Quando i cinquant’anni sono stati raggiunti e superati con la velocità del suono di una sirena arrabbiata, tre sono le possibilità che rimangono all’uomo che non vuole rimanere ad attendere l’impatto indifeso e inconsapevole: farsi l’amante, farsi una macchina rossa, scrivere un blog. Dato che mi state leggendo (davvero? Mi state davvero leggendo?) avete compreso che ho scartato le prime due ipotesi. E per scelta volontaria e creduta, non certo forzata.

Ma che cosa e perché scrivere? Condividere, o l’illusione di farlo, aiuta spesso a sentirsi in compagnia di fronte alla piccole battaglie della vita: quelle grandi, si sa, le si può affrontare solo in compagnia di se stessi, senza nessuno scudiero o cavaliere al proprio fianco.

La prima delle sfide e quella che affettuosamente potremmo definire di san Giuseppe, che di fatto nomino mio speciale e personale protettore confidando sulla sua ironia e bonomia. In che cosa consiste questa sindrome? Nel sentirsi ovviamente il più imperfetto della famiglia dovendone invece apparire la guida salda. Non che con questo voglia affidarmi a una melliflua umiltà fasulla, l’autocompiacimento di sentirsi negare la denigrazione e gustare così una vanitosa ricompensa per la propria maliziosa modestia. Affatto. Lauto compiacimento può derivare solo dalla concretezza. Non che non sia vanitoso, tutt’altro: la vanità è sempre in agguato, come ben sa il diavolo impersonato da Al Pacino nel mondo degli avvocati.
Gli è che essendo proprio vanitoso e anche intelligente, so bene che l’ambizioso deve attingere a piene mani all’umiltà: per crescere, ambizione che può essere anche nobile e saggia, bisogna capire dove migliorare. E per capirlo non c’è che l’umiltà.
L’ambizioso vanesio e superbo farà una brutta e rapida fine.

Quindi qui sto: con una moglie tendente alla perfezione, pur con difetti marginali che provocano in me tanto irritazioni quanto ammirazione per la loro trascurabile banalità; con tre figli che, come recitano brutti film, hanno preso maggiormente da me i difetti, e quindi non posso accusarli di una eredità che ho trasmesso loro; con un lavoro che amo e che ogni mese mi sfida sempre di più, aiutandomi a non fare mai mia la sicurezza.
Di che scrivere dunque?

Della precarietà, della inadeguatezza che mi rende comico a me stesso, specchio delle cose che ho appreso e che rivedo, con squarciante veridicità, nel mio quotidiano.

domenica 30 dicembre 2012

Ne ho viste io di donne



Ne ho incontrate. Parecchie. In rete. Forse qualcuna di persona. Donne forti. Che camminano a testa alta. Da ammirare. Sicure. Convinte. Taglienti anche. Forse troppo qualche volta.
Tirano dritto e segnano la strada. E un po’ la invidi la loro sicurezza.
Poi accelerano, scartano, si confondo. Vengono travolte dal piacere di mostrare questa diversità. Questa certezza. Che sicuramente il mondo maschilista biasima, irride. Perché non le controlla, non le domina.
 E così senza che se ne rendano conto vengono travolte dall’errore che combattono: la banalizzazione del male nella generalizzazione. Tutto diventa ideologico. Dire no è un must. Fa trendy. Fa scalogno, per dirla con Cracco. E annuire, approvare: no, non si può. Non si fa mai.
Così tutto diventa opposizione. La loro affermazione scivola nel contrappunto: mi erigo solo schiacciando gli altri.
Ne ho viste in rete di donne brillanti, ragazze che non vogliono velinizzarsi, che mostrano la loro femminilità nel coraggio, poi sciuparsi nell’ostinazione, barattare il carattere con il livore, intrappolate nel cliché della maledetta che deve a tutti costi ringhiare, offendere, difendere le proprie ideologie da presunte fallacie logiche, dai pregiudizi altri, senza rendersi conto che invece sono loro a finire imprigionate nei pregiudizi.
Una sofferenza vederle così prosciugarsi e rinsecchire, come un fico che non dà più frutti.
Perché fuori dalla rete sono così anche nella vita. E rimangono sole, avvolte nella loro grandezza diventata ormai solamente spocchiosa superbia.
E uomini? Quelli spesso non hanno neppure questo coraggio o questa nobilità.

venerdì 28 dicembre 2012

Carissimo Sergio: lettere ad amici sperduti




Sergio, ma che c@§§£ dici! 
E soprattutto che c@§§£ fai!
Scusa la parola, ma ci sta. 
Non tra uomini: tra due che si conoscono da quando avevano 11 anni, prima media. Mica che non sappiamo come parlarci noi. Te lo ricordi? Eri quello invidiato da tutti. Bello, assomigliavi a Rocky prima che lo prendessero a pugni, quello che affascinava per quello sguardo dolce da vincente nascosto, non eclatante. Avevi fascino, parlantina: sapevi trattare con le ragazze quando, finiti gli anni dei calci al pallone, sono iniziati quelli delle feste in casa, quelle con “tavolo messo all’angolo con sopra le bevande, noi ballavamo i lenti chiudendo le serrande”. E sì, io ero quello che ti stava dietro, quello che “Io mi sedevo timido e non mangiavo mai,  perché mi domandassero: Cos'hai?”. Ti vedevo grande, sicuro: un esempio.
Ti ritrovo adesso, dopo un buco di quasi vent’anni, e mi fai arrabbiare. No, non per quello sguardo velato o i capelli grigi, che condivido con te –lo sguardo forse no: stanco sì, ma non smarrito, deluso nonostante la vita ci abbia spento i sogni e sbucciato le speranze- neppure per le spalle chiuse e curve sulle quali porti il peso di un avvenire cupo e chiuso, come un cielo che ti schiaccia tanto quanto da ragazzo lo guardavi leggendoci dentro futuri senza confini, infinite scelte come le ciliegie di un frutteto, tutte dolci e intercambiabili.
Ma per quel che mi racconti della tua vita, di come l’hai rovinata non per un colpo di testa, ma per una fuga che non ti sta addosso. No, non a te. Non a chi attirava per la sua linearità, perché charmant sì, ma non puttaniere. Onesto. Sensuale, anche. Ma ci stava nell’età in cui gli ormoni invadevano il cervello. Sbagliato sì, ma si comprende. Ma leale, diritto, retto.
Ora che una sbandata ti abbia fatto vedere stella quand’ombra lo capisco: non lo giustifico, ma lo capisco, che siamo sempre qui a combattere con una tentazione che si fa più astuta e animale giorno dopo giorno, e ti avvolge la vita come un sudario, e picchia duro dove sa che può far male. Perché cambia questa bastarda, come un camaleonte si adatta e come serpe si infila nelle crepe e morde; si nasconde tra le amicizie per apparire inoffensiva: così da ragazzino a tentarti sono le amiche di tua madre, poi quelle di tua moglie, infine quelle di tua figlia. Forse un giorno quelle di tua nipote. Perché American Beauty non è solo un film, e ogni uomo lo sa anche se lo nega. Negarlo conta, ma nelle azioni non nelle battute.
Ti scandalizzi perché parlo così? No, dai, non è da te. Lo sai bene che il mostro bisogna guardarlo in faccia, descriverlo, dargli un nome. Verbalizzare! Così ne ammorbidisci la violenza, inizia a domarli. L’errore è fingere -per millantata signorilità- di non chiamarlo, di non conoscerlo: ce l’hai dentro, per natura e per potenza diabolica. E il diavolo ha quale migliore alleato la follia di pensarlo inesistente. Eccome se c’è e morde. Per questo più lo sbandieri, più lo esponi alla luce, più lo confessi, più te ne liberi.
Certo, lo so che questa roba qui che entro rugge finisce per tesserti attorno una rete dalla quale è difficile scappare. E credimi, non da solo. Non lo sconfiggi o gli sfuggi se ti ostini a restare isolato: non senza Grazia, che non è quella di 3B che ti sorrideva fuori da scuola e a me non mi filava mai. Ci vuole virilità per combatterla e fuggire: che non è la fuga del disertore, ma quella del prigioniero che vuol tornare a casa.
In conclusione lo capisco che la biondina magari timida, ma maliziosa, ti abbia fatto partire l’embolo: e non è che sto accusando lei, sia chiaro, che la tua parte tu l’hai fatta e mica perché lei ti ha manipolato.
Ma dopo, dopo quando improvvisamente ti sei risvegliato, quando hai troncato lì, e lei, quella lei che ti conosce da quando Rocky non era ancora arrivato alla rivincita contro Apollo Creed, che siete la coppia eterna, che già allora faceva tendenza e scuola, lei insomma, quella che ti ha dato –come si dice- tre figli oltre che i migliori anni della giovinezza, quando lei ti ha riaperto le porte di casa oltre che le sue braccia e ha detto “ma sì, pazienza, ripartiamo che i ricordi sono ancora pochi per metterli via” come ti è saltato in testa di mollare il colpo alla terza ripresa perché la fiamma s’è spenta, e non la sento più come prima e non riesco a riaccendere la passione? È finita la favola? La favola? Ma quale favola! Rocky non è mica una favola! È un dramma. Mica era facile stare accanto ad un pugile suonato!

Che cosa credevi bello? C’hai quarantenni di più. Sì, tu, mica lei. Tu. Che passione vuoi provare? Te lo vuoi ficcare in testa, in quella testa che sapeva convincere tutti: che proprio il giorno che mi ero detto  “devo per forza studiare greco che sennò domani mi frega” e mi ero messo anche d’impegno m’hai chiamato per dirmi che avevi piantato Grazia, questa volta sì quella di prima, della 3B, che io ci morivo dietro e invece lei era stata con te, e che dovevamo andare al cinema insieme a vedere Rollerball. Aurora di Paolo Sarpi. Che adesso, dopo essere stato un cinema a luci rosse, è diventato un centro commerciale cinese. Ma allora era proprio bello, seconda visione mica terza o di più come diceva La Notte. Ecco te lo vuoi ficcare in testa che l’amore non è passione? 

Che si combatte su tutti i palloni per tenere duro, come Mourinho in semifinale con il Barcellona: due file parallele 5 e 4, che poi la vita te ne espelle sempre uno, e a stringere i denti e correre. Altro che fuoco e fiamme.
Come dice Al Pacino in Quella maledetta domenica, la vita è come il football: devi conquistarla centimetro dopo centimetro, e questi centimetri sono tutti intorno a noi. E mica te li portano su un piatto d’argento. Te li devi sudare. 
E il matrimonio, è come Rollerball, quello di Johnatan, ma la finale, dove si deve sopravvivere, dove gli uccidono l’amico più caro, ma lui –come tu: ti ricordi che ti vedevi così? Come James Caan, stanco e vincente, triste e orgoglioso- li fa secchi tutti e infila quella dannata palla nel cesto alla fine.
Ti vuoi tirare indietro?
Vieni a fare i conti con me!
Fa mica il pirla, Sergio.

mercoledì 26 dicembre 2012

Carissimo Fabio: lettere ad amici sperduti




Carissimo Fabio, le vuoi tirare fuori le #§@]§ allora?

Come facevi quando mi ringhiavi in faccia a pochi millimetri che sentivo il tuo alito fumato fin dentro l’intestino, e urlavi così forte che non percepivo neppure le parole, ma i tuoi pugni che roteavano sì che li vedevo, con la coda di quegli occhi che non cercavano di non mollare la presa del tuo sguardo. Che solo così potevo farti vedere quanto amavo le mie idee da non avere paura di te e dei tuoi compagni.
E poi siamo diventati amici, quando la stagione della passione si è autunnata e alle esplosioni di verità si è sostituita la ricerca della stessa, ma insieme, non contro.
Però non mi dire che non ti sei salvato dal fumo delle barricate per finire in banca pure tu! Perché non ti riconosco più adesso che padre mi sorridi sornione, un po’ ingrassato –beh, diciamocelo tra di noi, un BEL po’ ingrassato, che non è un problema di alimentazione, ma un specchio di quella tranquillità alla quale hai abdicato riponendo la volontà nell’astuccio che poi hai chiuso nell’ultimo cassetto della credenza, termine mai più azzeccato nella sua ambivalenza- e mi rispondi con tenerezza che son ragazzi, che bisogna capirli, che bisogna lasciar fare.
Così mi hai detto quando ti ho sbattuto sotto gli occhi le foto che posta tua figlia sua facebook, che un tempo le ragazze così le chiamavi con un termine così crudo e tagliente che non voglio ripeterlo, ma a te sì l’ho detto e mi hai guardato male, come se venissi da un tempo che hai rimosso e che non esiste più. “Ma no, ma cosa hai capito” mi hai sussurrato “son bravate, è per farsi apprezzar dagli amici, come la sigaretta: lo facevo anche io, per sentirmi grande ed era una stupidata, ma ci son passato come tanti altri”.
E mi lasci senza parole anche quando ti dico che insomma le avrai parlato, “ma di che cosa?” mi hai risposto candidamente, per poi confidarmi che lei con te non ci parla tanto e che perché ti dedichi un po’ d’attenzione le devi regalare qualche cosa: un cd, un telefono, un motorino, una vacanza. Col fidanzato.
Col fidanzato? A sedici anni?
Ma sì, cosa vuoi dirmi, mi hai risposto qui sì un po’ alterato, con il piglio di un tempo, che tu pensi che le ragazze oggi non… ? e allora se lo fanno tanto meglio controllare…!
Come? Cedendo? Aiutando? Che poi, ragazzi e ragazze peri sono, mica è diversa la storia.
Quando riprenderai a fare il padre? Quando ti assumerai le tue responsabilità? Forse non l’hai mai fatto. Perso tra un pannolino da cambiare e un viaggio alla sede centrale di Racine, Illinois, hai smarrito sull’oceano quella rabbia che ti spingeva a vietare di vietare, e sulle barricate con la forza ha smarrito anche il senso. E imbolsito dentro prima che fuori, ti trovi a inseguire le tue figlie, che l’altra è piccola ma aspetta solo qualche anno, per elemosinare l’affetto in cambio di una comprensione che non è che abdicazione dai tuoi doveri.
Dammi retta, svegliati, riscopri dentro quello spirito guerriero che ruggiva, e inizia a picchiare il tuo pungo sul tavolo per dire no. E si pronto a spiegare perché neghi. Che ad accondiscendere non c’è bisogno di dare ragioni.
Immaginati di avere di fronte me, la mia faccia di allora, l’età era la stessa, e di urlare sul mio viso. Forse ritroverai il senno.

martedì 25 dicembre 2012

Buon S.Natale 2012




(alba a Betlemme)


Carissimi 23 lettori, o giù di lì,

poiché uno dei doni che la vita mi ha riservato è di avere molti amici e conoscenti ai quali tengo molto,
per poter tributare a tutti l'affetto e il rispetto che meritate, faccio ricorso a quest a pagina blog, sulla quale copio il testo della mia mail "multidestinatario" di auguri che non avrà certo la poesia di un bigliettino vergato a mano, con bella grafia e stilografica, con dedica personalizzata, ma vi offre sicuramente a tutti -uno per uno- tutta la mia attenzione. 
Perché il cuore non conosce la categoria della massa, ma solo ogni persona in sé, con un viso, forse -oggi che l'età avanza e il barbaro flagello di Dio Scordila re degli Anni porta scompiglio e mette in fuga- anche un nome da collegare, ma sicuramente con le emozioni e i ricordi che le competono. E quindi anche se non so nominarvi a dito, sappiate che negli affetti ci siete tutti, grazie alla comunione del santi.

Questo santo Natale, più di altri recenti, ci trova preoccupati per la nostra vita quotidiana, per quella dei nostri cari,specie dei figli che si affacciano al mondo del lavoro, arido e desolato per loro, terra inospitale e cruda, 
così come per i nostri amici, i nostri colleghi. 
Molti tra coloro che frequentiamo e amichiamo hanno perso il lavoro o hanno dovuto inventarsi soluzioni nuove non semplici. Personalmente durante quest'anno molti sono stati i coetanei che si sono visti scacciare dal mondo del lavoro. Spesso senza ragione. E si sono aggiunti alla schiera -sì, uso questo vocabolo con cura- di chi li aveva preceduti in anni recenti. 

Si sono moltiplicati dolori, anche violenti, di quelli che ti strappano la voglia di vivere: e sempre più vicini, che ormai nessuno di noi è esente, se la sua sensibilità non si arresta alla scorza della sua pelle, dal com-patire, cioè veramente soffrire insieme ai dolori altrui.

Ma questo santo Natale ci offre anche l’occasione per tornare alle radici e interrogarci sul perché e come possiamo ancora essere lieti,
perché ciò che è certamente vero è che tutto concorre al bene: dobbiamo solo recuperare la capacità di leggere sotto la trama,
dietro agli eventi che sembrano travolgersi, quale sia il regalo per noi. 

Di questo sono profondamente convinto. L'ho sperimentato e lo provo ogni singolo giorno: basta solo avere fiducia. Lo dico non da maestro, ma da discepolo al quale ogni giorno viene insegnato che cosa vuol dire quell'invito evangelico "Non temere, continua solo ad avere fede".

Vorrei per questo porgere a tutti voi i miei più sinceri auguri per le prossime feste,
per un S.Natale che sia capace di donarci nuovamente il senso delle cose e sia capace
di regalare quella serenità, che ha radici sicure e profonde che non gelano,
e quella lievità che premettano di guardare al futuro con speranza.
E per un anno nuovo capace di donare a tutti noi ciò che meritiamo, che desideriamo
e di cui abbiamo bisogno per poter stare lieti nell’abbraccio affettuoso
e limpido di chi amiamo.

Vorrei anche chiedere se posso in qualche modo rendermi in qualche piccolo modo 
utile, per ciò che mi compete e all’interno delle mie capacità, per rendere questo Natale
più felice, più utile, più concreto. Sarò davvero lieto di poter offrire il mio contributo a ciascuno di voi. 

Grazie
ancora auguri
Paolo

sabato 22 dicembre 2012

Manipolare Facebook




Lo so: faccio un uso strumentale di Facebook. Come laboratorio: per osservazioni in vitro di comportamenti sociali. Lancio provocazioni e vedo quello che succede. Provocazioni poi.. diciamo affermazioni categoriche, e un tanti nello marcate –a volte, altre.. di più che un tanti nello- di valori nei quali credo profondamente. Ecco: mai stato mendace, né scorretto. Ma violento sì: intendiamoci però. Di quella violenza che si impossessa del cielo, di quella violenza che sta dentro la forza delle verità, perché questa è violenta, cruda, a volte anche crudele. E squarcia.
E poi sto a vedere: mica per deridere si intende, ma per capire. Dove stiamo arrivando, come fare per intervenire, dove io sto sbagliando. Perché negli errori degli altri si trovano i propri peccati.

Così mi imbatto sempre più di frequente in alcune categorie, fatto salvo che questa è solo una scorciatoia data l’impossibilità di rinchiudere in confini ben precisi le persone, tra le quali quella che in questo momento più mi colpisce è quella delle mamme (spesso single) ansiose e rabbiose. Non so da dove nasce questo livore, posso comprenderlo, spesso da un dolore inferto da un uomo puerile e disertore, che le ha tradite in molti modi prima di lasciarle. E uomini così, che hanno rinunciato alla loro virilità, meritano spesso solo disprezzo. Ma non cerco colpe o responsabilità, non mi interessa la causa a monte, la ragione –che è sempre “ben altra”- o la necessità. Osservo. Analizzo fatti, sciolti dalle persone e dalle storie.
E vedo appunto mamme single che diventano leonesse e orse per difendere i loro piccoli, magari ormai ventenni, dal mondo cattivo che non li apprezza, non li valorizza: non li capisce. E che reagiscono ad affermazioni sulla famiglia con un livore che può mostrare, in genere, solo chi è stato ferito sul vivo, chi ha ricevuto un colpo sulla piaga purulenta, che ancora fa ma. Se non mi riguarda, non mi arrabbio. Basta dire che il rapporto con il coniuge – regolarmente sposato (coniuge o consorte infatti, non compagno: che ci divido la sorte e quel giogo che è soave, non mi limito a spezzare insieme il pane, che questo lo faccio con chiunque, meglio se davanti ad una bottiglia di vino) e di sesso opposto- viene prima, sempre, di quello con i figli che si scatena la tempesta perfetta, altro che i Maya: e se uno il compagno non ce l’ha? E allora vuol dire che fuori dalla coppia i figli non sono mai felici? E allora stiamo affermando che senza coppia non c’è famiglia? Per la verità appunto no, ma quello che mi interessa e questo comportamento sociale, questa reazione, sempre categorica, sempre apocalittica, senza mai un bricioli di riflessione, di ragionamento, di autocritica –che in fin dei conti sbagliamo tutti spesso- fino a giungere a quell’assurdo logico, che fa pensare al famoso quesito dell’antichità sulla validità dell’affermazione di Critone il cretese “tutti i cretesi mentono”, “io non credo mai a quelli che affermano di avere la verità in mano”, detto appunto come una verità non solo da portare in mano, ma da sbattere in faccia.
E dunque? Come affrontare e gestire questo comportamento litigioso e rissoso e prevaricatore che brandisce diritti come se fossero nuovi fondamenti dell’essere e finisce per spingere nell’angolo la normalità, che ricordo è cosa ben diversa dalla consuetudine: questa infatti è ciò che accede sovente, l’altra è la norma, cioè la verità.

Finiremo con in quella vignetta di Staino dove Bobo e la moglie si vedono incoraggiare da una professoressa condiscendente “comunque in consigli di classe terremo conto della particolare condizione familiare di Michele… non è facile oggi essere figli di genitori NON separati”

giovedì 20 dicembre 2012

Giro di Natale







Altro Natale, altro giro di visite alle case, come lo scorso anno.Nuove scale  del nostro comprensorio, ci ricevono in molti di più. Pochi secondi per scambiare qualche sorriso, qualche notizia. È affascinante come la gente si apra con dei perfetti sconosciuti Capisco il successo dei testimoni di Geova, in clamoroso errore quanto a verità, ma dai quali c’è moto da imparare in carità e accoglienza. E proselitismo: ho ricevuto una telefonata tempo fa in cui mi chiedevano come stavo, come andava con la crisi. Insomma pura preoccupazione prima di dire “perché non viene a trovarci?” Grazie, sono cattolico praticante, di quelli che danbrounescamente definirebbero tradizionalisti e intransigenti, ma affascinato dalla loro capacità di andare incontro.
E così la gente si apre, si sente in dovere di dirti “io non ci vado in Chiesa”. È l’occasione per una parola che lasci in segno, e il più delle volte faccio la figura del sarto dei Promessi Sposi…. Una signora, ha perso il marito da poco, ci trattiene a lungo, non vuol lasciarci andare. E noi restiamo, ascoltiamo, cerchiamo la parola, il gesto. Non facile.
No so, ma chi ci ha guadagnato sono io, a Franca toccano ancora altre cinque sere, a me nel turnover dei componenti della famiglia e dei vicini forse ne spetta ancora una.
Tanto da imparare… veniamo anche da voi se volete!

martedì 18 dicembre 2012

Ambrogio come santo








Messa di Sant’Ambrogio dell’alba, beh insomma quasi. 8.30. Per noi a Milano è giorno speciale. Anche perché è festa. Anche. Poi siamo dentro alla novena dell’Immacolata.
Stiamo in un banco da soli, di lato, Franca ed io. Infreddoliti. Io di più. Sto immerso nell’atmosfera del Natale, ci provo, a capirne il senso, a renderlo azione.
Piomba accanto a noi improvvisamente un ragazzo, alto, inquietante. Si capisce che non è equilibrato, probabilmente un handicap mentale, non esasperato, ma sufficiente da indurti quella paura che non ha radici se non nella diffidenza.
E puzza. Acre. Unto. Greve. Giro la testa. Ci provo.
E prendo uno schiaffo. Ma come? Tutti i proclami. I fioretti. Le promesse. E qui, proprio qui mi viene offerta la possibilità di mettermi alla prova, di sconfiggere i mio egoismo, la mia presunzione, con un solo gesto, neppure eroico –stare. E sorridere- e io giro la testa? Cerco una via di fuga? Cerco una scappatoia? Che figuraccia!
Allora mi sforzo di dargli la mano e sorridere allo scambio della pace. Guardarlo ogni tanto, domare i pensieri. E poi, alla comunione, rifugiarmi in un altro banco, più vicino all’uscita, davanti alla Madonna. Per chiedere perdono delle mie debolezze, delle mie diserzioni.
Con la speranza che di quel poco, quel soldino simile all’offerta della vedova, Lui ci possa fare grandi cose. 

venerdì 7 dicembre 2012

Il ritorno del cinquantenne




Perché prima o poi si ritorna, con qualche cosa in più, che se va bene sono domande se va meglio è consapevolezza.
Che qualche cosa manca. Eccome se manca. S’è sfilacciata, diluita, come un biscotto lasciato a mollo nel caffelatte, come la mollica del pane. E non ce la fai più. Cosa? A fare quello che facevi prima. Ti manca l’energia, la concentrazione, la volontà di non disperderti.
Di lottare.
Un po’ s’è infiacchita, ha messo ciabatte e vestaglia.
E che ti racconti che i tempi sono diversi, che devi sbatterti di più per raccogliere meno, molto meno. È vero sì, e te lo ripetono tutti gli amici che incontri.
Cinquantenni come te. Molti lasciati a casa dalle aziende, al ritmo di quasi uno ogni due settimane.
Va bene.
Però poi si ritorna, scuotendo il testone, chiedendo scusa, allargando le braccia. Bisbigliando: “non ce l’ho proprio fatta”.
Ma sì che ce la puoi fare. Sempre ce la puoi fare. Perché è di questa debolezza che si ciba la tua forza, che poi è la Sua. Quando capisci che devi confidare. Nessuna altra strada.
E ti pare proprio che ti questi tempi l’unico insegnamento sul quale il Signore ti plasma, vabbé ti scalpella, ti modella, ti conduce è quello di Giairo: “non temere, continua solo ad avere fede”.
Si sta lì allora, come tweet sulla TL nell’ora di punta, e si ritorna. A scrivere. Che ne ho tanto bisogno. E sentire la vostra voce. Anche distante, ma che c’è. Eccome se c’è.