Quando i cinquant’anni sono stati raggiunti e superati con la velocità del suono di una sirena arrabbiata, tre sono le possibilità che rimangono all’uomo che non vuole rimanere ad attendere l’impatto indifeso e inconsapevole: farsi l’amante, farsi una macchina rossa, scrivere un blog. Dato che mi state leggendo (davvero? Mi state davvero leggendo?) avete compreso che ho scartato le prime due ipotesi. E per scelta volontaria e creduta, non certo forzata.

Ma che cosa e perché scrivere? Condividere, o l’illusione di farlo, aiuta spesso a sentirsi in compagnia di fronte alla piccole battaglie della vita: quelle grandi, si sa, le si può affrontare solo in compagnia di se stessi, senza nessuno scudiero o cavaliere al proprio fianco.

La prima delle sfide e quella che affettuosamente potremmo definire di san Giuseppe, che di fatto nomino mio speciale e personale protettore confidando sulla sua ironia e bonomia. In che cosa consiste questa sindrome? Nel sentirsi ovviamente il più imperfetto della famiglia dovendone invece apparire la guida salda. Non che con questo voglia affidarmi a una melliflua umiltà fasulla, l’autocompiacimento di sentirsi negare la denigrazione e gustare così una vanitosa ricompensa per la propria maliziosa modestia. Affatto. Lauto compiacimento può derivare solo dalla concretezza. Non che non sia vanitoso, tutt’altro: la vanità è sempre in agguato, come ben sa il diavolo impersonato da Al Pacino nel mondo degli avvocati.
Gli è che essendo proprio vanitoso e anche intelligente, so bene che l’ambizioso deve attingere a piene mani all’umiltà: per crescere, ambizione che può essere anche nobile e saggia, bisogna capire dove migliorare. E per capirlo non c’è che l’umiltà.
L’ambizioso vanesio e superbo farà una brutta e rapida fine.

Quindi qui sto: con una moglie tendente alla perfezione, pur con difetti marginali che provocano in me tanto irritazioni quanto ammirazione per la loro trascurabile banalità; con tre figli che, come recitano brutti film, hanno preso maggiormente da me i difetti, e quindi non posso accusarli di una eredità che ho trasmesso loro; con un lavoro che amo e che ogni mese mi sfida sempre di più, aiutandomi a non fare mai mia la sicurezza.
Di che scrivere dunque?

Della precarietà, della inadeguatezza che mi rende comico a me stesso, specchio delle cose che ho appreso e che rivedo, con squarciante veridicità, nel mio quotidiano.

domenica 29 aprile 2012

donna batte elefante

Prossimo post mercoledì 1 maggio


Si dice che gli elefanti tra di loro talvolta si complimentino così: ”hai una memoria da donna!”. Ora è dimostrato che la nostra capacità di immagazzinare dati è sempre parziale, ancorché sia altrettanto scientificamente provato che le donne hanno questo dono in misura molto maggiore degli uomini. Il punto è che la selezione dei ricordi non è casuale, ma monodirezionale: l’accumulazione dei torti. Mi è folgorato questa certezza, che è andata a riprendere certi studi fatti e poi nascosti in qualche centro della memoria del quale avevo perso la strada, quando l’altra sera, di punto in bianco, parlando di figli, mia moglie è saltata fuori a dire: “e poi quella volta che dovevamo andare a Firenze in treno e ti sei fatto accompagnare in stazione alla mattina da tuo padre in macchina mentre io sono venuta in metropolitana. Eri proprio un viziatissimo figlio unico: sapessi come ti ho detestato quel giorno…”.   Ora, sebbene la critica fosse ineccepibile, e sebbene io debba ringraziare lei per avermi aiutato a deporre gran parte della mia figlio unicità –perché, come diceva la nonna di Franca: gli uomini possono migliorare, ma guarire mai- e sebbene il ricordo fosse legittimo, perché accidenti ricordarci ancora con così viva memoria, testimoniata dal lampo di odio che per una frazione ha squillato nei suoi occhi, un evento transitorio che data prima del 1985, dato che riguarda l’epoca del fidanzamento e che quindi possiamo approssimatamente datare tra il 1982 e il 1984? Perché non provate a prendere qualche lezione da noi che siamo in grado di dimenticare tra la camera da letto e la cucina che ci avete detto di spegnere il fuoco sotto le patate e ricordarcelo solo in presenza di un acre odore di bruciato? Perché Proust ha avuto bisogno della madaleine per evocare il tempo perduto, a sua sorella, ammesso che ne avesse una, non sarebbe servito che un ascoltatore paziente. Orsù dunque, deponete questa rancorosa eredità del passato e guardate con noi al futuro, che oggi sembra sì meno radioso che un tempo, ma è sempre dolce se passato insieme.

venerdì 27 aprile 2012

L'incrocio delle vite

Prossimo post domenica 29 aprile 






C’è questo nuovo serial, che ne buttano fuori uno alla settimana e fai fatica a stargli dietro. Ma questo vale. La pena intendo. E’ un po’ maschile d’accordo. No, non perché sia uno spara-spara. Piuttosto perché è un po’ borderline con la fantascienza, ma non quella esplicita alla Spazio 1999 o Star Trek. No.
Quella strisciante, alle Lost, Fringe, Alcatraz. Quello sconfinamento in un terreno che è ambiguamente (im)possibile, forse (im)probabile. Insomma. Piace poco alle donne.
Invece c’è una profondità che merita.
Ecco, una versione più intensa di Crash, il film, e di Flash Forward.
E poi c’è quello di 24, Kiefer Sutherland, un bel fieu…
Si intitola Touch e parla del destino: c’è un bambino che sembra autistico ed invece è si una specie superiore, uno che vede come la vita dell’uomo sulla terra sia una guerra e ci sia bisogno di solidarietà per vincerla. Vede le connessioni che la Provvidenza, questo lo dico io, tesse tra le persone, solo che lo vogliano, e con l’aiuto del padre, che solo poco alla volta lo scopre, snoda i fili, li dipana, spalanca i collegamenti, rende la gioia, risolve i problemi.
Banale?
No. A me sembra che riveli come la Provvidenza ci sia davvero, ma che richieda il nostro aiuto e che se vogliamo darlo dobbiamo superare la comodità, metterci la faccia, impegnarci. Soprattutto metterci in ascolto, perché Dio parla piano, sussurra, usa linguaggi diversi dai nostri. E si limita a suggerire.
Vale la pena, fidatevi. Poi mi dite.

martedì 24 aprile 2012

Dare o ricevere? Delegare

Prossimo post venerdì 27 aprile
e prima del post oggi 25 aprile festeggiamo
XVII - 25/IV/1985






Post: dare, ricevere o delegare?




Qualche volta la carità, l'attenzione per gli altri consiste più nel chiedere aiuto che nel dare. Con semplicità. E in italiano corrente.
Non in donnese.
Meditate, mogli, meditate.
E non lo dico con sarcasmo o disprezzo. Piuttosto con affetto. Con dolcezza. Va bene, lo ammetto, magari una spolverata di stizza. Ma buona eh!
Perché lo so che è per eccesso di affetto che lo fate, per via di quella generosità che è quasi implicita nella femminilità. Nella donazione, che è l’atteggiamento ontologico femminile.
Ma qualche volta, siccome siete umane anche voi, che wonderwoman sì, ma poi c’è la quotidianità che prosciuga, questa generosità produce un effetto pernicioso che sta sotto la sindrome del “tocca sempre a me fare tutto”.
Che è anche vero, ma chiedere un aiuto non è una perdita di autorevolezza.
Ecco, e qui subentra la vostra seconda patologia: il donnese, ossia quel linguaggio che a voi è perfettamente comprensibile, ma che a noi, che nel sangue abbiamo la rincorsa alla paciosa e pigra tranquillità, suona più come una considerazione che come un appello.
Evitate perciò affermazioni che a noi appaiono stravaganti come “ci sarebbe da pulire il balcone” (ma quando mai, tanto hanno previsto pioggia per tutta la settimana…) “dovrei stirare le tende” (e a che pro?) “guarda quel vetro come è sporco” (ma va? Non me ne ero proprio accorto) e così via.
Perché non è che noi non vogliamo aiutarvi, beh magari non proprio adesso che c’è la partita, ma la buona volontà ce l’abbiamo anche. Ma ditecelo chiaro: “mi puoi aiutare? Pulisci quel vetro? Lavi il balcone? Sparecchi mentre stiro le tende?”.
Noi capiamo, voi non vi arrabbiate e noi non ci prendiamo quello che poi, inevitabilmente, ci rovescerete addosso.
Gotta deal? 

sabato 21 aprile 2012

La verticalità della vita

prossimo post lunedì 23 aprile





Uno dei lati più squisiti della vita è questa possibilità di trovare  umorismo, e con esso sorriso e profondità, in ogni circostanza, anche nelle più banali, effimere e sdrucite. Ci vuole uno sguardo lucido per riportarcele davanti e spiegarle in tutta la loro forza. Leggo su un blog della disavventura di una appassionata di montagna che cerca invano di farsi capire dall’edicolante occasionale. Sta cercando Vertical, rivista dell’ascensione. L’incauto venditore, che non capisce –non solo il titolo, ma molte altre cose, e perde l’occasione- le propone improbabili riviste di enigmistica. C’è da riflettere. Notare ad esempio che cosa evoca la verticalità nel mondo di oggi: più che slanci mistici (poteva essere anche una rivista di teologia o di filosofia) modestamente solo l'orizzontalità degli incroci. Come se ormai la nostra aspirazione di elevarsi fosse drammaticamente incatenata alla piattezza di orizzonti orizzontali, che nascondono enigmi da svelare lettere dopo lettera, ma solo per avere un po' più di chiarezza sulla piatta tavola in bianco e nero. Non per riuscire a leggere nella trama della vita, quello schema in trasparenza che rivela senza svelare troppo, per non estirpare alla radice la libertà di ognuno di noi.

giovedì 19 aprile 2012

I racconti del giovedì: Gabriele

I racconti del giovedì Gabriele

prossimo post sabato 21 aprile




«Già, Gabriele. Non lo ricordavo più. Nome nobile. E' l'angelo che ha portato l'annuncio a Maria. Uno dei tre arcangeli insieme a Raffaele e Michele. La madre di quell'uomo commise un errore mostruoso: o forse fu lui ad essere schiacciato dal peso di quel nome. Nomen sit omen: il tuo nome ti sia di buon auspicio. Fu una sciagura, invece. Tutto in quella persona faceva pensare alla bassezza: la meschinità emanava da lui come una deformazione del corpo che nessun abito sia mai in grado di nascondere. Era forse la luce degli occhi o il modo in cui si torceva di continuo le mani o quel sibilo, dovuto ad una forma particolare di asma contratta in gioventù nei terreni paludosi e malarici dove era nato. Viveva nella perenne convinzione di essere l'olocausto dell'umanità: una sorta di vittima predestinata da un dio cinico e sarcastico che l'avesse eletto come capro espiatorio. E lui non negava a nessuno il suo disprezzo. Era impiegato postale nel paese di montagna, nel cuore dell'Abruzzo, dove andai a vivere per un certo periodo. Vi trovai impiego mentre decidevo che cosa fare della mia vita. Commesso da un pizzicagnolo. Per sopravvivere. Gabriele veniva a comperare formaggio e salame. Scivolava dentro il negozio, uno stanzone buio e polveroso, quando le ombre si facevano più dense. Sentivo il suo sibilo rauco prima ancora di vedere la sua faccia. "Firmino", mi diceva, "Firmino, il solito". E aggiungeva subito: "anche oggi scalogna nera. Lo sai quanti pacchi si spediscono in questi paese di balordi? Più che le capre! Sembra che ogni bestia abbia parenti ovunque nel mondo... E che gli manderanno mai? Pacchi pesanti, come peccati. E tocca a me portarli tutti: dallo sportello al cestone, dal cestone alla porta, dalla porta al furgoncino. Io non c'ho più l'età, Firmino. Lo vedi come sono? Secco. E loro ridono di me. I pacchi li spediscono solo per farmi faticare. Lo so, lo so. Non scuotere la testa. Li vedo in faccia io, quando vengono lì con quei loro macigni. Hanno facce rosse, gonfie, sporche. Hai mai visto come sono sporchi? Tutti! Anche il farmacista, che fa tanto il signore. Ma è sporco pure lui. E non mi saluta quando passo davanti alla sua bottega e lui è lì, sulla porta a fumare. E che? Non si può vivere senza medicine? Io, le sue medicine, non gliele compro mai! Mai, hai capito Firmino? Io con le erbe mi curo. Eppoi non mi curo mai perché sono sempre malato e non c'è più nulla che mi possa aiutare. La posta invece: come si può vivere senza quella? Come li manderebbero quei loro pacchi senza la posta? Maledetti loro e i loro pacchi! Firmino, me l'hai dato saporito il formaggio? Eh, Firmino. Se non ci fossi tu in questo paese... ti dovevano inventare. Benedetto il giorno che sei arrivato. A proposito Firmino, da dove vieni? Me l'hai già detto, ma non ricordo. Non ho mai spedito pacchi per te! Grazie Firmino. Li odio i pacchi, io". Io tacevo. Era l'unica difesa. Ma anche il silenzio può essere giudicato, se proprio vuoi. Poi si trascinava fuori dal negozio, si fermava sulla soglia e con quegli occhietti piccoli e luccicanti -sì, luccicanti, come la pelle di una anguilla- radiografava la piazza. Un disgraziato, ti dico. Aveva accompagnato la moglie al cimitero: era  bianco come una busta. Lui ce l'aveva mandata! Almeno così dicevano. Non che la picchiasse: anche se per la verità non posso escluderlo. Fu il suo veleno: l'astio che colava da ogni suo gesto. Un anima di quelle che tengono la lista dei danni. Il rancore, che non aveva il coraggio di sfogare, gli si moltiplicava dentro come un virus. E poi traboccava.  Era arguto: non c'era frase che non contenesse un retrogusto marcio. Se diceva "buonasera", lo accompagnava con un tono sordo e minaccioso, e con un gesto della testa di sbieco, come se stesse attorcigliandosi su se stesso per attaccarti, alla moda di un serpente a sonagli, e pareva ti dicesse: "che sia la tua ultima sera". La moglie era pian piano svanita, si era fatta trasparente: consumata, come una candela. Finché non era rimasto più nulla e si era spenta, bianca sul grigiore diffuso delle lenzuola. "M'ha fatto torto", urlava Gabriele, "m'ha fatto torto anche morendo. Mi ha lasciato solo: e come faccio adesso con la casa e una figlia da maritare?". La figlia si era maritata da sola e in gran fretta, appena dopo la morte della madre. Era scappata via, ti dico. Credimi: so come si può fuggire. Forse aveva fatto sciocchezze prima del matrimonio per liberarsi da quel padre: aveva il terrore che uccidesse anche lei. "Svergognata! Il primo foresto che le è capitato a tiro!", commentava Gabriele, "che razza di uomo può essere quello? Un rappresentante di commercio: di biancheria femminile. Mascalzone! Come gli fatto gli occhi dolci lei qui, chissà quante donne... Peggio di un marinaio. Questo Cristina proprio non doveva farmelo. Mi ha rovinato. In paese lo dicono tutti: una ragazza inutile, leggera. E quello? La farà soffrire. Ah, ma io sono un buon padre, io. Mi trasferirò da loro, quando la finirò di spedire pacchi. E allora aggiusterò tutto io. So di avere le mie responsabilità. E metterò tutto apposto". Doveva aver comunicato queste sue intenzioni alla figlia, perché né lei né il marito si fecero più vedere in paese e dicono che cambiarono anche casa senza più scrivere al padre, per il timore di vederselo piombare addosso all'improvviso. Io ero ancora giovane, allora. Lo stavo a sentire. Un anima torva così non l'ho più incontrata. Però mi è rimasto il dubbio che la colpa non fosse tutta sua. Chissà, un torto patito in gioventù: forse l'asma vissuta come un castigo immeritato. Se qualcuno fosse stato a sentirlo fin d'allora... Certe volte mi pareva di vedere un alito diverso: come uno spirito prigioniero che cercasse di forzare la serratura e venire fuori. In controluce mi pareva di scorgere sul suo volto agitarsi un altro uomo che premeva e piangeva per liberarsi. Sembrava che i lineamenti stessi si distendessero per assumere toni più sfumati, più lievi. Un secondo. Forse anche meno. Poi ritornava quell'espressione fratturata e cattiva. Non so che fine abbia fatto. Dopo qualche anno me ne andai da quel paese. Mi era venuto a noia quel sole stanco che rovesciava pigrizia».

mercoledì 18 aprile 2012

L'isola dei facinorosi

Prossimo post giovedì 19 aprile





Non capisco come non abbiano già utilizzato questo format. Che in confronto il Grande Fratello o L’isola dei famosi sono una passeggiata a Disneyland. Perché c’è un luogo, una situazione, che inspiegabilmente riesce a condensare e riassumere tutte le abiezioni dell’uomo, a rapprenderle nello spazio di un soffio e a farle esplodere con la fragranza di una giorno appena nato. E stende intorno a sé la tenebra, dopo la luce cattiva scende un’oscurità densa e fritta nella quale la bestialità si aggira mordendo e stanando anche chi spera ancora di trovare un barlume di razionalità. C’è una situazione, un luogo in cui le persone depongono il tratto umano, abbandonano sulla soglia ogni benché minima pretesa di altruismo, ma neanche, anche solo di attesa per il bene comune, e indossano le armi della difesa dei propri egoismi ad oltranza, come Leonida alle Termopili: piuttosto sopra il mio cadavere. Immaginatevi ricreare una simile ambientazione in un reality: altro che le schermaglie del GF! Altro che le risse dell’Isola. Persino altro che le rivalità di Amici. Pensate che audience potrebbe avere un reality in cui ognuno si riconosce, perché di là almeno una volta ci è passato, e almeno per una volta quelle stesse sensazioni le ha vissute dentro di sé, intorno a sé: ha sentito crescere dentro di lui la rabbia, prima sommessa, poi incredula, poi spaventata, infine incontenibile. Perché ci ha provato a controllarla, ci ha provato a ragionare, ci ha provato a mediare. Ma alla fine ha ceduto: o si è lasciato travolgere dalla passionalità del clima, e come belva ruggente si è gettata nella mischia; o ha lasciato le armi e se ne è fuggito atterrito da se stesso e dal genere umano. Sì perché potrebbe anche esser salutare mettere in mostra dove l’uomo può giungere, fin dove può scendere nell’abisso dell’egoismo, dell’odio, della mancanza di rispetto, dell’idiozia, dell’incapacità di ragionare. E sarebbe anche un interessante studio sociologico, perché lì, cadute le difese del perbenismo, abbandonati i sorrisi da cortile, quando ci si incrocia e si saluta mettendo su la faccia più brillante e falsa che possediamo, per quei sei metri in cui si rientra nel campo visivo, prima di riaccendere il pettegolezzo e la critica, lì tutto viene fuori: è un grande specchio che riflette all’uomo il suo io bestiale, demoniaco. Che se uno riuscisse a fare un passo indietro, a vedere il tutto con sguardo non dico limpido, ma almeno sbrinato, se riuscisse a riaccendere la ragione quel tanto che basta per osservare ed osservarsi, gli cadrebbero le scaglie dagli occhi e potrebbe vedere i demoni danzare accanto alle persone che tengono al guinzaglio, e ridere, e schernirle mentre le aizzano. O sì, avrebbe anche una valenza metafisica un reality simile. Che parlasse dell’Armageddon quotidiano. Che mette in scena, a beneficio di tutti, l’assemblea di condominio.

lunedì 16 aprile 2012

La lezione della Pasqua

prossimo post mercoledì 18 aprile





Ci lamentiamo della nostra sorte e non comprendiamo le nostre fortune finché non ci sfracelliamo contro il dolore altrui. Me ne accordo in questa domenica di Pasqua in chiesa, che peraltro è luogo delle grandi scoperte sull’umanità, anzi sulle persone, che queste sono vere, l’altra è un’astrazione, quella che ama Lucy che invece, dice, fa fatica a sopportare le persone.
Ecco. Lì scopri che dietro alle apparenze, a quel fastidio che produce la tua permalosa presunzione, a quell’irritazione per comportamenti che non comprendi, battono vite che si sono forgiate nel dolore. E che a volte da questo, invece che essere illuminate, sono state devastate e illuse, avvelenate e rinchiuse in soluzioni che sono inganni e dolore ancora più profondo e feroce e senza speranza.
Ma chi sei tu per giudicare o disprezzare?
Incontriamo una signora che ha appena perso il figlio, compagno di scuola di Franca. E improvvisamente mi tornano addosso, scagliandosi come affamati predatori, i dolori che leggi sul web, che ti raccontano alla macchinetta del caffè, che catturi –anzi, sono loro a farti prigioniero- sul tram, per strada. Un pianto sommesso.
Allora ti accorgi che è così bello stare bene, è così dolce ringraziare perché anche questa sera i figli sono rientrati tutti a casa sani e salvi, perché…
E forse la lezione di questa Santa Pasqua è proprio questa: tutto è grazia e non resta che accorgersene con solare evidenza.

sabato 14 aprile 2012

Il paese dei balocchi

prossimo post lunedì 16 aprile




Primo quadro.
Come tutti i sabati, dopo la Messa in trasferta (da noi non c’è alla mattina) e la sosta al forno di Trenno per l’ottimo pane che dura tutta la settimana, e dopo avere di nascosto trangugiato come un bambino una fettina di focaccia che sembra una sospensione in olio di mollica di pane, salgo al centro commerciale per comperare i giornali e i periodici della settimana. Da quando hanno chiuso l’edicola davanti casa è la soluzione migliore. Davanti a me sul tappeto mobile che porta al piano rialzato due signore a cavallo della mia età: la figlia, qualche anno meno di me, dice alla madre, mentre stiamo per essere consegnati dal parcheggio al piano negozi: “hanno aperto l’Oviesse! Che bello! Peccato non poterci andare, siamo di corsa”. Replica la madre, direi sulla sessantina andante: “ma dai che un quarto d’ora per un giro lo troviamo!”.
Imbevuto di focaccia e orgoglio penso: ma che banalità, apre l’oviesse, neanche fosse Tiffany o un AppleStore, e bisogna per forza andarlo a vedere. Mi ricorda tanto All’Onestà dei miei tempi, non la seconda squadra di basket di Milano, la catena di tutto per la famiglia low cost, trent’anni prima del tempo. Mah.

Secondo quadro.
Cucina. Cena da empty nester. Andrea è ad arrampicare. Le due bambine sono fuori. Racconto, con sarcastico disdegno, la scena della mattina. E come sempre, quando voglio fare il brillante, mi torna in gola. Oh che bello, andrei a vederlo volentieri, fa  mia moglie. Come volentieri? Se non ti serve nulla che cosa ci vai a fare? Per orientarmi, nel caso mi servisse qualche cosa so già dov’è. Ineccepibile. Potrei obiettare che quando le servisse qualche cosa potrebbe darsi che la disposizione del negozio sia già stata cambiata. Obiezione irrilevante e irricevibile. Le raccoglitrici godono ad osservare, scoprire. Per me sarebbe tempo perso.
Morale: mai usarsi come metro per giudicare. Davvero altrimenti verremmo giudicati con questo stesso metro e allora potrebbero essere guai. E che bello riuscire a vedere con occhi diversi perché c’è sempre un lato umoristico da scoprire.

giovedì 12 aprile 2012

Ripiegato - i racconti del giovedì

prossimo post sabato 14 aprile





Vorrei essere stato io. Vorrei averlo ucciso io. Almeno la facevamo finita e non se ne parlava più. Invece no. Non solo non sono stato io, ma neppure so nulla di ciò che è successo. Non basta. Non mi credono. Si sono convinti. E non riesco a fargli cambiare idea. Perché ogni parola, ogni gesto, ogni colore loro lo incastrano nel loro castello. E tutto li conferma nella loro devastante ipotesi. Non so perché. Qualcuno all’inizio ha avuto questa idea. E se ne è innamorato al punto da diventarne prigioniero. Di più. E’ diventato lui. Si è insinuata lui, lo possiede. E quindi nulla potrà mai fargli cambiare idea. E le cattive impressioni, si sa, fanno presa. Crescono più in fretta perché alimentate da quel vento tiepido e calmo che vive dentro ognuno di noi. Non so come definirlo, non credo sia invidia. Di che poi? Del mio misero lavoro? Della mia vita insulsa che cercavo di rendere meno segalina ad ogni alba? E che spegnevo nel sonno, a volte piatto, altre profondo, il più delle volte sensibile e sudato, ogni santa notte? Non è invidia. E’ quella voglia di fare del male, di non credere. E’ la sfiducia nell’uomo. perché ognuno si sente sempre vittima. E mai carnefice. Curioso, ciò che più invochiamo dagli altri, è proprio ciò che meno siamo disposti a concedere: sia che si tratti di pazienza, sia di pietà, sia di comprensione. Ho letto da qualche parte che la carità più che nel dare consiste nel comprendere. Parole sante. Ma anche atroci. Perché così come si scolora la carità nell’elemosina, si avvelena la comprensione nella maldicenza. Ammantandola di buona fede si pretende di toglierle l’acido. Ne ho sentiti tanti. Nessuno osava accusare. Ma va! Piuttosto millantavano misericordia, pretendendo di addolcire il messaggio con la falsità di espressioni come “pover’uomo” “si dice” “ma ti pare vero che..”. E godevano di questa loro capacità di velare. E così, è scivolata via anche la dignità. E ho iniziato a maledirmi per non avere commesso il reato. Perché allora sì che avrei riconquistato il loro rispetto.  Sarei salito in cattedra, avrei spiegato e rivendicato e affermato. E in questa rivendicazione della mia libertà, sarebbe sorta la denuncia della società. Allora mi sarei assicurato la loro pietà. Forse anche di più. La loro ammirazione. Sarei sceso nelle aree televisive. Il mondo sarebbe stato mio. Rimpiango la codardia dell’onestà. Perché mi ha ripagato con l’espulsione dalla vita. E non c’è stato altro che ripiegarmi, mettermi via, insinuarmi in un cassetto dell’esistenza, dove solo la naftalina può proteggermi dalle tarme e dai tormenti. Un oblio fatto di fughe, di volti chinati, di passaggi nell’ombra. E non posso neppure rompere i confini di questo paese perché l’indagine non me lo consente. Come se non avessero già sdrucito tutto. Squartato ogni particolare. Come vorrebbero fare di me. Ho già confessato. Ma il crimine che ho vomitato fuori non è quello che interessa loro. Né alla gente che aborre di vedere negli altri le miserie che cercano di nascondere a se stessi. Non ci sono più le mezze calzette di una volta: ciò che la gente vuole sono i grandi trionfatori per ammirarli ed invidiarli, racchiudendoli in un odio puro, senza limiti; oppure i grandi peccatori, per disprezzarli e rialzarli ammanendo senza riparmio la propria misericordia e mostrandosi così più grandi di coloro che giudicano. E sto qui, ad aspettare che la morte, che ha già devastato il fisico, finisca per penetrare nell’animo e lo spenga del tutto. A meno di trovare, da qualche parte, in qualche sguardo, una luce che parli di un riscatto che possa ridarmi non dico l’onore, ma almeno il rispetto di me stesso.

martedì 10 aprile 2012

Le sfumature dell'amore

prossimo post giovedì 12 aprile






Non c’è come avere più figli per capire le sfumature dell’amore. O le sue sfaccettature. Chiamale come vuoi.
Perché ti interroghi spesso su che cosa significhi uguale. Che è una di quelle parole che non ha senso se non in modo relativo. Nella vita intendo, non nella matematica. O nella geometria. Dove prevale la congruenza o la sovrapponibilità. Che non sono di questo mondo.
Così non ha senso avvilupparsi in crisi di coscienza per capire come amare in modo uguale i propri figli, perché l’uguaglianza qui sta nell’intensità, non nei modi.
Ma se non ce ne hai più di uno, fai fatica, perché l’amore paterno è una specie unica (come quello materno si intende, ma lì ho zero esperienza è ovvio) e ti si squadra davanti senza preavviso la prima volta che tieni in braccio quel frugolino che fino ad allora intuivi.
E’ solo però moltiplicando i destinatari di questo speciale affetto che comprendi quanto profondo e vario possa essere l’amore, non perché chi è padre (o madre) una volta sola non sappia amare. No. Solo che si priva di quelle sfumature che la moltiplicazione dei figli rende possibile, e non oso immaginare a quale grado di comprensione arrivino quegli amici nostri che di figli ne hanno 6, 7, 8, 10. Che lì sì che l’amore assomiglia a quello divino, che di figli ne ama miliardi e ognuno a modo suo.
Eppure in questo presagire l’oceano, restando sulle sponde, le gambe immerse solo fino alle caviglie, lo sguardo che vaga all’orizzonte dove il sole sta lentamente scendendo, il calore della sua infinitezza ti sale fino al cuore e per una frazione sola, anche minuscola, ti si incide dentro come perché tu non dimentichi mai.
Guardando i figli, che ti cambiano davanti come la spuma delle onde che si sciolgono o litigano con la battigia, e che ritornano indietro come per fuggire ma poi ritornano, ti racconta quanto e come sai amare e come realmente tu sia pronto a svuotare te stesso per lasciarti plasmare dall’affetto per loro.
Perché forte come la morte è l’amore, non dobbiamo scordarcelo mai.

sabato 7 aprile 2012

Specchio della vita è il web

prossimo post martedì 10 aprile




Specchio della vita è il web. E delle nostre piccole manie.
Scrivi e pubblichi, su Twitter, Facebook e sui blog, e poi stai a guardare, un po’ a metà tra quel cinese che attende il cadavere del nemico, e lo scienziato che osserva il comportamento animale.
Attenzione: non che questo voglia dire che lettori e amici del web siano cavie da laboratorio o bruti senza ragione. Offendere in un colpo solo tutte le persone che conosco sarebbe follia pura, quindi rassicuratevi.
E’ che uno riesce a capire molto di sé e delle sue manie cercandosi nei comportamenti degli altri, che la radice della persona è la medesima in tutti.
Così scrivi un post di 644 parole (contate da word) che parla di come l’età passi e debba restare il coraggio, e trovi chi si impunta su una di queste, ambigua se vuoi, ma decisamente priva di veleno.
Così annunci il compleanno di tuo figlio e c’è chi se la sente come una accusa, come se la felicità fosse in realtà un pretesto, un arma a doppio taglio, che fosse lì per sbellettare gli altri, per incolpare di chissà quali reati.
Fa pensare.
E giungere alla conclusione che ormai, oggi troppo sicuramente, abbiamo preso la nostra vita come misura del mondo: ci mettiamo al centro e interpretiamo tutto a partire da noi. Spesso usando come chiave di comprensione proprio ciò che ci fa male, ciò in cui soffriamo.
Mostrando così al mondo il nostro vero volto. E quella fragilità che chiede, e merita, affetto.
Buona Pasqua.

giovedì 5 aprile 2012

Sedicianni - i racconti del giovedì

prossimo post sabato 7 aprile





E voi pensate che sia facile avere sedici anni? No dico, vi siete mai posti il problema di avere sedici anni oggi? E non venite a dirmi che sedici anni li avete avuti anche voi. Era un mondo diverso. Molto più semplice. Mica dovevate combattere con la tecnologia, voi. Al massimo la fame, tipo il terzo mondo, che poi so bene che è una balla e che la raccontate per spaventarci, e mica ci caschiamo noi. Non avevate neppure il telefono. Che ne so? Tipo ci avete talmente stressato con i vostri tempi che mi sembra di averci passato un’altra vita. E non è la mia. La mia è qui.  Ma lo capite o no come è dura rimanere sulla cima dell’onda? Perché se non ci sei, non sei nessuno. E qui chi non è nessuno è già morto. Meglio che lo fosse anche fisicamente. Perché sei nel tunnel. E soffri. E se non soffri abbastanza ci pensano gli altri a farti soffrire. Ma lo capite o no quanta cura dobbiamo metterci nel farci vedere? Che c’è un limite ogni volta: appariscente sì, ma puttana no. Perché poi i ragazzi non ti chiedono che quello. Già tipo sanguisughe non pensano ad altro, che se li senti parlare sembrano i Simpson versione porno.  Quelli dei film che vedono su internet che li scaricano a manciate neanche fossero cioccolatini e poi te li raccontanto che non c’è più che vomito a sentirli. Se poi sembra che gliela dai senza aspettare, allora non c’è più riposo. E’ tutta una questione di immagine. Capisco che non si pensi ad altro. E non dico che non mi sono data da fare. Non così però: fare sesso nei bagni o in macchina o dietro casa tua, ma nascosta così nessuno ti vede. Che poi se mi vede mia madre, che se ne frega, che cosa potrebbe mai dire? Che cosa fa lei in fin dei conti? Che quanto a eccessi faccio fatica a starle dietro! E voi, non dovevate mica competere con le vostre madri voi in quei famigerati anni Settanta che tanto ce li venite a menare con Fonzi e i Beatles e quale altra diavoleria non me la ricordo più. Non mi interessava e l’ho rimossa. Come faccio di solito. Non voglio avere una discarica in testa: quello che non serve immediatamente si butta subito. Così c’è più spazio per pensare a come divertirsi. Eh, dovevate difendervi dalle vostre madri voi come tocca fare a me? Che quando mi costringere a fare shopping con lei li vedo gli uomini, tutti, e anche i ragazzi, quelli che ci farei l’occhio acceso e un po’ pornito, che guardano lei invece che me e le sue scollature e scosciature come se il mondo le girasse attorno e il marciapiede fosse una passerella. Che credo che voglia farlo solo per distruggermi, per annichilirmi, per umiliarmi tipo che guardano solo lei e non me, che sono ancora uno schizzetto. E io gliel’ho fatta addosso invece, che con il ganzo che le ronza attorno, e lei ci sguazza anche se è quasi più vicino a me che a lei di età, ci sono andata io mica lei. Forse anche lei, chemmifrega. Ma io pure. La sera che lei si è fatta aspettare. E non s’è accorta di niente. E ne sono orgogliosa perché questa volta l’ho vinta io. E mica mi pento sai? Di che cosa? Di fare quello che fanno tutti? Quello che chiedono tutti? Tanto tutto passa, neppure un’ora e passa. Vivere il presente. Ecco. Lo dicono tutti. Anche quelli famosi che vedo in tv e che mi fanno impazzire perché voglio anch’io diventare così. E non fare fatica. Che mia madre non la fa la fatica. Ha spiantato mio padre. Che quando se ne è andato l’ha morso fino al midollo. Rosicchiato. Spolpato. E adesso siamo ricche. Lui è ricco e anche noi. Finche dura. Lo dice sempre lei. Ma io non voglio fare fatica. Non serve. Non la fa nessuno. A scuola? Ma non farmi ridere! Che c’è sempre un modo per copiare, fregare, passare. E che serve studiare? Per fare i secchioni? Come le verginelle e i nerds, che stanno rintanati nella loro cultura e avvizziscono, in mucchi scomposti e rinchiusi perché non se li fila nessuno, solo fra di loro, che fanno ridere e non li tormentano nemmeno più perché non c’è gusto, solo quando sei un po’ giù e non ti va neppure di niente, allora una presa in giro, un paio di sberle, che non rifiutano mai, e ti tiri subito su. Che non bisogna essere sballati o tipo teppisti per fare queste cose qui. Che le fanno tutti e gli sfigati se le aspettano, ti sorridono e se le aspettano, fa parte del gioco, noi i belli loro gli sventurati. Noi quelli che piacciano, loro bui. E senza superare il confine e finire tra i bulli, che quelli non piacciano a nessuno, e sono deboli: fanno finta di sbancare, ma sono corrosi dentro. Lo capisci. Aggrediscono solo perché non riescono a guardarsi allo specchio. E sono così grezzi, sporchi, scialli. Noi siamo scianti e lindi: eleganti. Belle facce, mia nonna direbbe acqua e sapone. E mi diverto quando lo fa perché non sa, e non potrebbe mai sapere. Perché come ti guarda lei brucia. E quel fuoco io non lo voglio.
Però poi mi ritrovo questa faccia da malmostosa addosso sempre, anche dentro, come se mi guardassi in uno specchio interiore, che quando me lo dicono mi arrabbio perché capiscono e non voglio che capiscano. E un po’ fa smeriglio, fa superiore, ma troppo poi finisce che te lo dicono. Sorridi. E perché? E poi chi te lo dice è un adulto che non mi frega niente, mentre il mio giro non te lo dice neanche, ti spinge ai margini e poi ti espelle: perché fari i duri sì, ma i tristi mai. E’ una questione di immagine. Che noi vogliamo sempre divertirci. Che ci stiamo a fare sennò? Che tutto passa, ma qualche cosa rimane, ed è sempre la parte meno bella, più acida, che graffia. E temo che non ci sia trucco sufficiente per coprirlo, perché non è intorno agli occhi, ma dentro. E la faccia un po’ ingrugnata fa trendy, ma ci ho l’impressione che non sia una faccia che ti metti su tipo per cuccare o farti notare, ma perché non te la riesci a togliere che c’ha le radici dentro, profonde. Perché quando guardo il mare, non è la voglia di veleggiare che mi viene, ma quella di annegare. E questo non è bello. E la sera. Tipo quando perdo quei minuti affacciata alla finestra a fumare per non impregnare la stanza, che a me fregherebbe anche, ma lei rogna perché detesta quest’odore le ricorda mia padre, non è il cielo che vedo, né i colori, ma una coperta tesa, come quelle che da CSI copre i morti delle autopsie. E non so perché, ma non mi piace. E non so guardare più in là di domani, che già faccio fatica e non so neppure perché dovrei farlo. Ma un po’ mi ferisce. 

domenica 1 aprile 2012

tra moglie e marito...

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Tra tutte le frasi, lette e comprese, delle mie letture, che mi hanno dato più luce aiutandomi a capire la filigrana della vita quotidiana, c’è un pensiero di Jean Guitton (Sull’amore: libro sensazionale) che mi accompagna dal momento in cui, parecchi anni fa, lo incontrai. E mi sorprende come la sua essenziale semplicità, al limite del banale, di quel ordinario che nasconde le grandi saggezze, non sia dominio comune. Già questo dovrebbe farmene comprendere la profondità.
Dice dunque Guitton che quando siamo fuori di noi per la rabbia ciò che desideriamo è fare male. Senza alcun rispetto per l’altro. Questa è l’essenza dell’odio: ecco per non può esistere un odio santo, checché ne dicano in streaming pseudo comici predicatori. E che per noi è molto più facile fare male a chi amiamo di più, perché ne conosciamo l’intimità così nel profondo da sapere esattamente dove colpire per lasciare la ferita più profonda. Affermazione così corretta da avere un corollario immediato: quando vogliamo fare male a qualcuno che non conosciamo, ci attacchiamo a quei luoghi comuni che sappiamo possono ferire. Da qui certe offese che non hanno nulla di razzista, ma solo di becero. Come posso colpire duro la persona della quale non so nulla se non mistificando ciò che lo caratterizza? Quindi dagli al negro, al terrone, alla donna al volante, al fascista, al cattolico, al gay e così via: categorie utilizzate, secondo Guitton, non come offese razziste, ma come offese tout court.
Ora quando litigano marito e moglie, è lì che il coltello affonda con più profondità, perché la comunione è tale da lasciare ben poche parti dell’anima velate. E la familiarità produce quell’esperienza del dolore altrui da fornire, nell’impeto dell’ira, l’arma giusta nel momento giusto e mettere in bocca quella parola, che se ad un estraneo può apparire inoffensiva, tra coniugi assume la violenza di una mazza chiodata.
Il dramma, che la passione incollerita del momento nasconde, e c’è un che di diabolico in questo, è che l’unione è tale che ferendo l’altro, il colpo si riversa anche su di noi. E probabilmente va più in profondità, perché alla sofferenza si somma la vergogna.
Quando c’è: perché qui c’è la perla da scoprire. Provare rimorso, pentimento, misericordia per risalire insieme. Se prevale il rancore, il torto subìto, il desiderio di vendetta, è la nostra stessa vita che si sta sgretolando.