Quando i cinquant’anni sono stati raggiunti e superati con la velocità del suono di una sirena arrabbiata, tre sono le possibilità che rimangono all’uomo che non vuole rimanere ad attendere l’impatto indifeso e inconsapevole: farsi l’amante, farsi una macchina rossa, scrivere un blog. Dato che mi state leggendo (davvero? Mi state davvero leggendo?) avete compreso che ho scartato le prime due ipotesi. E per scelta volontaria e creduta, non certo forzata.

Ma che cosa e perché scrivere? Condividere, o l’illusione di farlo, aiuta spesso a sentirsi in compagnia di fronte alla piccole battaglie della vita: quelle grandi, si sa, le si può affrontare solo in compagnia di se stessi, senza nessuno scudiero o cavaliere al proprio fianco.

La prima delle sfide e quella che affettuosamente potremmo definire di san Giuseppe, che di fatto nomino mio speciale e personale protettore confidando sulla sua ironia e bonomia. In che cosa consiste questa sindrome? Nel sentirsi ovviamente il più imperfetto della famiglia dovendone invece apparire la guida salda. Non che con questo voglia affidarmi a una melliflua umiltà fasulla, l’autocompiacimento di sentirsi negare la denigrazione e gustare così una vanitosa ricompensa per la propria maliziosa modestia. Affatto. Lauto compiacimento può derivare solo dalla concretezza. Non che non sia vanitoso, tutt’altro: la vanità è sempre in agguato, come ben sa il diavolo impersonato da Al Pacino nel mondo degli avvocati.
Gli è che essendo proprio vanitoso e anche intelligente, so bene che l’ambizioso deve attingere a piene mani all’umiltà: per crescere, ambizione che può essere anche nobile e saggia, bisogna capire dove migliorare. E per capirlo non c’è che l’umiltà.
L’ambizioso vanesio e superbo farà una brutta e rapida fine.

Quindi qui sto: con una moglie tendente alla perfezione, pur con difetti marginali che provocano in me tanto irritazioni quanto ammirazione per la loro trascurabile banalità; con tre figli che, come recitano brutti film, hanno preso maggiormente da me i difetti, e quindi non posso accusarli di una eredità che ho trasmesso loro; con un lavoro che amo e che ogni mese mi sfida sempre di più, aiutandomi a non fare mai mia la sicurezza.
Di che scrivere dunque?

Della precarietà, della inadeguatezza che mi rende comico a me stesso, specchio delle cose che ho appreso e che rivedo, con squarciante veridicità, nel mio quotidiano.

martedì 27 dicembre 2011

Gli uomini non cambiano


Lampi di blog: le ristampe della prima stagione





Leggere fa male. Non nel senso che è dannoso. Nel senso che è doloroso. Ogni volta che, grazie ad un libro, sia esso un saggio o un romanzo, la consapevolezza cresce, ne deriva una ferita: perché ti rendi conto che sbagli, che potresti fare meglio, che hai perso una occasione. E c’è poco da schermarsi dietro alla buona fede. I tagli rimangono, sia in te sia nelle persone che ami. Prendi questo studio: i cinque linguaggi dell’amore. Sei arrivato agli ultimi due dei cinque idiomi, quelli apparentemente più semplici: il dono e i gesti di servizio. E che cosa scopri? Che c’è dono e dono, che il dono per essere tale deve essere gratuito (niente condizioni se… allora), deve piacere al destinatario e non a te (ehm, parliamone) e deve essere consegnato con le dovute cerimonie, non buttato sul tavolo del tipo “tiè pija!”. E già qui l’esame di coscienza segna un meno duemila punti. Se poi approfondisci scopri che ci sono dei falsi doni, quelli fatti per compiacere chi regala: per sostituzione, per compromesso, per corruzione, per calmarsi la coscienza, per debolezza.
Quindi sei già un po’ in crisi perché hai capito di avere sbagliato molto fino a qui (vogliamo mettere sul tavolo le magliette Hard Rock rifilate ai figli come souvenir?) e stai iniziando a fare un piano di rientro, quando ti piomba sul collo la scure dell'altro linguaggio. Che per par conditio stava approfondendo la moglie, rendendomi edotto delle scoperte sino ad indurmi a leggere con attenzione il testo.
Ora ogni uomo sa che, comunque vada, sbaglia lui: non solo, sbaglia sempre, per definizione, senza possibilità di redenzione. Perché ti dicono: guarda che non hai mai fatto questo, guarda che mi aspetto che tu faccia quest’altro, guarda devi cambiare. Allora ti sforzi, ci provi, ci riesci. E che cosa ti dicono: bella forza te l’ho detto io! Non comperi mai fiori? Una domenica lo fai. Torni felice come un bambino, che si aspetta sorriso e carezza. E che cosa ricavi? “Era ora, se non te l’avessi detto…”. Quindi, sapendo questo, lasciamo perdere. Sorridiamo comunque e procediamo. Noi, e sottolineo noi, non teniamo una lista delle rimostranze lunga anni…..
Torniamo alle lingue: ora scopro che c’è un linguaggio fatto di gesti di servizio, come dicevo ieri, che consiste nel portare via un lavoro alle donne di casa, coniuge in primis. Nei suoi tempi. Perché anche qui c’è una grossa differenza: il tempo è liquido. Quando una donna chiede al marito di mettere in ordine la cucina, e lui, che è disciolto sul divano a guardare la partita, acconsente, sta facendo una affermazione della quale è profondamente convinto. Nessuno dei due ha indicato una scadenza temporale. Ovviamente l’uomo sa quando sarà il momento giusto: nell’intervallo, dopo la fine della partita, dopo le interviste con i tecnici, dopo i commenti da studio. Per la moglie è sempre hic et nunc: ora.  Siamo su fusi orari diversi: diciamocelo una volta per tutte ed evitiamo dolorose incomprensioni, specie mentre la tua squadra del cuore è sotto e sta attaccando a tutto organico.
Quindi, se c’è un linguaggio dei gesti di servizio nel fare, c’è anche nel ringraziare. Così studiando e leggendo casi da manuale riportati dall’autore, ho scoperto che, se non si può addurre come mia colpa l’aver lesinato complimenti sulla bellezza, l’intelligenza, la caparbietà, lo stile educativo, la professionalità, ho di certo mancato di elogiare con i giusti termini la “servizievolezza”; chessò qualche cosa del tipo: come pieghi bene le camice, anche questa sera hai fatto da mangiare, ma quante lavatrici hai steso oggi!, come butti via la spazzatura tu non lo fa nessuno, non avevo mai visto una lavastoviglie caricata in questo modo, grazie per non lasciare mai il frigorifero vuoto, ce ne vorrebbero di donne che compilano la lista della spesa come te, e via dicendo.
Ma vi rendete conto che noi ci accontentiamo di molto meno?
Non importa, siccome vi amiamo tantissimo, impareremo anche a lodare il modo sublime e inavvertito con il quale conducete la vita quotidiana, servendoci come re senza farcene accorgere, perché siete fate silenziose e serene e ci perdonate la sindrome del guerriero, che ritorna stanco dalla battaglia e vuole essere celebrato e riverito. Perché anche voi ci amate tantissimo.
Solo, per favore, la prima volta che riusciremo a concentrarci e, con un sorriso fanciullesco e compiaciuto, con l’ansia di chi finalmente risponde giusto alla crudele prof di greco che ha chiesto un aoristo passivo, vi diremo “come è apparecchiata bene la tavola”, non rispondeteci “eh già, dopo che te l’ho detto e ridetto, finalmente ci sei arrivato: e non dirlo con quel tono che mi sento presa un giro”. Più di così noi non riusciamo a fare…. 

Nessun commento:

Posta un commento