Quando i cinquant’anni sono stati raggiunti e superati con la velocità del suono di una sirena arrabbiata, tre sono le possibilità che rimangono all’uomo che non vuole rimanere ad attendere l’impatto indifeso e inconsapevole: farsi l’amante, farsi una macchina rossa, scrivere un blog. Dato che mi state leggendo (davvero? Mi state davvero leggendo?) avete compreso che ho scartato le prime due ipotesi. E per scelta volontaria e creduta, non certo forzata.

Ma che cosa e perché scrivere? Condividere, o l’illusione di farlo, aiuta spesso a sentirsi in compagnia di fronte alla piccole battaglie della vita: quelle grandi, si sa, le si può affrontare solo in compagnia di se stessi, senza nessuno scudiero o cavaliere al proprio fianco.

La prima delle sfide e quella che affettuosamente potremmo definire di san Giuseppe, che di fatto nomino mio speciale e personale protettore confidando sulla sua ironia e bonomia. In che cosa consiste questa sindrome? Nel sentirsi ovviamente il più imperfetto della famiglia dovendone invece apparire la guida salda. Non che con questo voglia affidarmi a una melliflua umiltà fasulla, l’autocompiacimento di sentirsi negare la denigrazione e gustare così una vanitosa ricompensa per la propria maliziosa modestia. Affatto. Lauto compiacimento può derivare solo dalla concretezza. Non che non sia vanitoso, tutt’altro: la vanità è sempre in agguato, come ben sa il diavolo impersonato da Al Pacino nel mondo degli avvocati.
Gli è che essendo proprio vanitoso e anche intelligente, so bene che l’ambizioso deve attingere a piene mani all’umiltà: per crescere, ambizione che può essere anche nobile e saggia, bisogna capire dove migliorare. E per capirlo non c’è che l’umiltà.
L’ambizioso vanesio e superbo farà una brutta e rapida fine.

Quindi qui sto: con una moglie tendente alla perfezione, pur con difetti marginali che provocano in me tanto irritazioni quanto ammirazione per la loro trascurabile banalità; con tre figli che, come recitano brutti film, hanno preso maggiormente da me i difetti, e quindi non posso accusarli di una eredità che ho trasmesso loro; con un lavoro che amo e che ogni mese mi sfida sempre di più, aiutandomi a non fare mai mia la sicurezza.
Di che scrivere dunque?

Della precarietà, della inadeguatezza che mi rende comico a me stesso, specchio delle cose che ho appreso e che rivedo, con squarciante veridicità, nel mio quotidiano.

sabato 2 agosto 2014

La corrente del Pacifico



Ti dice un cartello qui davanti all’oceano che se ti prende una corrente non devi certo cercare di combatterla, ma farti trascinare finché ti abbandona o ti lancia nella direzione che desideri, perché comunque lei è più forte di te.
Già perché la natura è più forte, in quanto esiste e segue delle regole senza deflettere.
Mi veniva in mente questo contrasto: da un lato le cose che capitano, dall’altro l’ossessione per trovare sempre un responsabile. Che non è in sé una cosa sbagliata, quando non diventa l’ossessione per controllare tutto. Solo se esercito un controllo sulle cose sono responsabile, solo se sono io che posso disporre di tutto, sono responsabile.
Allora forse in questa caccia al colpevole, in questa denuncia di tutto, in questa proliferazione di cause e di liberatorie per evitare le cause, in questa follia di avvocati e citazioni, di titoloni di giornale e magistrati ci sta dentro un desiderio solo: quello di rendere l’uomo Creatore e gestore del creato.
E non sono certo fatalista, né voglio dire che c’è un destino che determina le cose, ma che la casualità esiste e che non c’è sempre piena avvertenza e deliberato consenso dietro ogni azione perché l’uomo non può tutto.

E non è certo il Dio di questo pianeta.

Nessun commento:

Posta un commento