Quando i cinquant’anni sono stati raggiunti e superati con la velocità del suono di una sirena arrabbiata, tre sono le possibilità che rimangono all’uomo che non vuole rimanere ad attendere l’impatto indifeso e inconsapevole: farsi l’amante, farsi una macchina rossa, scrivere un blog. Dato che mi state leggendo (davvero? Mi state davvero leggendo?) avete compreso che ho scartato le prime due ipotesi. E per scelta volontaria e creduta, non certo forzata.

Ma che cosa e perché scrivere? Condividere, o l’illusione di farlo, aiuta spesso a sentirsi in compagnia di fronte alla piccole battaglie della vita: quelle grandi, si sa, le si può affrontare solo in compagnia di se stessi, senza nessuno scudiero o cavaliere al proprio fianco.

La prima delle sfide e quella che affettuosamente potremmo definire di san Giuseppe, che di fatto nomino mio speciale e personale protettore confidando sulla sua ironia e bonomia. In che cosa consiste questa sindrome? Nel sentirsi ovviamente il più imperfetto della famiglia dovendone invece apparire la guida salda. Non che con questo voglia affidarmi a una melliflua umiltà fasulla, l’autocompiacimento di sentirsi negare la denigrazione e gustare così una vanitosa ricompensa per la propria maliziosa modestia. Affatto. Lauto compiacimento può derivare solo dalla concretezza. Non che non sia vanitoso, tutt’altro: la vanità è sempre in agguato, come ben sa il diavolo impersonato da Al Pacino nel mondo degli avvocati.
Gli è che essendo proprio vanitoso e anche intelligente, so bene che l’ambizioso deve attingere a piene mani all’umiltà: per crescere, ambizione che può essere anche nobile e saggia, bisogna capire dove migliorare. E per capirlo non c’è che l’umiltà.
L’ambizioso vanesio e superbo farà una brutta e rapida fine.

Quindi qui sto: con una moglie tendente alla perfezione, pur con difetti marginali che provocano in me tanto irritazioni quanto ammirazione per la loro trascurabile banalità; con tre figli che, come recitano brutti film, hanno preso maggiormente da me i difetti, e quindi non posso accusarli di una eredità che ho trasmesso loro; con un lavoro che amo e che ogni mese mi sfida sempre di più, aiutandomi a non fare mai mia la sicurezza.
Di che scrivere dunque?

Della precarietà, della inadeguatezza che mi rende comico a me stesso, specchio delle cose che ho appreso e che rivedo, con squarciante veridicità, nel mio quotidiano.

venerdì 30 marzo 2012

Il gioco della citazione

Prossimo post domenica 1 aprile






S’io avessi la penna intrisa di cultura, che respirasse Rostand e Cervantes, che sapesse a memoria il Cantico dei Cantici o la Ballade des Pendus, quelli per cui le neiges d’antan sono passate così in fretta da lasciarli devorèes et purries a chiedere ai frères humains qui apres nous vivez d’intercedere presso la Madonna il perdono di Dio (e, che strani questi maledetti che poi alla fine si inchinano alla divina maestà…), s’io respirassi Cecco o Guido e Lapo (no, non quello della Ferrari mimetica) ben altre rime aspre e chiocce scriverei.
S’io fossi foco, e acqua e vento e tempesta, non so proprio che farei…
Son uomo di scienza minore, che assembla molecole dentro impianti fangosi; e sono espressivo e competitivo. Di quella competizione lucida e che spinge e urge, non di quella che induce vomito e piagnisteo.
Le mie rime però al massimo sciacquano i panni in Lambro, che sarà piccolo e un po’ sporco, ma è quello che rimane sotto Ambrogio, e quivi si ricordano film e canzoni e sceneggiati –che pochi altri conducono a pari ricordi, associando a collettive memorie, per l’ingrigire dei capelli assente (e vi sfido a citarami il cast di La squadra di stoppa, Ciuffettino, I racconti del faro, La famiglia Benvenuti, I ragazzi di padre Tobia senza googolare si intende)-, s’inerpicano su per le cime dello sport, che spesso non raggiungono i miei colori per essendo le tinte del cielo di giorno e di notte, e spanciano sui libri più banali, che di rime e tocchi hanno punta frequentazione, piuttosto di serial killer e di social media. Per tacer poi di quanto io attinga da canzoni asciutte di professori e altri cantautori, rigorosamente oltre i sessanta.
Però di questo so e vo’ cantando, come troubador che d’una cosa sola rima, di come amor ci prese ai tempi del liceo -galeotta fu la gita e chi la indisse, da quel giorno insiem noi guardiamo avante- e che ancor’oggi non c’abbandona; oggi che la canizie mi stampa sull’assolato muro che non ha in cima cocci di bottiglia ma fiori e luci e di entrambi profumo forte, e un futuro troppo corto per non avere un secondo tempo.
Che adesso sì che possiamo rispondere alla domanda che squadri da ogni lato l’animo nostro informe: sappiamo bene ciò che siamo e ciò che vogliamo, e quanto siamo pronti a lottare per tenere stretto in mano questo filo che ci allontana, non l’uno dall’altra, piuttosto insieme dalle origini, ma non dalle radici.
Perché dove trovi quella forza che ti fa credere simile ad un Dio, anzi di più se possibile, colei che ti siede di fronte e ti guarda e ti ascolta, se non proprio in Dio stesso? Dove trovi la forza per stirare nel tempo un amore trascinandone le gioie oltre la collina, sotto il filo spinato, tra mille battaglie, e pianti e angosce e incomprensioni? Quante volte hai pensato di rinunciare e lasciargliela lì come fosse un gioco, questa vita insieme che non è niente, e non è poco? Quante volte t’è venuta voglia di urlare, sottovoce, lasciatemi così come una cosa posata in un angolo e dimenticata? Quante volte, guardando indietro con sguardo mesto e pesto, t’è venuta voglia si richiamare l’ombra di tuo padre, e implorarlo “papà, lasciamo tutto e andiamo via”, sapendo, come rinchiusi seduti sopra quel treno che il futuro è già stato e non può cambiare.
Son volati anni corti come giorni,  e mani siamo stati sommersi da un mare florido e vorace che ci ha rubato la certezza. Perché c’è sempre stato un momento in cui abbiam potuto sederci e ricordare e deridere e scacciare e guardare avanti. Se qualche piacere c'è per un uomo che ricorda i precedenti dolori è nel pensare che ormai sono passati e che nessuna tempesta, fosse anche tre miglia dopo Capo Horn, potrà mai far girare tre volte e la prora ire in giù, che quest’amore è forte come la morte tenace come gli inferi la nostra passione, che io sono come sigillo sul suo braccio, e poiché è fondato in Dio, le grandi acque non lo potranno travolgere mai. Così con lieve cuore e lieve mano, potremo la vita prendere e lasciare. E’ una (Sua) promessa.  Che non tradisce mai. Perché tutto concorre al bene. A saperlo vedere ed estarre dalle parole leggere che per noi Lui abbandona come un gioco per le strade, e le righe, del mondo.

giovedì 29 marzo 2012

Me ne vado - i racconti del giovedì




Non è per rabbia o per disperazione. No. Non c’è rivincita in ciò che faccio. Non saprei a chi indirizzarla. Non che la mia vita sia sempre corsa via serena e lieve. Non dico questo. Non posso però lamentarmi, grandi sofferenze non hanno solcato i miei orizzonti. Non ho provato dolori intensi, quelli che scuotono l’anima, quelli che ho visto negli occhi di alcuni amici, amici poi, parola troppo nobile e ricca per descrivere quelle conoscenze che mi sono fluite intorno. Non ho avuto amici, ecco. Non ho conosciuto che cosa l’amicizia significasse, perché non mi è stato concesso di soffrire. Non  l’hanno fatto per crudeltà, tutt’altro. Non ha pensato che a me e alla mia felicità, di questo sono sicura. Non hanno forse ritenuto che privandomi della sofferenza, mi stavano privando della vita stessa.  Non gliene faccio una colpa, credo che semmai potrei solo riconoscere un eccesso di amore, ma di amore grezzo, superficiale, per quanto profondo possa essere stato, imperfetto. Non riesco a spiegarmi: come ho potuto scrivere che l’amore che mi è stato rivolto è definibile come profondo e superficiale al tempo stesso? Non trovo le parole esatte, poiché in realtà è proprio così: profondo, rosso, sonoro come un sassofono che avvolge in una atmosfera densa e fumosa, ma non sporca e unta, così intenso da togliere il fiato, intenso fino all’oppressione, ingordo; superficiale, verdino, squillante come un clarino, un po’ stonato, che trilla senza ritmo, fuori misura, più per piacere a sé che per accordarsi alla sinfonia. Non capisco come possa essere successo, ma solo adesso che, mentre cammino su questa spiaggia che sembra non finire, deserta, alla luce bassa dell’alba, adesso che per la prima volta metto ordine non ai miei pensieri, che ho sempre conservato piegati e profumati ognuno nel loro cassetto, ma ai ricordi, che mi inseguivano come sciami d’api e io li sfuggivo, per proteggere ciò che volevo mi raccontassero, adesso che rifletto con logicità e metodo, adesso che analizzo, separando le emozioni dal loro significato, adesso che voglio capire questo amore che cosa è stato in realtà, come ha cambiato la mia vita, a chi è stato realmente rivolto, adesso mi viene voglia di piangere, e continuo a camminare.
Non ho che conosciuto la mediocrità, ecco. Non ho conosciuto un vero amore. Non amavano me, ma loro stessi in me. Non rappresentavo che una proiezione del loro amore, un oggetto che riflettesse quel senso, evidentemente inappagato fino a quel punto, di un affetto profondo. Non cercavano me, ma loro stessi, nel riflesso della mia vita, nello specchio che la mia vita rendeva loro. Non volevano soffrire e mi hanno rubato il dolore. Non volevano infelicità e mi hanno privato della mia felicità. Non cercavano una figlia, desideravano una estensione fisica al loro egoismo, che paradossalmente convergeva e si coagulava in quell’esserino misuscolo e indifeso che ero io.
Non sono del tutto onesta a dire questo, anche solo a pensarlo. Non potrei mai accusarli senza averli ascoltati. Non posso però tornare. Non voglio. Non voglio ascoltare la loro difesa, perché potrebbe essere un fallimento. Non per loro: per me. Non potrei sopportare di sentir confermati, dalle loro parole, dai loro occhi, dai loro gesti, i miei più laceranti sospetti. Non mi resta che camminare, senza voltarmi indietro, senza sperare nulla, fino a quando non troverò la speranza qui, sulla sabbia, in qualche modo, in qualche gesto, in qualche oggetto, e capirò che sì, qui c’è un nuovo inizio.
Sì, posso ricominciare e forse allora potrò anche tornare indietro. Sì, so bene che sto facendo loro del male, sto facendoli soffrire, forse di un dolore che non hanno ancora provato. Sì, lo so, e so che anch’io sto provando per la prima volta questo dolore, adesso leggero e distante, come una sirena in lontananza, come una nave all’orizzonte, ma che avanza, e si ingrandisce e diventa più acuto e livido, viola, come i bordi di una taglio suppurato: non ne ho paura, anzi l’aspetto. Sì, l’aspetto perché è di questo che ho bisogno, che abbiamo bisogno, per uscire dalla finzione di una vita apparentemente perfetta, e perfettamente spenta, insulsa, scolorita, tiepida, indistinta, come un disegno fatto col gesso sul selciato che venga lentamente lavato via da una pioggia allegra e squillante.
Sì, posso tornare un giorno, quando sarò arrivata in fondo alla mia strada e avrò trovato ciò che di me stessa ancora non conosco e ho paura a conoscere, quando mi sarò messa alla prova e avrò temprato il mio patire, tornerò e amerò come non ho mai amato.
Perché allora potrò aprire le braccia e stringere tutti in un amore nuovo e vero.  

mercoledì 28 marzo 2012

Un amore lungo millemiglia







L’amore si misura anche in chilometri. Quelli fatti insieme. Noi: tanti.
Dapprima in Italia, poi l’arrivo di Andrea, esattamente 345 giorni dopo il matrimonio ci ha un po’ rallentato, ma neanche tanto.
Toscana, Emilia, Alto Adige, Puglia, Basilicata: percorse tutte lungo autostrade che finivamo per conoscere metro per metro, area di servizio per area di servizio.
Poi, cresciuti i figli, l’estero e i grandi viaggi. Soprattutto gli States. In auto da Boston al confine con il Canada al nord, a Burligton. Poi invece giù, dopo una sosta a Cape Codd, fino alla Grande Mela. E una pennellata nei dintorni di Frisco. Per tornare su questa costa con Miami fino a Key West, e di nuovo da Washington a New York.
Senza dimenticare il sud della Francia, la Spagna, e ancora l’Italia.
C’è quando ci si ama è bello viaggiare insieme: perché stare chiusi nel medesimo abitacolo per ore da un lato presume l’amore, dall’altro lo rafforza. E genera quelle abitudini che scendono nel cuore perché diventano gesti d’affetto.
Va bene, i figli maliziosi dicono che io ho problemi acustici all’orecchio destro e Franca al sinistro proprio perché così in auto non ci ascoltiamo! Non è vero. Ho anche proposto di acquistare un’auto britannica con guida a destra per risolvere il problema, che di mollare il volante non se ne parla…

Così insieme si sta anche in silenzio, poi si prega (quanti rosari!), poi si litiga un pochino (ad esempio sulla temperatura e l’uso del condizionamento/riscaldamento o sulla radio), ma per gioco, e poi si ragiona e poi si canta e poi si dorme (non tutti e due insieme) e si guarda il panorama, e si parla di nuovo e si mangia, si beve, si discute, si impreca (eh no, le cartine proprio non sapete leggerle signore mie), si brontola, e si ride. Soprattutto si ride. Insieme. Di noi. Un grande dono di mia moglie è l’avere una infinita ironia che gioca spesso su di sé, di noi, di me.
In auto insieme. Anche ora. Nel giro in senso orario della Florida del Sud: Miami, Everglades, Naples, Venice, Tampa, Palm Beach, e di nuovo Miami. Dormendo nei motel, che son così spudoratamente cinematografici, da intenerire il cuore. Come quando si viaggia al tramonto, con quella luce che accende il desio ai naviganti (non ai navigatori si intende) e regala colori che non si vedono altrove al mondo, ma solo lì, mentre guidi, e sei con lei, perché è lei che li tesse quei colori, mica il cielo, o la terra o il mare. Proprio lei. Ancora un giorno lì con te e per te. Come tu sei per lei.

domenica 25 marzo 2012

Le strade della vita

Prossimo post mercoledì 28 marzo (spero)







Vivo d’espedienti. Come ogni consulente. Specie oggi. E vivo nomade.
No, non perché sia messo così male da sopravvivere grazie alla pastorizia. Direi piuttosto che si tratta di un nomadismo progettuale, invece che andare dove mi porta il cuore, mi trascinano i progetti.
Che a volte sono istantanei, peggio di PIC, o di certe affermazioni triviali sull’uso della sessualità.
Altre volte invece ti creano consuetudine. E dipendenza. Spesso geografica, o spaziale se preferite.
Così nella memoria si creano delle sacche: quelle che legano percorsi e luoghi a ricordi precisi. Perché il professionista onesto e competente finisce per legarsi alle persone più che ai risultati, che ovviamente contano, ma che non fanno carità.
Ora nel percorrere per l’ennesima volta il Grande Raccordo Anulare, nel tratto che da Sette bagni conduce a Fiumicino, certamente puoi immergerti nella sofisticata musica di radio 102.7 –no Costanza, non parla della Roma e neppure dell’Inter, solo di nostalgia: un pezzo recente, uno dei tuoi ricordi così puoi cantare o scioglierti- ovvero puoi cercare di assorbire qualche cosa dal territorio intorno, e restare ammirato della fantasiosa poesia che ha ingemmato la Capitale di paesini dai nomi da fiaba: Torbruciata, Casalumbroso, Selvacandida,  Montespaccato (noi lomardi molto più squadrati e pragmatici: Quartoggiaro, Quinto Romano, Sesto San Giovanni, Settimo Milanese a misurare la distanza dal centro, oppure Saronno, Cologno, Paderno, Turate: nomi che non capisci se siano aggressivi ottativi o decrizioni di stati d’animo).
Perché c’è da imparare dai percorsi del lavoro: quelle strade che segnano la vita così che puoi dire gli anni di Scandicci e del tratto SassoMarconi-Rioveggio-Roncobilaccio-Barberino, quelli di Padova, quelli di Modena e così via.
Sono strade che si sono scavate dentro di te e trattengono con loro ricordi che sbattono nel vento e che riappaiono come allegri fantasmi quando la vita ti riporta su quei medesimi percorsi.

giovedì 22 marzo 2012

Nascondino - i racconti del giovedì





E’ come quando giochi a nascondino da bambini. Ti nascondi. Ti fai piccolo. E aspetti. E non viene nessuno. Dapprima sei contento. Ti rallegri. Sei stato furbo. Non ti troveranno mai. Poi ti preoccupi. Ti spaventi. E poi capisci. Non ti cercano. Non ci hanno mai provato. Esci e scopri che stanno giocando ad altro. Se ne sono anche andati via. E tu sei niente. Dimenticato. Non ti guardano neppure. È stato lì che ho capito. Un segno per tutta la mia vita. Neppure ai margini. Perché lì c’è dignità. Neppure ultimo, che l’ultimo comunque ha un suo senso, ottiene rispetto. Semmai penultimo. Mai menzionato. Così. A sciabordare, pallido e slavato, nel campo cieco, nel pattume.  E così ho vissuto. Un predestinato? Forse. Forse da quella volta ho forzato io la mano al destino. Mi ci sono tuffato invece che cercare di sfuggirgli. Gli sono corso incontro, urlando, la sciabola sguainata. Perché non volevo fare la fine del codardo, ucciso con un colpo alla schiena. Rimorsi? Non so. Non oso neppure farmi la domanda per paura di non conoscere la risposta. Qualunque sia è sbagliata. L’errore perfetto. O l’orrore? Come questa sedia qui, abbandonata sul ciglio di un marciapiedi, senza una scopo specifico. Chissà, o forse sì: è la casa di qualcuno più disperato di me. Perché la mia miseria non è esteriore. No, anzi. Ho fatto carriera: ero così insignificante, gelatinoso che ce l’ho fatta a insinuarmi tra le fessure del sistema. A espandere la mia mollezza, a sfruttare la mia trasparenza, per salire. E apparire all’improvviso in posti che nessuno avrebbe mai creduto. E’ dentro che sento il vuoto. E’ quando chiudo la porta di casa mia, che ripiombo in quel buco: torno nell’angusto anfratto nel quale sono sparito per sempre, in quel mondo in cui nessuno verrà mai a cercarmi. Perché per uscire dal sepolcro, per tornare alla vita, ci vuole una voce che ti chiami per nome, che lo gridi il tuo nome, forte, che ti dica “vieni fuori” e ti aspetti, lì a braccia spalancate. E questa voce io non l’ho ancora sentita. C’è, sì, da qualche parte c’è?  Non posso immaginare che tanti si imbroglino con così assurda violenza. Perché li vedi, le facce da salvato,  gli sguardi da chiamato. Li vedo camminando. Anzi, scivolando inavvertito dentro la folla. Finché verrà un giorno, sì, lo so, lo devo sapere che verrà. Verrà un giorno in cui due occhi mi cercheranno, si fermeranno su di me, non per accidente, ma per volontà. E quello sarà il richiamo. 

lunedì 19 marzo 2012

Le truppe di Gudbrando




C’è questa storia di Gudbrando, che Costanza (ve la ricordate? Ne abbiamo parlato qualche giorno fa) ricorda spesso: il montanaro che scende in paese per vendere una mucca e che, non essendoci riuscito, riesce a barattare, sempre peggiorando la sua situazione, la vacca con, nell’ordine: cavallo, maiale, pecora, capra, oca, gallo, spiccioli, cena e vino, rientrando così a casa a mani vuote.
Scommette con un vicino sull’amore della moglie, che il vicino vorrebbe infuriata per la perdita della mucca, e vince un sacco di monete d’oro.
Ora i maliziosi ci vedrebbero una arguta truffa messa in atto dalla smaliziata coppia ai danni del grullo vicino, Costanza ci vede l’amore incondizionato della moglie che ad ogni scoperta del danno del marito reagisce trovano il bene per lui e per lei.
E’ vero: un amore che si fida. Questo è il messaggio. E la morale della favola sta nel fatto che questo amore è generativo: produce un sacco d’oro.
E Costanza aggiunge di avere organizzato le truppe di Gudbrabdo, le marines del matrimonio, una sorta di corpo scelto, di guardia napoleonica, di legione straniera dell’amore incondizionato.
Qui c’è il valore aggiunto: che è e deve essere come tale reciproco.
Perché se è vero che, come sempre racconta Costanza, l’eroismo di aver lavorato in ufficio, essere passati a ritirare due figli a scuola, comprare il pane, salutare la nonna, sarà tale per noi che lo facciamo una volta all’anno,per voi è la semplicità quotidiana, non state a dirci: beh già che c’eri potevi passare anche in tintoria…. che ci rimaniamo male….. un po’ come quando voi ci comunicate che si è rotta la lampadina del frigo e mentre noi già diamo istruzioni su come allertare la guardia nazionale, la protezione civile, il CEO di Elettrolux, voi, che avete già sostituito il pezzo vi aspettate solo un complimento…
Perché Gudbrando chiama ad un altro eroismo: quello del rispetto sino al disprezzo delle proprie rivendicazioni, sino al sangue di una lingua morsicata per non rispondere, che ce lo sappiamo che i più deboli siamo noi, e che voi potreste non perdere una occasione per farcelo notare lamentandovi sulla spesa (ci siamo dimenticati di sicuro di qualche cosa) come sull’ordine in casa (ma il piatto quando pensi di metterlo via?). Ecco, provate a perderne un po’ suggerisce la moglie di Gudbrando (si chiamerà mica Gudbranda?).
Chissà mai che si vinca un sacco di monete d’oro?

Ecco due versioni, purtroppo solo in inglese, della storia. Se ne trovate in italiano grazie per la segnalazione

sabato 17 marzo 2012

Cattivo






Sono cattivo. Lo constato. Non lo dico per sentirmi dire che non è vero. Forse anche. Ma è un effetto collaterale. Lo affermo per liberarmene, perché vederlo nero su bianco disgusta e allontana. Lo spero.
Provo rancore e vendetta. Verso chi m’ha fatto torto. Più d’uno. E con crescente riduzione della pazienza. E avrò anche ragione. Ma se è vero che mi fido di chi ha detto “ama i tuoi nemici” coerenza vorrebbe che lo facessi.
Invece faccio fatica, recalcitro, sfuggo. Mi sorprendo a sognare vendette epiche, punizioni mitologiche, anche violente: ossa rotte, nasi spaccati, crani aperti. Sangue. Dolore.
E me ne ritraggo disgustato e atterrito, ma sempre un secondo troppo tardi, quando ormai il sangue è gustato in bocca. E l’odio cattura gli occhi e li accende.
Brutta bestia questa che sta accovacciata alla nostra porta e rode e ringhia, ma sommessamente così che non ce ne accorgiamo e penetra nelle piccole fessure della roccia, e giù fin nel cuore e comincia suadente a elencarti i torti, cominciando da quelli veri, oggettivi, dalle palesi meschinità, cattiverie degli altri. Perché ti hanno ferito, perché sono cattivi anche loro. E lì si fa strada quel pensiero che cresce e prima annacqua poi si beve l’amore.
Che quando vedi elogiare chi conosci come rapace, quando vedi millantare conoscenza profonda, tu che in quel cuore apparentemente così lucente sei sceso per trovarci rapina, omicidio, violenza, crudeltà, avarizia; tu che hai visto dietro le quinte e hai scoperto un animo tagliente, egoista, spietato, ti sale alla gola un acido crudo e volgare. 
Ci sono volte in cui me lo devono strappare dalla faccia questo rancore, che viene così bene pensare male, prendere per il collo chi parla bene di coloro che tu consideri farabutti, assassini, truffatori e vedi scritto che sono gran brave persone: ma quando mai? Ma le hai conosciute da vicino? Ci hai mangiato con loro? Ci hai lavorato? Le hai viste nelle loro depravazioni? Nelle loro debolezze acide?
Ecco che è allora che ci vuole il colpo d’ali, lo slancio dell’angelo.
Per smettere di essere cattivi e iniziare a seguire la strada giusta.
Si fa fatica. Ma si può fare.

venerdì 16 marzo 2012

Il valore di Costanza




Ciò che ammiro di Costanza Miriano è la semplicità e il coraggio. Quel candore con cui sbaraglia l’arroganza, la profonda genuinità che sgorga dalla vita vissuta.
Ho avuto la fortuna, e l’onore, di sentirla tre volte parlare a Milano, e ogni volta –e devo dire con crescente sicurezza e ricchezza- sono rimasto stupito di queste sua qualità, rara e invidiabile, di confondere chi vorrebbe stendere pregiudizi ideologici sulle sue argomentazioni concrete. Che si tratti di personaggi televisivi o di convenuti ad un incontro.
E la invidio per questo, decisamente, perché in me prevale quella sanguigna voracità che nasconde la ragione e la inganna, e quando vedo certe frasi o sento certi luoghi comuni, imbevuti di ideologia, non so se più tracotante o ignorante, perdo il controllo.
Lei no, si ritrae, sorride, accende lo sguardo e risponde partendo da “io”, non però con fare violento e auto referenziato. No. Tutt’altro. Piuttosto per moderare, per condire con l’esperienza quotidiana, ripensata e interiorizzata ad un livello profondo di saggia consapevolezza, quel suo affermare, senza fare un passo indietro, quel valore che non si può non difendere, come un bastione decisivo, una vetta che se persa trascina con sé la sconfitta.
E lascia cadere, con la generosità di una madre, lampi che illuminano la mente e restano lì, a segnare un percorso come quando ti dice, battendo sul tempo millenni di teologi, che maschio e femmini ci creò sì,e a sua immagine e somiglianza e se l’immagine ce l’abbiamo dalla nascita, beh la somiglianza dobbiamo conquistarcela fino alla morte. Verità così semplici che nessuno ci aveva pensato. E per questo così decisive.


Chi è Costanza? Se non la conoscete andate quae qua…

giovedì 15 marzo 2012

Per sommi capi - i racconti del giovedì





La passione è una bestia che si controlla facilmente, non fosse che per orgoglio: il sentimento no.
Con la passione ci giochi, l’accarezzi in coda al semaforo quando ti diverti a fissare e sorridere dentro le macchine dove un’affascinante ragazza accetta e ricambia la sfida dei tuoi occhi. Felici entrambi che tutto svanirà pochi secondi dopo, quando il rosso della passione si dissolverà nel verde del semaforo. Forse la insegui, giocando più con te stesso, e lei sembra accettare fino a quando un (im)provvido autista ti sbarra il passo e ti riapre le porte del tuo universo. Il sentimento ti scardina: come un vento, che sorge gentile per trasformarsi in tempesta, ti piomba addosso proprio quando gli vai incontro allegro e presuntuoso e ti rovescia come un guanto. Perché si appoggia sul tuo orgoglio.
Ti è successo: proprio quando credevi che non sarebbe mai potuto accadere: ti sei innamorato di un’altra donna. Ma non è una questione di carne, di quegli ardori che entrano dagli occhi e, grassi, scivolano giù oltre lo stomaco per fermarsi tra la gambe e scuotere. No: questo ti si è fermato nel cuore, come la piuma bianca di Forrest Gump, e non sembra volersene andare via. Sta lì, quasi nascosto, timido, ti sgrana gli occhi contro, stupito e svagato, come un bambino infreddolito che ti si ripara addosso e teme solo che tu lo voglia scacciare via, nel cuore dell’inverno. E come si fa a mandarlo via, nel gelo? Nella tormenta? Com’è facile crearsi degli alibi quando non vuoi guardare in faccia la realtà?
Che farai? Ti guardi addosso smarrito e non trovi una soluzione. Una sola soluzione esiste: è proprio quella che escludi in partenza. Perché credi di averne il coraggio.
E’ successo per caso: come avrebbe potuto altrimenti?
Non te l’aspettavi: tu così imbolsito nella tua sicurezza, nella tua spocchiosa certezza di non commettere errori, né tanto meno di aprire la strada a debolezze che annidandosi nella tua vita potrebbero mettere in forse il castello di moralità che ti sei costruito intorno. Eppure è successo: un granello di sabbia nell’ingranaggio, una concessione alla vanità, o forse soltanto la trascuratezza, e quel vento ha trovato lo spiraglio attraverso il quale insinuarsi. Come serpe nelle fessure del muro.
Una battuta lasciata cadere forse più per riempire un fastidioso vuoto che per comunicare una notizia importante: “la prossima settimana sono a Firenze per lavoro”. “Allora la invito a cena”. Un brivido. Hai lasciato cadere le cose, ma queste sono rimaste in piedi. Hai avuto l’impressione che lei insistesse e un primo sorriso, diverso dal solito, non dunque di serenità, ma quasi di vittoria, ha leggermente piegato le tue labbra. Non ce l’hai fatta a tirarti più indietro. Perché? Per vanità? Per il desiderio di sentirti desiderato, tu, proprio adesso che senti il tuo corpo disfarsi con dolcezza non sotto i colpi di un’età che scappa, non puoi pensare questo quando i quarant’anni sono ancora una frontiera lontana, ma per il leggero picchiettare del lavoro, come di quelle attività che senti così tue, che ti lavorano l’addome e i polmoni, depositando nel primo quello che sottraggono ai secondi. Desiderato poi? Per che cosa? Per chi? Che cosa è stato? Che cosa ti ha fatto abbassare quella tua guardia di cui sei così orgoglioso? Forse un orgoglio più grande? La pretesa di ricostruire? Di essere importante per qualcun altro, anzi, diciamolo con chiarezza, per un’altra donna?
Ecco sì, me ne accorgo cogliendo quel gesto, quasi impercettibile, di fastidio che ha preceduto il tuo sorriso: una venatura di tollerante ironia, come per allontanare -da chi: da me? Da te?- il sospetto. La vanità sa scegliere strade impervie e difficili per perforare l’anima e riemergere ammantata di sentimenti innocui: è quella macchia da sempre impressa nelle profondità dell’intimo, che spinge te, come ogni altro uomo, a cercare un’affermazione. Di più: l’affermazione. Un continuo, inarrestabile cammino che ha bisogno sempre di nuovo consenso, perché quello rinnovato non basta più. E’ questo che ti è sembrato di vedere? La caccia? Banale! Proprio per questa desiderata! Essere di nuovo dio per qualcuno?
Di certo, da quel momento è cambiato qualcosa. Hai atteso il giorno della partenza con la stessa ansia con la quale da bambino aspettavi la mattina di Natale. In macchina giocavi con la radio. Fermo all’autogrill, le briciole del panino ancora sulla barba, il respiro infastidito dalla puzza di fumo che inondava il locale, hai avuto una esitazione. Ti sei fermato con il telefono in mano, il numero già composto sul visore, il dito pronto a premere il tasto. Che cosa hai visto? Qualunque cosa fosse, non è stata più forte della tua agitazione. Hai pigiato, la telefonata è partita, lei ha risposto. Un po’ fredda per la verità, quasi distaccata. Hai avuto l’impressione che si fosse pentita di ciò che ti aveva detto solo pochi giorni prima. Hai avuto paura: non tanto di aver perduto qualche cosa che ancora non avevi, quanto di aver sprecato la tua sicurezza in un sogno che non aveva radici. Ti sei preoccupato più per il tuo orgoglio che per la tua tranquillità. Ti sei visto trascinato e deriso dalla tua vanità, gettato in mezzo alla piazza, umiliato, beffeggiato. Hai avuto paura.
La sua voce si è raddrizzata, ammorbidita, forse era solo la tua medesima tensione, la fatica della costruzione, un momento poco adatto. Avete combinato per la sera dopo. Ancora una giornata di attesa. E’ stato lì che hai cominciato a crearti alibi, a ingannarti con l’innocenza e la semplicità di una cena con una cliente, affermazione peraltro incontestabile. Un’angoscia di segno inverso ti ha allora assalito costringendoti a sedere. Un pensiero martellante che ha cominciato a combatterti ti ha persino tolto la voglia di mangiare. Te ne sei andato di filato nella tua camera d’albergo e ti sei buttato sul letto, la televisione accesa, fingendo di sfogliare libri e appunti di lavoro, come per prepararti alla giornata seguente. La cui sera è calata di schianto. Una mano che scuote i capelli. L’altra che chiude la porta della stanza. Il cielo strina di colori: brucia e sanguina al contempo. Come te. Un vente leggero si porta via il tuo onore. Bastava così poco: l’avresti creduto?
Hai preso l’auto, acceso la radio prima ancora di mettere in moto, e tutto ha cambiato velocità. La strada è volata via fino al parcheggio dove vi sareste incontrati. La musica è più galeotta dei libri: non so se avessi scelto apposta la voce di Michael Pfeiffer o se è stato tutto un caso, ma mentre attendevi, seduto in macchina, anche impaurito, guardando ogni vettura che ti si affiancava per riconoscere lei, quella My funny Valentine ti ha confuso ancora più le idee al punto che hai finito per lasciarle da parte e affidarti al cuore, che non sa spesso dove va. Finalmente lei è arrivata.
Sorride. Vi date del lei. State lontani. Sali sulla sua macchina. Cominci a parlare: lento, distaccato, professionale. Non sai che cosa vuoi. Neppure lei probabilmente. Arrivati. Parcheggio. Due passi. Il ristorante. Ordinate. Parlate di vicende ai margini; poi il cerchio si stringe: la tua vita, la sua vita, i ricordi, il passato, il presente. La voce ha cambiato tono. Uscite. E’ ancora presto. Si fa due passi per le stradine del centro. La temperatura è morbida. Lei ti cammina vicino, ti verrebbe quasi voglia di prenderla sottobraccio. Resisti. Vorresti fosse lei a farlo. Non lo fa. Ti dispiace. Ridete. Ti riporta alla macchina. Le avevi preannunciato un regalo, nulla di personale, solo un libro del quale avevate già parlato e che è collegato in qualche modo alle sue vicende passate. Glielo dai. Vi salutate. Lei si sporge e ti bacia sulle guance. “Ci rivediamo?” , ti chiede. “Se le fa piacere”, abbozzi ed aggiungi come per difenderti, “sarò qui di nuovo tra quindici giorni, se è libera e lo desidera mi chiami”. “Senza dubbio”, risponde e invece il dubbio comincia già a morderti.
E’ già tutto finito. Eppure quell’attimo nel buio, illuminati di taglio dall’insegna dell’albergo, mentre siete rimasti vicini, ti ha lasciato una ferita profonda. Come nei film avresti voluto fermare il suo movimento. Sporgerti piano anche tu in avanti e con delicatezza baciarla. Quell’attimo congelato in cui gli occhi si guardano interrogandosi e scorgendo gli uni negli altri angoscia e desiderio, ma di nuovo non una sensazione forte, carnale, quando una tenerezza infinita. Ecco, quell’attimo che non può che accadere una volta tra un uomo ed una donna perché poi tutto sarà differente, qualunque sia la direzione che le vicende prenderanno. E’ questo che desideri? Vivere una scena che ti è stata rubata nel passato? Essere protagonista di una nuova storia d’amore? Non lo sai neppure tu: ti affascina la sequenza di fotogrammi. E dimmi: che cosa sarebbe accaduto dopo? Non ammetti che puoi pensarci. L’amore oggi è merce al dettaglio e tu non vuoi comperare. La dolcezza è padrona più crudele della vigliacca passione: quest’ultima molla la presa quando la scuoti al mattino, la prima non morde neppure, scivola dentro. Non ti era mai successo. Accenderti sì, è la natura che si agita e ti vantavi di metterla a tacere, di saper voltare lo sguardo, a volte con un secondo di ritardo, al punto che l’immagine ti rimaneva addosso, non per molto però. Adesso invece guidi piano nella notte toscana, risali lungo l’autostrada declivi secchi e crudi mentre rientri in albergo. Ascolti una musica che tormenta: l’hai scelta tu questa volta. La stessa voce della stessa Michelle Pfiffer che canta ancora My funny Valentine: lo stesso struggimento, no anzi: diverso. Profondo, rosso e rumoroso. E tu non sai spegnere quella melodia così come non riesci a tagliare una vicenda che non è che all’aurora eppure scalda come se fosse a mezzogiorno. La colpa ti macera dentro, la ricacci cercando di annegarla con un fiume freddo di giustificazioni. In realtà aspetti come un bambino che l’incontro si ripeta, che quel piccolo amore cresca. Il sonno ti sorprende come un ladro, più per pietà sua che per tua scelta. Ma puoi ancora scegliere ormai? 

martedì 13 marzo 2012

La viola di primavera






Poi la incontri un giorno, un po’ come la viola di Vecchioni, mentre svolti l’angolo e il vento, ma sì questa volta un po’ malinconico, ti sfiora i capelli e li spettina, quelli che ti son rimasti e si son argentati.
E ti congela più di un Grand Soleil perché ti scende pian piano dentro nel cuore, come la lama che Frodo si prese a Collevento. Che l’effetto è poi quasi quello. O invece è la causa.
Così ti accorgi che tutto diventa più veloce, e ti sfugge. Che i gesti che prima ti sembravano facili diventano una sfida. Che la sveglia al mattino sembra suoni sempre più presto, quando invece una mano pietosa la sposta di poco avanti tutti i giorni. C’è che si smorza l’energia, le idee si sfarinano, e ti sfuggono a metà, lasciandoti come un adolescente abbandonato al primo appuntamento.
E i nomi, mio Dio, i nomi, come il mestolo di Barney, si confondono come le foglie secche travolte in un giro di valzer dal tempo che passa e cancella, non tutto però che sarebbe facile, ma smozzichi, come un cancellino su una lavagna cancellava le scritte –fatte col gessetto che urlava- a tratti lasciandole sbiadite, incompiute, brandelli di ricordi come muri mozzati dalla violenza. Che poi fossero solo i nomi, ma capita sempre più spesso che nel tragitto tra stanza e cucina, tutto svapori, e come una nebbia che scende lieve e massiccia,  una cortina si stenda sul pensiero, e resti lì, perplesso, interdetto, arrabbiato, a inseguire e capire che cosa accidenti sei venuto a fare lì, senza trovare un filo, per quanto sottile.
Invecchi. Banale. Semplice. Anche bio. Cioè naturale. Capita. A tutti. Il mio vecchio parroco diceva che l’Alzheimer colpisce tutti, chi non lo soffre è perché muore prima. Come in quella barzelletta in cui lui, anziano, stupisce lui, giovane, perché chiama sempre la moglie “tesoro, amore, dolcezza, gioia” e poi confessa di aver dimenticato da anni il suo nome.
Eppure di fronte a questo scivolare lento e anche dolce, ci sono due opposti e una soluzione che può dare senso, ordinare, rimettere a posto sulla parete il quadro che qualcuno ha smosso:
da un lato la rabbia, con chi non si sa, per questa decadenza che graffia; rabbia che può spingere fino al veleno del giovanilismo sfrenato: cambiare tutto per non riuscire a cambiare se stessi. Illudersi di essere padroni della propria vita distorcendola, che questo sì ci riesce bene e lo sappiamo fare: buttare tutto all’aria e perderla questa vita, per finire a elemosinar carrube ai porci;
dall’altro la rassegnazione che conduce con lieve passo alla disperazione, forse alla depressione. Che poi è una forma di rabbia diversa, ma del pavido, di chi non sa neppure sfidare il mondo e se stesso e implode, crudelmente spegnendo il mondo intorno a sé.
E poi c’è il sorriso, che però ci vuole fede, se non altro nella vicenda umana, che ti porta a riallineare la vita cercando la quadra tra gli obiettivi e le risorse, che son sempre meno, più asciutte, più sobrie. Con il loden insomma. Tecniche e moderate.
Per capire che ogni età della vita prende spessore solo se all’interno di un quadro ampio, di uno scenario profondo, e che tutta questa fragilità, che ci accompagna sempre, e che forse solo superato il decimo lustro appare con una violenza salutare, sta lì a dimostrare che se lo vogliamo siamo sempre bambini. Non conviene dunque ribellarsi o di schianto girare la faccia e fuggire via, lasciando lì solo un corpo che si prosciuga: perché questo gesto di superbia spalanca l’abisso.
Meglio comprendere che questo regalo è lì solo per mostrare che da soli non andiamo lontano e che ci conviene cercare una guida che di questa debolezza sappia fare un capolavoro.

lunedì 12 marzo 2012

La coda




L’italiano è fisicamente impossibilitato a fare le code. È contrario alla sua natura. C’è una ragione ontologica nascosta per cui la coda lo sfida. Sfida chiunque abbia sangue italiano nelle vene, anche se in un modo diverso: l’uno vede nella coda l’icona della giustizia dell’affermazione morale delle regole, dell’ordine; l’altro lo identifica come un oscuro,  reazionario  e irragionevole limite ai suoi privilegi. Privilegi? Si: l’essere più degno, più furbo o solo più feroce degli altri. Deve arrivare primo, deve passare avanti. Farsi notare. Urlare il proprio io. Affermarsi. Ecco, la coda è ciò che  è rimasto all’italiano per gridare che esiste, che  è diverso dalle masse.  Cerco di essere paziente eppure poche cose mi irritano fino all’incontenibilità quanto le violenze perpetrate nelle code. E qualche volta scatto. Ma l’italiano, il romano in particolare, sa sempre volgere mancanza di rispetto a suo vantaggio, facendoti sentire in colpa. Così quando rimbrottai un elegante e distinto professionista che, senza neanche averne il titolo, mi erasgusciato davanti nella fila per l’imbarco riservato agli “appartenenti al club Freccia Alata” mi beccai questo sarcastico replica “ Se ha tutta questa fretta..”
Fantastico esempio di manipolazione intellettuale tipica del nostro popolo: mai cedere alla tentazione di ammettere l’errore e scusarsi. Piuttosto attaccare che chiede il rispetto delle regole dipingendo entrambi come un aggressore alla libertà, come un’imposizione fascista che solo un invasato egoista può voler pretendere di far rispettare.

domenica 11 marzo 2012

Rieducazione alimentare




Una delle prime rieducazioni messe in atto da mia moglie nei mie confronti è stata quella alimentare. Sono figlio di madre marchigiana. Per la verità nata a Milano, ma con genitori fermani. Che si pretendeva meridionale nella cucina. Mentre in realtà abusava solo di grassi e unti. La mia prima bistecca alla griglia l’ho mangiata da fidanzato. Prima solo carne cotta nell’olio con ramo di rosmarino, che detestavo visceralmente.
Uno dei cambiamenti più drastici e rapidi apportati alla mia vita dal matrimonio, è stata la funzione digerente: prima consumavo settimanalmente quantità semi-industriali di bicarbonato di sodio e soffrivo di cefalee indotte dall’abuso di burro. Poi, disintossicato dai grassi insaturi, e dai fritti, ho gettati sul lastrico la Solvay azzerando il consumo di quella schifosissima, ed efficacissima, polvere digestiva. O più che altro vomitativa.
Ho così scoperto un mondo nuovo, fatto di insalate, sughi leggeri, condimenti virtuali. Io che prima venivo ingozzato di cervella fritta, fegato imbevuto d’olio, lingua salmistrata, ho iniziato a magiare zucchine, pollo allo spiedo, ravioli in brodo, tagliatelle al ragù. Un ragù onesto, emiliano, asciutto, niente a che vedere con quello che galleggiava in una poltiglia oleosa più simile alla disastrosa marea della BP che al sugo di uno chef.
Non che mia madre mi propinasse schifezze. Anzi. Gustosissime pietanze. Tali da creare strati di patina sulle coronarie però. E di ridurre all’impotenza l’azione dei succhi gastrici più volti scesi in sciopero per maltrattamenti.
Perché del matrimonio tutto va vagliato ed esaminato. Che se mi fossi fossilizzato sulla famosa “cucina di mia madre” (come faceva da mangiare lei!) probabilmente avrei qualche chilo in più, qualche anno in meno, e molti litigi sul groppone. Che fa parte dell’amore capire la delicatezza di ogni piccolo gesto. Anche quello che trattiene il burro per rendere il filetto più grigliato.

venerdì 9 marzo 2012

Lampi di blog - repliche - la strada




“Che strada prendiamo?”.
Ogni volta che partiamo per un viaggio rischiamo un conflitto atomico.
Perché se non faccio questa domanda Franca comunque inizia a dire “vai a sinistra” ovviamente nel preciso momento in cui non posso più svoltare, oppure “ah, pensavo prendessi l’altra strada”, che è anche peggio. Se pongo la questione la risposta immutabile è “quella che preferisci” affermazione che ne linguaggio femminile significa “quella che penso io” anzi forse persino “vediamo se capisci quale io farei?”. E comunque è come scatenare l’inferno. Perché comunque sia l’altra sarebbe sempre stata più rapida. E io, che sono fumino, finisce che m’imbestialisco. Perché non c’è niente da fare al maschio italiano l’auto scatena gli ormoni. Se ne accorgono tutti. Salivo un po’ sprintoso per la strada che da Pont porta a Gressoney, senza infrangere il codice si intende, ma guidando attaccato alla strada, come si confà ad una pubblicità dell’Alfa, insomma da gran premio della montagna, senza rischiare però. E una figlia sussurra alla mamma “la prossima volta guidi tu”.
“Eh, già, glielo dici tu al papà”. “Uhm non posso, lo ferirei nella sua virilità”.
Ecco, fatto a fette dalla quasi diciottenne…

giovedì 8 marzo 2012

Quando c'è l'amore - i racconti del giovedì






Ma che ne sapete voi dell’amore! Mica dove andare a cercarlo nelle pieghe della vita. Vi vedo che mi guardate di nascosto, fingendo di fotografare il panorama dall’altra parte della baia. Ma state guardando me che ho il coraggio di mettermi in posa, qui su questo muretto. Dove inizia la mia vita. Perché questa foto farà il giro del mondo. Mi disprezzate. Non cogliete la mia bellezza. Non, non parlo di quella interiore. Quella non la conosco. Mi sfugge. Non riesco a stringerla tra le mani neppure quando al mattino mi sporgo dalla finestra per riuscire a vedere il mare giù dalla collina, nascosto dal fitto intreccio di palazzi sporchi, e mentre assaporo la prima sigaretta del giorno, cerco di non pensare altro che alla mia vita, ai miei sogni, e di scendere in profondità dentro di me. L’ho letto su una rivista: calatevi nella caverna della vostra anima, stanate il drago nascosto e ruggite alla vita. Io ci provo, ma quando mi chino dentro trovo solo dolore, delusione, sporcizia: insomma, la mia vita. E non riesco più a ritrovare il filo che conduce a me stessa. Quando l’ebbrezza supera il limite che posso tollerare, e che riesco ogni giorno a spostare più in là, quando la sigaretta sta finendo, quando sento il fischio del caffè, quando riesco a ritrarmi da questo guazzabuglio nel quale ho paura ad avanzare, volgo lo sguardo verso la mia casa e piango. Non tutte le mattine. Spesso. Perché in questo minuscolo appartamento, scavato nella presunzione di chiamarlo dimora, messo assieme con pezzi sghembi, diseguali, assediato da un ordine maniacale per dare dignità alle quattro carabattole che parlano di me, in questo ciarpame c’è la mia storia. E soprattutto il mio futuro.
E’ della mia bellezza esteriore che sono orgogliosa. Quello che mi lancerà verso un futuro dal quale vi sorriderà irridendovi e voi proverete invidia e vergogna. Guardatemi. Non ho paura a sorridere all’obiettivo. Tra un istante lo farò. E alzerò lo sguardo che ora tengo accorto e pensoso. Mi fa paura. Ma posso farcela. Rizzare il capo in un gesto di sfida al mondo, a San Francisco che sta alle mie spalle al di là del mare, e sorridere a questa vita che mi si nasconde di continuo. No. Non sono stata sfortunata. E’ un alibi che lascio alle sciantose che incrocio quando vado al lavoro. Piagnucolano millantando insuccessi provocati dalle circostanze. Invece io no, con orgoglio mi vanto di aver sbagliato tutto quello che potevo e che questa vita insipida, inavvertita, banale, che scivola tra le ombre della città, è il frutto della mia libertà. E dell’amore. Che non ho mai trovato inseguendolo sempre nelle persone sbagliate. Al punto che ormai mi chiedo, nei fugaci momento in cui scroscia dentro di me una consapevolezza morbida e tiepida, se non sia io quella che ha sbagliato a capire che cosa l’amore sia realmente. Eppure è così chiaro quando lo vedi in televisione. Entri in uno di quei bar e ne esci con la felicità. L’ho fatto. Sembrava così semplice. Ho scelto. Non mi sono mai fatta usare. Tutto ciò che ho trovato è un letto da rifare. Lenzuola da lavare. Toccava a me. E ogni volta un gusto amaro che nasceva piano, sommergendo quel senso di carne accesa e compiaciuta, e poi montava come un’onda gagliarda per non sommergere, ma accarezzare ogni cosa e avvolgerla e lascarle addosso una patina prima brillante poi via via sempre più opaca fino a diventare grigia come caligine. Ecco questo è il colore della mia vita: seppia. Come le foto che scolori artificialmente per fingerle vecchie. Io sono vecchia. Ma dentro, non fuori, che ancora gli uomini mi inseguono. E i vostri occhi. Spenti e giudici. Ve la farò vedere. L’ho deciso oggi, quando ho raccattato questo slavato ometto per convincerlo a venire qui a farmi queste foto, quelle grazie alle quali la mia vita cambierà. Gli sfuggirò dopo. Rientrati in città, lo lascerò a bocca asciutta. Dopo che mi avrà restituito la dignità regalandomi questi scatti.  Le stamperò, con cura. Nel corner del magazzino dove lavoro. Chiederò un favore. Me lo concederanno. Poi la più bella la metterò in cornice. E l’appenderò sul muro. E guardandola, ogni sera e ogni mattina, mi renderò conto di quello che avrei potuto diventare. E troverò quel filo che forse potrà condurmi via da qui.

mercoledì 7 marzo 2012

Dellamore





Tra tutte le frasi, lette e comprese, delle mie letture, che mi hanno dato più luce aiutandomi a capire la filigrana della vita quotidiana, c’è un pensiero di Jean Guitton (Sull’amore: libro sensazionale) che mi accompagna dal momento in cui, parecchi anni fa, lo incontrai. E mi sorprende come la sua essenziale semplicità, al limite del banale, di quel ordinario che nasconde le grandi saggezze, non sia dominio comune. Già questo dovrebbe farmene comprendere la profondità.
Dice dunque Guitton che quando siamo fuori di noi per la rabbia ciò che desideriamo è fare male. Senza alcun rispetto per l’altro. Questa è l’essenza dell’odio: ecco per non può esistere un odio santo, checché ne dicano in streaming pseudo comici predicatori. E che per noi è molto più facile fare male a chi amiamo di più, perché ne conosciamo l’intimità così nel profondo da sapere esattamente dove colpire per lasciare la ferita più profonda. Affermazione così corretta da avere un corollario immediato: quando vogliamo fare male a qualcuno che non conosciamo, ci attacchiamo a quei luoghi comuni che sappiamo possono ferire. Da qui certe offese che non hanno nulla di razzista, ma solo di becero. Come posso colpire duro la persona della quale non so nulla se non mistificando ciò che lo caratterizza? Quindi dagli al negro, al terrone, alla donna al volante, al fascista, al cattolico, al gay e così via: categorie utilizzate, secondo Guitton, non come offese razziste, ma come offese tout court.
Ora quando litigano marito e moglie, è lì che il coltello affonda con più profondità, perché la comunione è tale da lasciare ben poche parti dell’anima velate. E la familiarità produce quell’esperienza del dolore altrui da fornire, nell’impeto dell’ira, l’arma giusta nel momento giusto e mettere in bocca quella parola, che se ad un estraneo può apparire inoffensiva, tra coniugi assume la violenza di una mazza chiodata.
Il dramma, che la passione incollerita del momento nasconde, e c’è un che di diabolico in questo, è che l’unione è tale che ferendo l’altro, il colpo si riversa anche su di noi. E probabilmente va più in profondità, perché alla sofferenza si somma la vergogna.
Quando c’è: perché qui c’è la perla da scoprire. Provare rimorso, pentimento, misericordia per risalire insieme. Se prevale il rancore, il torto subìto, il desiderio di vendetta, è la nostra stessa vita che si sta sgretolando

lunedì 5 marzo 2012

l'incubo di ogni uomo






Se lo shopping fa tremare ogni uomo, il momento della cassa può creare ansie profonde, che neanche Freud saprebbe collegarle con la sessualità prenatale.
Già il carrello per noi è una estensione del corpo, che non lo molliamo neppure se ci sparano, causando spesso ingorghi da raccordo anulare, incapaci di abbandonarlo a decine di metri di distanza come fanno le donne mentre perlustrano come scout le corsie del super alla ricerca di esperimenti da propinare in famiglia.
Ma la cassa. Lì è il momento della verità.
Perché non appena si inizia la coda, la donna che è con te –che sia moglie o figlia- si ricorda che ha dimenticato qualche cosa.
E ti abbandona lì, solo, con il nastro, la spesa, e la coda dietro di te che ti sembra un mostro preistorico pronto a divorarti. I secondi allora scorrono lenti, come prima di una esecuzione capitale: e tu che sei lì teso come un condannato, continui a ruotare lo sguardo su tre punti in sequenza: la cassa, dove i clienti prima di te sembrano scivolare via con una velocità impossibile; la coda dietro di te dove sembra che tutti ti aspettino al varco per dirti: “e adesso che cosa fai bello?”; il supermercato da dove speri che come un deus ex machina emerga lei, trionfante, con in mano ciò che sembrava così importante da doverti abbandonare lì, solo, tra i lupi.
E come un thriller, quelli in cui tutto succede all’ultimo minuto, proprio mentre la cassiera sta dando il resto al cliente prima di te e tu già ti disperi e ti tormenti, eccola che arriva, fende la folla con una grazia virginea, depone sul nastro il prezioso bene, distorce il volto sin lì armonioso e sorridente in una smorfia sarcastica per dirti “visto? Te l’avevo detto! Uomo di poca fede!”.  
Che sia un incubo diffuso nell’immaginario maschile, lo conferma uno scambio di battute su Facebook dal quali estraggo queste due chicche. Senza bisogno di chiarire se siano voci maschili o femminili.

A me succedeva anche da piccolo. Mia madre mi lasciava alla cassa, calcolando il tempo che aveva ancora a disposizione sul tempo stimato dei clienti in fila e io ero abbandonato alla vigilanza del carrello. Non gliel'ho mai detto ma quei minuti passati da solo nel TERRORE che lei non tornasse in tempo sono stati il mio trauma infantile e ancora oggi ho degli incubi di quel genere, ogni tanto

Un marito e due figli maschi: da anni ho imparato che il genere maschile è assolutamente INCOMPATIBILE CON UN SUPERMERCATO. Quando ancora mi fidavo, a casa arrivavano buste di tutto tranne quello che serviva e che era sulla lista.