentre negli anni in cui lo si studia ci sembra decisamente noioso?

e) Credo per l’ovvio motivo che la lettura scolastica è imposta, quella successiva è scelta. Meno ovvio è pensare che la scuola, purtroppo, non sempre si preoccupa di dare le motivazioni per affrontare la fatica di uno studio: Dante scrive nel Trecento, in certi passaggi la sua lettura richiede la fatica della comprensione linguistica e storica. Ma soprattutto temo che spesso Dante non venga presentato come un interlocutore in grado di offrire squarci di significato insospettati. Proprio ciò di cui gli studenti hanno maggiormente bisogno.

Nembrini definisce Dante il poeta del desiderio: per te che cosa è invece?

Nessun “invece”, Nembrini ha ragione. L’area semantica del desiderio è frequentissima in Dante (senza nemmeno  pensarci, me la sono ritrovata nel verso che dà il titolo al mio libro). Caso mai si può andare avanti nella frase: Dante è il poeta del desiderio che trova la risposta. “Or per empierti bene ogne disio”, appunto.

Come leggere Dante oggi? Ascoltarlo è forse meglio (anche su Spotify c’è tutta la Divina Commedia letta da grandi interpreti!)?

Credo che la lettura e l’ascolto mobilitino due tipi di attenzione diversi. Per esempio, sono convinta che se il bravissimo Benigni fosse un lombardo, o un siciliano, la parte della sua performance affidata alla lettura avrebbe avuto un effetto diverso. Dante ha pensato la sua Commedia in toscano, l’italiano non esisteva neppure. Certi effetti acustici che voleva ottenere, essenziali in poesia, sono comunicabili solo attraverso la riproduzione di determinate aperture vocaliche, o di fenomeni fonetici tipici del toscano, come il raddoppiamento fonosintattico o la gorgia. L’ascolto però obbliga a correre dietro alla successione lineare dei suoni, la lettura invece consente di fermarsi, di tornare indietro, di rileggere: esattamente come suggerisce Dante, del resto.
E allora la lettura di oggi deve essere consapevole, da una parte, delle indicazioni che l’autore stesso dissemina lungo la sua opera: visto che si è premurato di fornirci un libretto di istruzioni (lo riassumo in un capitolo), seguiamolo per far funzionare al meglio l’oggetto che abbiamo tra le mani. Dall’altra deve mettere in conto che la comprensione di quanto scritto implica la disponibilità ad “uscire” dal sistema mentale attuale per avvicinarci a quello da cui l’opera è germinata. Ma questo è un presupposto ineliminabile, benché talvolta rimosso, per qualunque tipo di incontro.

Dante non è solo Commedia: che cosa non bisognerebbe perdersi? 

l) Per quanto mi riguarda non ho dubbi: la Vita nova. Non solo perché è l’antecedente conclamato della Commedia, e perché è un’opera narrativa conclusa e strutturata dall’autore. Ma soprattutto perché è una storia d’amore che ci accompagna nel cammino di conoscenza dell’amore. Tra gli opinion leader del tempo di Dante, c’era chi sosteneva che un innamoramento non può lasciare indifferente il destinatario del sentimento, e che quindi si può sperare in una sorta di corresponsione quasi automatica. Altri dicevano che per innamorarsi occorre una sorta di predisposizione, che l’eventuale intercettazione visiva della fortunata (o fortunato) metterebbe in moto. Dante invece torna saldamente nella realtà, ponendo la questione sul piano di un libero (come sempre) e responsabile (come sempre) coinvolgimento con un “altro” da sé, da conoscere e riconoscere, grazie all’aiuto della ragione e del giudizio, come strada maestra per raggiungere la propria felicità. Non saprei spiegarlo meglio ai miei figli.
Poi succedono tante cose che accadono in una storia d’amore: Dante non riesce mai a essere disinvolto in presenza di Beatrice e si fa prendere in giro dalle amiche di lei per la sua goffaggine; Beatrice gli nega il saluto perché lui ha guardato un po’ troppo un’altra donna. E lui a disperarsi perché le cose, in questo amore che ormai non si può più tenere nascosto, non vanno come vorrebbe. Finché un’amica, a cui ha deciso di confidare le sue pene, un giorno gli chiede: “Ma perché se la ami tanto continui a essere ripiegato su te stesso e concentrato su quello che non hai?”.
Per Dante è una folgorazione, e da quel momento la sua poesia non sarà più la stessa. In quel frangente ha capito che in un rapporto affettivo la decisione di amare è personale e inalienabile, che nemmeno i capricci e il disinteresse dell’amata possono sottargliela. Ha realizzato una volta per tutte che è lui col suo amore a fare di Beatrice ciò che lei significa per lui. Ed è un possesso, come dice testualmente Dante, “che non gli può venire meno”.
Ho sentito una volta una psicanalista dire durante una conferenza esattamente la stessa cosa.