Quando i cinquant’anni sono stati raggiunti e superati con la velocità del suono di una sirena arrabbiata, tre sono le possibilità che rimangono all’uomo che non vuole rimanere ad attendere l’impatto indifeso e inconsapevole: farsi l’amante, farsi una macchina rossa, scrivere un blog. Dato che mi state leggendo (davvero? Mi state davvero leggendo?) avete compreso che ho scartato le prime due ipotesi. E per scelta volontaria e creduta, non certo forzata.

Ma che cosa e perché scrivere? Condividere, o l’illusione di farlo, aiuta spesso a sentirsi in compagnia di fronte alla piccole battaglie della vita: quelle grandi, si sa, le si può affrontare solo in compagnia di se stessi, senza nessuno scudiero o cavaliere al proprio fianco.

La prima delle sfide e quella che affettuosamente potremmo definire di san Giuseppe, che di fatto nomino mio speciale e personale protettore confidando sulla sua ironia e bonomia. In che cosa consiste questa sindrome? Nel sentirsi ovviamente il più imperfetto della famiglia dovendone invece apparire la guida salda. Non che con questo voglia affidarmi a una melliflua umiltà fasulla, l’autocompiacimento di sentirsi negare la denigrazione e gustare così una vanitosa ricompensa per la propria maliziosa modestia. Affatto. Lauto compiacimento può derivare solo dalla concretezza. Non che non sia vanitoso, tutt’altro: la vanità è sempre in agguato, come ben sa il diavolo impersonato da Al Pacino nel mondo degli avvocati.
Gli è che essendo proprio vanitoso e anche intelligente, so bene che l’ambizioso deve attingere a piene mani all’umiltà: per crescere, ambizione che può essere anche nobile e saggia, bisogna capire dove migliorare. E per capirlo non c’è che l’umiltà.
L’ambizioso vanesio e superbo farà una brutta e rapida fine.

Quindi qui sto: con una moglie tendente alla perfezione, pur con difetti marginali che provocano in me tanto irritazioni quanto ammirazione per la loro trascurabile banalità; con tre figli che, come recitano brutti film, hanno preso maggiormente da me i difetti, e quindi non posso accusarli di una eredità che ho trasmesso loro; con un lavoro che amo e che ogni mese mi sfida sempre di più, aiutandomi a non fare mai mia la sicurezza.
Di che scrivere dunque?

Della precarietà, della inadeguatezza che mi rende comico a me stesso, specchio delle cose che ho appreso e che rivedo, con squarciante veridicità, nel mio quotidiano.

sabato 5 ottobre 2013

La realtà delle opinioni, le opinioni e la verità: dove il limite? Quali le conseguenze?





Tutto è oggetto di opinione. Mi sta bene. È opportuno informarsi su tutto. Da qui a dare opinioni come se fossero verità….
Oggi basta avere una idea per sentirsi importanti. Idea poi…
Questo contraddice millenni di cultura e sviluppo umano.
Ma fa audience, e allora chi se ne frega!!
Purtroppo alla realtà frega qualche cosa e così alla verità.
Come diceva Ludwig Wittgenstein “di ciò di cui non si può parlare si deve tacere”. Invece dalla Zanzara alle radio, dai sondaggi on line alle chiacchiere da bar, tutti ci invitano a buttarci “che cosa ne pensi?”.
Che titolo ho per dirlo?
Mi ha colpito molto una vicenda recente: esce sulla prima pagina del Corriere della Sera una indagine sulle scuole con classi omogenee –maschili o famminili- nel mondo. Si scatena la bagarre: tutti a dire la loro.
Su quali basi? Come puoi affermare che ti piace o non ti piace se non sai neanche di che cosa si parla? Eccome se lo so, quando ero alle elementari eravamo tutti bambini!
Correva l’anno? 1967?  E vuoi usare questa tua esperienza diretta per dire la tua oggi?
Come se tu commentassi l’automobilismo usando come metro Fangio e Nuvolari.
Se lo facessi ti prenderebbero tutti i giro.
Ma qui no. Ti ascoltano.
Uno psicoterapeuta afferma che le classi maschili favoriscono la violenza dei ragazzi.
Curioso. Dagli anni Settanta la scuola mista è stata rapidamente introdotta sistema scolastico pubblico italiano in sostituzione dell’educazione omogenea precedente. Ciò vuol dire che da circa trent’anni, stiamo larghi, le uniche scuole omogenee italiane sono quelle che si rifanno alla pedagogia e ai valori del sistema Faes. Mai visto questo psicoterapeuta visitare uno dei circa 20 centri scolastici italiani Faes.
Su quali basi scientifiche afferma che i maschi diventano violenti?
Se non hai mai messo piede in queste scuole, mai svolto una analisi, mai parlato con questi ragazzi e ragazze, mai valutato i loro risultati, mai scrutato la loro vita e i loro comportamenti come fai ad affermare che non riescono a socializzare o a rapportarsi con un capo di sesso differente?
L’opinione oggi supera ogni cosa: tutto è lecito perché tutto può essere pensato. Siamo così liberi ed intolleranti da essere facili prigionieri del pregiudizio e dell’ideologia. Che è sempre contro e mai aperta a capire.


venerdì 30 agosto 2013

Faisbukkiamoci e ritwittiamo: come io vivo la rete.



Amo la rete e uso spesso i social per molti scopi, non ultimo quello professionale. Posso affermare con soddisfazione che negli ultimi sei mesi sono stato contattato da diverse aziende che mi chiedono un parere professionale e alcuni di questi sono diventati contratti di collaborazione.
Per questo voglio condividere qui alcune regole che mi sono dato, non certo con la pretesa che siano giuste, ma almeno che siano note.

Grazie a FB mi sono arricchito di nuove amicizie, e ho avuto la fortuna di scoprire persone squisite alcune delle quali ho anche incontrato di persona con una grande soddisfazione. Il social ci ha permesso di trovare e coltivare punti in comune e l’incontro personale di consolidarli e rilanciare. E ora sentirsi su FB è come ritrovare ogni giorno una persona davvero cara. E questo sia per valori personali sia per valori professionali.
Mi piace usare il social per provocare, per indurre alla riflessione prima me e poi gli altri. Mi insegna anche l’umiltà perché la prima reazione a volte è di forte supponenza: “come osa contraddirmi?” e a volte di risentimento “ma perché invece di ammirarmi mi attacca?” ma spesso, confesso: non sempre, grazie all’angelo custode riesco a ricondurre questo in un ambito di serena riconoscenza.
Però ecco proprio di ritenere che Fb sia il luogo del dialogo, non ci credo. Non credo di convincere nessuno argomentando su FB anche perché vedo pochissime domande –e dai tempi di Socrate chi domanda guida, chi afferma irrita- e molte affermazione ideologiche.
Mi son fatto l’idea che chi interviene lo fa perché è così convinto del suo punto di vista che si immolerebbe per continuare a crederci e quindi a sostenerlo. Invece magari il mio post aiuta, oltre a me, chi ascolta e non scrive.
Per questo dopo un po’, a volte subito, smetto di intervenire: per non moltiplicare a dismisura un ping pong sterile di affermazioni che il più delle volte vanno inasprendosi e avvolgendosi sempre di più di astio e di odio personale. E questo è peccato.

Provoco a volte con ironia e non sempre vengo capito: qualche volta è colpa mia qualche volta no. Capita.

Ritweeto e condivido ciò che mi stimola senza prima documentarmi sulla effettiva veridicità del contenuto. Lo so, probabilmente è scorretto perché rischio di diffondere calunnie. Diciamo due cose: a) mi fido della persona che ha postato la notizia, il link, l’articolo; b) non condivido o RT affermando che ci credo, ma per portare all’attenzione, per accendere una discussione. Ecco, sappia telo: quello che condivido non necessariamente lo… condivido, ma lo trovo stimolante, interessante, degno di attenzione, magari per essere smentito e rassicurare tutti. Credo nella discussione e nel dialogo, quanto credo almeno nella necessità di avere argomenti forti, valori non negoziabili ai quali non derogare, affermandoli con responsabilità e chiarezza senza brandire spade ma senza cedere di un millimetro. Dialogare non vuol dire dare ragione agli altri o non credere in nulla per paura di offendere. Rispettare la persona non  significa e non implica rispettare o accettare le sue idee. Se continui ad affermare che 2+2=5 io posso rispettarti fino alla fine ma devo dirti che sbagli e se non mi ascolti non puoi impedirmi di affermare che 2+2=4.

Amo Twitter quanto Fb, sto imparando ad usare Pinterst dove soprattutto propongo articoli interessanti e così con Linkedin e Google+, studio Happier, 20lines e mi cimento su YouTube….

E voi, come usate i social media?


mercoledì 7 agosto 2013

riceviamo e volentieri pubblichiamo...

come si diceva una volta..
l'amico Andrea Annunziata commenta il post di ieri e rilancia...





Ho letto con interesse lo spunto di Paolo che è anche il mio interrogativo di trentenne in cerca della sua anima gemella. La realtà alla quale mi sono accostato è che le ragazze di oggi, tranne alcune eccezioni, vivono nella illusoria speranza di trovare il partner perfetto. Quello che dice la cosa giusta al momento giusto, che fa la cosa che loro hanno in mente quando lo vogliono loro e se non lo fai non sei il loro tipo. Non cercano una relazione con una persona per conoscerla, bensì uno specchio nel quale riconoscere se stesse. Quello che vivono è quindi storie con persone idealizzate al fine di trovare la sicurezza in se stesse, nel momento in cui finisce la fase dell’innamoramento non riconoscono il proprio partner (che in realtà non era mai stato quello che la loro immaginazione creava) e che alla fine lasciano o peggio si tengono convinte che non è obbligatorio essere felici. Da giovane uomo consiglio loro di lasciarsi avvicinare, conoscere un uomo uscendoci, perché uscire con lui non vuole dire starci assieme ma valutare razionalmente se la persona con cui stai relazionandoti può essere quella giusta, soppesare le esperienze avute con questa persona e poi decidersi. L’importante è non pensare che le cose funzionino sempre come nel film “Harry ti presento Sally” dove la protagonista ci ha messo nove anni per dire di sì ad un uomo che sin da subito l’ha desiderata. La vita non è un film romantico e i treni non sempre tornano, il rischio è per tutti di trovare il partner giusto e per immobilismo vederlo andare oltre. In questo il film Will Hunting dice cose sacrosante le lascio come chiosa al discorso http://www.youtube.com/watch?v=KvonCt2KK2k

martedì 6 agosto 2013

Le ragazze di oggi



Bazzicando i social network in questo inizio d’estate trovo spesso post di ragazze e donne deluse dagli uomini: sono fiacchi, deboli, fissati, incapaci soprattutto di gestire personalità forti e decise.
Non mi riconosco in questa generazione di maschi e un po’ mi spaventa.
Ma soprattutto mi induce a qualche domanda, provocatoria lo so, che cerca di capire come mai la situazione sia questa e come ci si sia arrivati.
Ecco il mio contributo

Ma non è care ragazze che siete troppo aggressive e pretendete troppo?
Non è che bazzicate ambienti in cui il massimo che si trova è uno sbavante dongiovanni fragile ed ego referenziato?
Che cosa chiedete ad una donna voi maschietti?
Non è l’ora, cari maschi, di fare il salto e pensare non solo alla serata, ma al vostro futuro?
Madri, e padri, che cosa insegnate con la vostra vita ai vostri figli?
Siete tutti consapevoli che la felicità non è il piacere e implica fatica e generosità?




sabato 3 agosto 2013

Di amore e sesso



Mi piace provocare. Lo sanno bene i miei 24 lettori. Così qualche giorno fa su face book ho postato questa frase: “La differenza di interpretazione tra sesso e amore mi pare essere causa di molti problemi di coppia. Per le donne le due cose sono generalmente inscindibili, per gli uomini per lo più distinte e la prima molto simile ad un appetito”.
Non volevo ovviamente fornire un alibi agli uomini specialmente agli infedeli. Tutt’altro.
C’è che mi accorgo che spesso molti dolori sono causati dalla mancata comprensione delle differenze nel guardare alla vita.
Per la donna, che vive soprattutto di sentimento nel senso più nobile del termine, amore e sesso sono due facce della medesima medaglia. Inscindibili. Per lo più si intende. Mi dono perché ti amo.
Per l’uomo, che è spesso trascinato dagli istinti, non è così. Non secondo natura, senza voler generalizzare si intende.
Il sesso è spesso solo appetito, sfogo, affermazione. È ricerca di potere, riconoscimento, autostima, auto soddisfazione. Senza amore. È gesto crudo. Da bestia.
Così però tutto resta vuoto e destinato a generare dolore.
Bisogna salire di livello per superare questa frattura.
Capire che l’amore non è per me, ma per te. Anzi per noi. È una dimensione diversa che attira tutto a sé per donare. Tutto. È negare se stessi. Per ritrovarsi insieme. Per sempre.
Non si può amare così se non per sempre.
Se restiamo nella sfera dell’io dominante, dell’amore per me, per trovare soddisfazioni, allora tutto è dolore. Dal tradimento fatto per gioco, per sfogo, fino all’omicidio. Perché non trova in sé il senso che faccia trattenere il male.

Ce la faremo a capirlo e a viverlo?

sabato 15 giugno 2013

La teologia del calzino


Va bene mi sono rotto un dito. Il quinto del piede destro. Alla radice. Prima falange tecnicamente. Incidente domestico. Ho preso a calci, involontariamente, lo spigolo della porta finestra.
Ma non è che voglio parlare del mio piede, del mio zoppicare.
Voglio parlare di teologia. Passando dalla moda.
Che c’entra?
Sono estroso, che è un modo elegante per dire un po’ sballato, ma dal piede alla teologia? Mica un pippone sul sendo del dolore o della pazienza?
Ma sai che m’hai fatto venire una idea? Che prima pensavo ad altro? Ma… no… rientriamo nel seminato.
C’è che il dottore m’ha detto: trenta giorni di moderato riposo –moderato? Rispetto a che? e perché non modico allora?- e suola di legno. Di legno? Si: zoccolo duro.
Non ce l’ho. Rimedio coi simil birckenstock trovati all’ipermercato in offerta. Che siamo sempre in spending review e non vorrei dovermi rompere un altro dito per giustificare e ammortizzare l’investimento nei dr. School (si scrive così no?).
Però io devo andare a lavorare. Giacca e cravatta. Anche grisaglia o gessato. E il mocassino fa male. Per tacere della scarpa con la para alta tre dita che sì è rigida ma è come girare con gli scarponi da sci.
Quindi si impone calzino scuro e sandalone.
Orrore, grida il mondo! Orrore grida FB! Orrore grida l’omini che in TV detta la moda vestendo completi color trasudeciuck o spezzati giacca scozzese-pantalone arancione.
Orrore dicono tutti: non è questione di gusti, il sandalo con il calzino è ontologicamente orrendo. Orrendo in sé.
Affascinante.
Quindi vuol dire che esiste qualche cosa che è brutto in sé?
Ne consegue che esiste una verità che ci precede. Il calzino con il sandalo non è una questione di gusti, mi dicono tutti, non è la risposta ad una necessità. È una cosa brutta senza sconti. È brutta perché è.
Ne traggo conseguenze a valanga: allora posso ricercare questa essenza della bellezza e emettere giudizi, non personali e quindi condannabili, ma assoluti e quindi innocenti (com’è innocente l’arbitro che fischia il rigore per un evidente mani in area: rigore è quando arbitro fischia! O quando fischia Merkel, ma quello è tutto un altro rigore, sempre una penalità, ma di altra natura).
Allora se il mio calzino è brutto in sé, in quando esiste una bruttezza in sé e una bellezza in sé, posso affermare che non tutte le opinioni sono valide. Neppure nella moda. Che se ti vesti con la scollatura ombelicale poi qualcuno ti può far notare che oltre che inopportuno è pure brutto.
Che se mi metti la giacca verde pisello non fai tendenza solo perché sei famoso, fai comunque ridere.
Se il calzino è orrendo a prescindere, allora c’è un prescindere. C’è un bene, c’è un male. C’è una verità. Sull’uomo oltre che sul calzino.

E allora finisce che rompersi un dito è felix culpa. Perché ti fa riscoprire il senso della vita.

lunedì 3 giugno 2013

L'amore senza garanzie




Quand’è che abbiamo perso la voglia di avventura, la voglia di frontiera? Quand’è che abbiamo sostituito la speranza con la comodità, il ventre pieno, l’assenza di moto? Che peraltro ci hanno ingannato, perché questa calma piatta, questa fine della storia, non esiste, è menzogna: una volta fattici stendere sul divano, spenta ogni voglia di crescere, ci hanno prosciugato, gettato nell’aridità. E siamo rimasti prigionieri del divertimento, questo folle distogliere lo sguardo dalla vita per piombare nella sfrenata prigionia dei sensi.
Anche l’amore hanno violentato, privandolo dei suoi lati migliori. Non più un’avventura alla conquista della felicità, da raggiungere insieme, camminando passo dopo passo nella frontiera, ma un prodotto da banco, un inscatolato da supermercato, con tutto scritto anche la data di scadenza.
Trovo su Sette l'ennesimo test di compatibilità per coppie, questa volta alcolica: dimmi cosa bevi e ti dirò se sei compatibile con me.
E mi prende un dubbio: cercare a tutti costi chi fa esattamente per noi non è forse nuovamente un segno di egoismo disperato? Non vogliamo rischiare, né comprendere che amare è cambiare insieme per essere sempre più uno. Non esserlo in partenza.
Vogliamo trovare l’amore precostituito invece che costruirlo: nell’epoca in cu anche i mobili vanno assemblati pretendiamo che l’amore ci sia garantito prima, da contratto. Abbiamo dimenticato che amare vuol dire donarsi per migliorare insieme, per cambiarsi insieme, per insieme superare le asperità e diventare pienamente umani, l’uno per l’altra.
Vogliamo tutto subito. E garantito.
Con questo presupposto è la fine che è garantita. A breve. Basta sbagliare ad ordinare un cocktail.

lunedì 6 maggio 2013

Le scogliere del paradiso




 La memoria dei nomi svapora, ma resta il ricordo di cibi buoni e spettacolari panorami. Perché alla fine resta quello che conta e i nomi sono lì per volare via nel vento che spazza l’oceano e risale per giocare con i ciuffi di sterpi che tengono stretta la roccia perché non ceda alla tentazione e si tuffi in quel mare che spiega che cosa sia il blu, concorrendo con il cielo in una gara a stendere i colori più intesi che tu abbia mai visto.

Siamo a Big Sur, sulla strada che cola giù da Frisco via Monterey e rotola accarezzando il mare fino a Los Angeles, altro mondo, più modaiolo quanto qui è rude e intellettuale, di quella scienza applicata che ha generato la Silicon Valley che qui si nasconde dietro la prima fila di montagne.

La strada che qui costeggia l’oceano che rugge, ma pacato, quasi per prenderti in giro, sembra uscita da un film. O forse è il film che c’è entrato dentro e non ne è più uscito. Sculetta allegra e sbarazzina, decisamente maliziosa mentre ti invita a percorrere sempre un
miglio in più, e ti ubriaca e alla fine ne resteresti così prigioniero da non sapere più dove sei né perché ci sei e tutto svaporerebbe in una follia da eccesso di bellezza. Ecco, deve aver visto una cosa del genere kant quando gli è venuta ‘st’idea del Sublime ch’è una bellezza così violenta che non può non condurti a Dio.

Troviamo la forza di fermarci, e non sapremo mai cosa c’è dietro quella curva che invita e tenta.
Giriamo la macchina e rientriamo verso nord, dove ci aspetta Frisco che non abbiamo ancora visto. Ma la fame incombe e ci fidiamo di un cartello dipinto che invoglia. Fuori dal ristorante sono parcheggiate almeno 10 Corvette decapottabili, la versione locale della Ferrari. Un ritrovo come da noi si fa con la Cinquecento, la Topolino mica quella di adesso.  


Pranziamo sulla scogliera, vista paradiso. E ci fanno la foto due buffi americani che si mostrano
gentilissimi da tavolo di fianco. 



Ci chiedono di ricambiare il favore. E come te lo dimentichi un ristorante così che ti spalanca il cielo e lo confonde col mare e con l’amore che tutto fa rima. E ti ricorda che la bellezza vera è quella di stare con lei. Ancora e ancora.

Per forza poi che ti dimentichi del nome del locale!

Nota: lo so, si dice ruggisce, ma se rugge l’ha usato Foscolo posso usarlo anche io.

sabato 4 maggio 2013

Le indigestioni di Salem






Ora non ricordarti il nome di un ristorante non è un dramma. Ma se vuoi parlarne sarebbe meglio che te lo ricordassi. Invece niente.  Un buco unico. Anche Franca. Conta è vero ricordarsi quello che è successo e che definiremo Salem o l’ingordigia. Salem sì, vicino a Boston, ma non quello delle streghe, dove i protestanti puritani fecero una strage, ma un’altra cittadina che porta lo stesso nome. Per farla breve c’era questo ristorante, di una catena, che faceva pesce. Buono. Ci sediamo ignari, era una delle prime volte negli States, e ordiniamo dapprima uno starter a base di calamari fritti, lei dolci io piccanti, e poi una aragosta a testa.
Credo che se fossimo stati in dodici non saremmo riusciti a finire comunque tutto. Figuriamoci in due. Il cibo era delizioso, ma le quantità industriali, da taglia XXXXXL (e forse mi sono perso qualche X).
Ancora oggi in famiglia viene narrata questa vicenda per evidenziare l’ingordigia, o se preferite la temerarietà, l’imprudenza. Non fidarsi della gentilissima cameriera, che ci aveva chiesto se volevamo davvero tutto con sguardo tra lo stupito e il brontolone, e noi non abbiamo indagato.
E le streghe a Salem, quello sbagliato, l’abbiamo viste noi la sera dopo quella mangiata…  

Le foto sono del motel di Salem dove abbiamo alloggiato

domenica 28 aprile 2013

Valladolid vale la pena





E così siamo a Valladolid. Che non c’avrei mai scommesso di venire qui. Va bene che fa il 74simo aeroporto, ma se non fosse stato per Letizia, che devo proprio ringraziare, non era nelle priorità per questa vita. E avrei perso una perla.
Dici Spagna e pensi “caldo!”. Palle. Qui fa freddo, ci sono 3 gradi a mezzogiorno questa domenica e nevica come fosse temporale. Un minuto prima c’è il sole poi piombano fiocchi grandi come grandine e durano un baleno. La gente qui sembra non farci caso.
Da settembre Letizia sarà qui per l’Erasmus e siamo in perlustrazione, o in viaggio preparatorio. Fate voi. Chiamateci anche genitori apprensivi. Me lo porto a casa volentieri questo epiteto. Comunque grazie a lei, la Leti, la piccola, stiamo passando una bella vacanzina a tre, che le facciamo fare un po’ la figlia unica. Poco però perché c’ha comunque quasi 21 anni.
Ieri, primo giorno, molte novità: della neve temporalesca ho già detto. Ma del doppio atterraggio non ancora. E ho dovuto aspettare fino al 74 aeroporto per farlo. Era già quasi giù, sfiorava la pista, e ha tirato su il muso, tutto gas e ci siamo rialzati. Davanti a me, eravamo in seconda fila, Ryanair prima volta, lo steward rideva e mi sono rassicurato. L’ho detto a Franca che stava vicino a
me. Mi ha risposto che li comprano così e mi sono un po’ rabbuiato. Intanto l’aereo girava e rigirava e infine è atterrato dall’altra parte, e quando ha messo giù le ruote tutti hanno applaudito. Ma guarda téh! Poi sulla scaletta ci ha accolto un vento così forte che ha chiarito tutto. Quindi doppio low cost, Vueling (eccellente) fino a Barcellona e
Ryanair per Valladolid. Poi l’hotel molto carino, doppia stanza per lasciare privacy alla ragazza, e a noi (così russiamo senza problema. Ho detto russiamo? Volevo dire russo, solo io russo, non sia mai detto…)

Valladolid è davvero bella. Una piccola perla, pulita in tutti i sensi di questa parola: ordinata, ricamata di chiese e edifici bianchi, avvolta in palazzi colorati e spacconi, che tirano fuori i bovindo e i balconi per fare colpo, ma con ironia, prendendosi in giro, non con quella austera presunzione di Londra o con la guascona tracotanza parigina.
Di chiese ce n’è una ogni angolo, che c’è davvero la scelta per andare a Messa e non puoi dire “non ce l’ho fatta” perché le pietre stesse griderebbero. E sono quasi tutte cesellate in bianco, un po’ gotico un po’ barocco, ma molto netto, sincero, umile. Una preghiera.
Vicino all’hotel c’è un parco. Ci siamo andati a correre perché quello bellissimo lungo il fiume è troppo lontano. Ma c’eravamo stati prima a passeggio e ti sembra d’essere a New York, solo che invece degli scoiattoli qui incontri i pavoni e i cigni e le anatre. Che fa ancora più favola.

E non è finita qui.

venerdì 26 aprile 2013

28+5 fa la felicità







E così sono 28. O 33. Dipende da come li guardi. Comunque pochi.
Era grigio quella mattina. È sempre grigio la mattina, fa bello scriverlo anche se c’era un sole che neppure a ferragosto. Perché evoca un inizio sobrio e sommesso.
Comunque era grigio davvero. E mi son svegliato presto nella mia stanzetta alla Casa del Giovane la Madonnina dove abitavo come obiettore di coscienza. E poi la sera prima l’Inter era uscito dalla Coppa dei Campioni in semifinale contro il Real a Madrid, la famosa partita della biglia e di Bergomi abbattuto. Che passare così l’ultima sera da scapolo… in un certo qual modo è già un’icona della vita che verrà. Da interista si intende.
Comunque era grigio e sono andato in chiesa, la cappellina intitolata alla Madonnina dell’Istituto, a dare una mano a mettere a posto le sedie.
E poi a incontrare il coro. Ero già vestito da sposo, con la cravatta di mio padre, del suo matrimonio.
È iniziato così, senza botti o strappi, ma con una grandinata di affetto da un numero innumerevole di persone, molte delle quali sono ancora in vita. Non so se ce l’eravamo meritato o se era solo un credito per indicarci la strada, fatto sta che questa storia delle amicizie e dell’affetto ha accompagnato la nostra vita. E ancora oggi è canzone che suona sempre in sottofondo, qualche volta conquistando il primo piano come in un film in cui lui viaggia in metropolitana, si appoggia al vetro mentre fuori scorre Manhattan –meglio se di notte o all’alba- e la musica avvolge tutto. E racconta.
Ora ce ne sono successe di cose in questi 28 anni di
matrimonio, e 33 compreso il fidanzamento. E tutto è cominciato nel 1980 in terra Toscana, complice una gita scolastica nella quale mi ero infiltrato con la complicità del professore che non disdegnava la compagnia di quel fresco ex-alunno. Pineta di Tirrenia: fu lei la galeotta, nessun libro. Semmai un piatto di pappardelle al sugo di lepre, perché va bene romantici, ma anche concreti. Un segno.
E siamo qui.
Non abbiamo fatto nulla di speciale, se non volerci bene. E ci sono tante famiglie che lo fanno anche meglio di noi. E da più anni. C'è bisogno di testimoniarlo? Oggi sì, e la cosa da un lato affascina ma dall'altro preoccupa: per certi versi è come testimoniare che l'acqua è bagnata....
Mi fa un enorme piacere che ieri quando ho messo su un po’ di foto su FB, ieri che era il giorno giusto, il 25 aprile, sono stato sommerso da una cascata di affetto e sorrisi. E non so se me li merito, mentre mia moglie sì so che se li merita.
E la cosa mi ha fatto riflettere molto, specie se confrontata con una certa sofferenza che colgo in giro. Perché io questo dolore non lo conosco e non lo so nominare, definire, circoscrivere.
Che quando da me è sparita quella dimensione di attesa, di solitudine, che aveva solcato la mia adolescenza contribuendo a forgiare quell’autostima che m’è così servita nella vita, ero poco più che un ragazzo.  
Il dono di avere da sempre (33 anni su 53) a proprio fianco una persona che ti ama e ti sorregge finisci per darlo così per scontato che da una parte non ringrazi a mai a sufficienza e dall'altra non comprendi il dolore di chi non ha avuto questa fortuna.
E ce lo siamo detti, anche in modo esplicito, secco, brusco, innamorato, che non siamo ancora sazi di stare insieme, anzi più si va avanti più ci viene voglia di stare sempre di più insieme. Senza esagerare si intende.
In un bel film di molti anni fa, Amore tre le rovine, un vecchio Laurence Oliver diceva ad una vecchia Katherine Hepburn, ex-fidanzata persa, dispersa e ritrovata quando la vita era quasi giunta a fine corsa, “invecchiamo insieme”.
Sì, Lo voglio, E non ho bisogno di chiederlo. Solo di augurarlo.

domenica 21 aprile 2013

I visi di BAires



Un paese si vede nelle facce: in qualche modo raccontano la sua storia e il suo futuro.  A Buenos Aires colpisce una cosa in particolare, per una città del mondo globalizzato e multietnico come orami sono tutte con rare eccezioni. Che quando cammini per Manhattan come a Milano, a Parigi come a Lisbona, fai fatica a distinguere quelli che una volta venivano definiti autoctoni o indigeni dagli immigrati storici da quelli recenti, così come nella vita è dura distinguere i nativi dagli immigrati digitali. Perché tutto il sangue si confonde e rimanda ad una unica origine, e la vita è lì a dimostrartelo. Con infinito umorismo. È che se cammini per i viali della capitale federale, se ti riposi nelle stradine ammalianti dei barri più sicuri; se ti siedi sulla piazza di
Maggio, qualche che sia il mese dell’anno, se riesci a procedere rapido sulla Avenida Florida, una copia che sta alla Lincoln Road di Miami Beach come le borse cinesi a quelle di Prada, sfuggendo ai cambiavalute che bramano dollari ed euro, a chi ti vuol vendere una crociera o un ristorante, ai tangeros che ballano e vogliono attirarti nel vortice, ai butta dentro delle boutique locali, così simili ai vecchi empori All’Onestà –quella che oltre ad essere la seconda squadra di basket di Milano era la nonna di Lidl, Oviesse ed Upim- e ai borseggiatori; se riesci a concentrarti sui visi, scopri che non ce n’è neppure uno di colore così intenso da indicare una discendenza africana. Tanti invece i tratti propriamente latinos, che stanno diluendo fino a farli scomparire quelli dei caucasici, che forse sarebbe meglio chiamare alpini, dato che sono parenti diretti di italiani finiti là con le grandi immigrazioni, dalla seconda metà dell’800 in poi.

E sono visi che non parlano di rassegnazione, magari di rabbia, ma sempre rivolti al futuro. Con una saudade che pare abbiano assorbito per infusione dai vicini brasiliani, ma meno triste, più caballera, più carica a trasformare la poesia in lavoro e questo in serietà.
D'altronde è figlio di questa terra quello Zanetti che è capitano coi fatti prima che con la fascia.












venerdì 19 aprile 2013

La torta della responsabilità


Ci piace viaggiare, ci piace mangiare. E sebbene siamo italiani ci siamo trovati sempre bene in tutto il mondo. Beh tranne che in Olanda, spiace dirlo, ma lì proprio c’è sembrato di dover sopravvivere depredando la colazione per resistere al cibo dei pranzi. Ma forse siamo stati mal consigliati. 
Ma viaggiare e mangiare sono due cose che possono condurre ad altro perché ricordando i ristoranti che proprio non potevamo dimenticare e che quasi quasi valgono un nuovo viaggio c’è venuto spontaneo collegarli a qualche cosa di più, alla loro storia, alla nostra storia e allora il cibo diventava immagine di altro, di vissuti che si incastravano come in Touch o in Crash, per gettare luce sul futuro e sulla propria intimità.
Per cui vorrei descrivere alcuni di questi luoghi, dell’anima e della gastronomia, per condividere racconti che meritano di essere ascoltati.
E il primo narra di Pie in the Sky ossia della responsabilità personale.
Immaginatevi di percorrere un lungo sentieri alberato, che corre parallelo al mare, lungo la parte cicciona della virgola di  Cape Codd, appena sotto Boston. E di sbucare fuori all’improvviso in un piccolo porto, ma grande perché da lì partono i traghetti per Marta’s Vineyard e quelle ville dove si scrive la storia della nobiltà statunitense, tra trini e vaporosi the all’inglese. E di sedervi stanchi sopra le panche legnose di un baretto che sembra sbucato fuori da una storie di pirati. Pie in the sky si chiama. Quattro cose da mangiare, ma la torta di pane imbevuta di rhum è da paradiso, al punto che gli abbiamo chiesto la ricetta per email e  ce l’hanno anche mandata. Loro. Perché a gestore questo posto sono una manciata di ragazzi che il più grande avrà vent’anni e il più piccolo quindici. Fanno tutto loro: cucinano, servono, puliscono, lavano, sorridono, accolgono, raccontano storie.
Con grande responsabilità. Quando da noi a quell’età lì le mamme li portano ancora in macchina dove devono andar perché povera stella non sia mai che faccia un po’ di fatica che poi si sciupa.
E questi sgobbano, e senza lamentarsi, anzi con l’orgoglio di essere lì a costruirsi la vita. Ditemi se non è senso di responsabilità!