Quando i cinquant’anni sono stati raggiunti e superati con la velocità del suono di una sirena arrabbiata, tre sono le possibilità che rimangono all’uomo che non vuole rimanere ad attendere l’impatto indifeso e inconsapevole: farsi l’amante, farsi una macchina rossa, scrivere un blog. Dato che mi state leggendo (davvero? Mi state davvero leggendo?) avete compreso che ho scartato le prime due ipotesi. E per scelta volontaria e creduta, non certo forzata.

Ma che cosa e perché scrivere? Condividere, o l’illusione di farlo, aiuta spesso a sentirsi in compagnia di fronte alla piccole battaglie della vita: quelle grandi, si sa, le si può affrontare solo in compagnia di se stessi, senza nessuno scudiero o cavaliere al proprio fianco.

La prima delle sfide e quella che affettuosamente potremmo definire di san Giuseppe, che di fatto nomino mio speciale e personale protettore confidando sulla sua ironia e bonomia. In che cosa consiste questa sindrome? Nel sentirsi ovviamente il più imperfetto della famiglia dovendone invece apparire la guida salda. Non che con questo voglia affidarmi a una melliflua umiltà fasulla, l’autocompiacimento di sentirsi negare la denigrazione e gustare così una vanitosa ricompensa per la propria maliziosa modestia. Affatto. Lauto compiacimento può derivare solo dalla concretezza. Non che non sia vanitoso, tutt’altro: la vanità è sempre in agguato, come ben sa il diavolo impersonato da Al Pacino nel mondo degli avvocati.
Gli è che essendo proprio vanitoso e anche intelligente, so bene che l’ambizioso deve attingere a piene mani all’umiltà: per crescere, ambizione che può essere anche nobile e saggia, bisogna capire dove migliorare. E per capirlo non c’è che l’umiltà.
L’ambizioso vanesio e superbo farà una brutta e rapida fine.

Quindi qui sto: con una moglie tendente alla perfezione, pur con difetti marginali che provocano in me tanto irritazioni quanto ammirazione per la loro trascurabile banalità; con tre figli che, come recitano brutti film, hanno preso maggiormente da me i difetti, e quindi non posso accusarli di una eredità che ho trasmesso loro; con un lavoro che amo e che ogni mese mi sfida sempre di più, aiutandomi a non fare mai mia la sicurezza.
Di che scrivere dunque?

Della precarietà, della inadeguatezza che mi rende comico a me stesso, specchio delle cose che ho appreso e che rivedo, con squarciante veridicità, nel mio quotidiano.

venerdì 27 aprile 2012

L'incrocio delle vite

Prossimo post domenica 29 aprile 






C’è questo nuovo serial, che ne buttano fuori uno alla settimana e fai fatica a stargli dietro. Ma questo vale. La pena intendo. E’ un po’ maschile d’accordo. No, non perché sia uno spara-spara. Piuttosto perché è un po’ borderline con la fantascienza, ma non quella esplicita alla Spazio 1999 o Star Trek. No.
Quella strisciante, alle Lost, Fringe, Alcatraz. Quello sconfinamento in un terreno che è ambiguamente (im)possibile, forse (im)probabile. Insomma. Piace poco alle donne.
Invece c’è una profondità che merita.
Ecco, una versione più intensa di Crash, il film, e di Flash Forward.
E poi c’è quello di 24, Kiefer Sutherland, un bel fieu…
Si intitola Touch e parla del destino: c’è un bambino che sembra autistico ed invece è si una specie superiore, uno che vede come la vita dell’uomo sulla terra sia una guerra e ci sia bisogno di solidarietà per vincerla. Vede le connessioni che la Provvidenza, questo lo dico io, tesse tra le persone, solo che lo vogliano, e con l’aiuto del padre, che solo poco alla volta lo scopre, snoda i fili, li dipana, spalanca i collegamenti, rende la gioia, risolve i problemi.
Banale?
No. A me sembra che riveli come la Provvidenza ci sia davvero, ma che richieda il nostro aiuto e che se vogliamo darlo dobbiamo superare la comodità, metterci la faccia, impegnarci. Soprattutto metterci in ascolto, perché Dio parla piano, sussurra, usa linguaggi diversi dai nostri. E si limita a suggerire.
Vale la pena, fidatevi. Poi mi dite.

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