Quando i cinquant’anni sono stati raggiunti e superati con la velocità del suono di una sirena arrabbiata, tre sono le possibilità che rimangono all’uomo che non vuole rimanere ad attendere l’impatto indifeso e inconsapevole: farsi l’amante, farsi una macchina rossa, scrivere un blog. Dato che mi state leggendo (davvero? Mi state davvero leggendo?) avete compreso che ho scartato le prime due ipotesi. E per scelta volontaria e creduta, non certo forzata.

Ma che cosa e perché scrivere? Condividere, o l’illusione di farlo, aiuta spesso a sentirsi in compagnia di fronte alla piccole battaglie della vita: quelle grandi, si sa, le si può affrontare solo in compagnia di se stessi, senza nessuno scudiero o cavaliere al proprio fianco.

La prima delle sfide e quella che affettuosamente potremmo definire di san Giuseppe, che di fatto nomino mio speciale e personale protettore confidando sulla sua ironia e bonomia. In che cosa consiste questa sindrome? Nel sentirsi ovviamente il più imperfetto della famiglia dovendone invece apparire la guida salda. Non che con questo voglia affidarmi a una melliflua umiltà fasulla, l’autocompiacimento di sentirsi negare la denigrazione e gustare così una vanitosa ricompensa per la propria maliziosa modestia. Affatto. Lauto compiacimento può derivare solo dalla concretezza. Non che non sia vanitoso, tutt’altro: la vanità è sempre in agguato, come ben sa il diavolo impersonato da Al Pacino nel mondo degli avvocati.
Gli è che essendo proprio vanitoso e anche intelligente, so bene che l’ambizioso deve attingere a piene mani all’umiltà: per crescere, ambizione che può essere anche nobile e saggia, bisogna capire dove migliorare. E per capirlo non c’è che l’umiltà.
L’ambizioso vanesio e superbo farà una brutta e rapida fine.

Quindi qui sto: con una moglie tendente alla perfezione, pur con difetti marginali che provocano in me tanto irritazioni quanto ammirazione per la loro trascurabile banalità; con tre figli che, come recitano brutti film, hanno preso maggiormente da me i difetti, e quindi non posso accusarli di una eredità che ho trasmesso loro; con un lavoro che amo e che ogni mese mi sfida sempre di più, aiutandomi a non fare mai mia la sicurezza.
Di che scrivere dunque?

Della precarietà, della inadeguatezza che mi rende comico a me stesso, specchio delle cose che ho appreso e che rivedo, con squarciante veridicità, nel mio quotidiano.

sabato 31 ottobre 2015

La sfida della misericordia



E sì, sopra la testa c’ha sempre qualche cosa che pende. Magari fosse la spada di Damocle, il damerino invidioso del tiranno Dionigi di Siracusa che comprende in modo drammatico l’altra faccia della medaglia del potere.
Magari.
Perché una spada la puoi evitare.
Un giudizio invece no.
E sopra la nostra testa, che tu lo sappia oppure no, o peggio: finga di non saperlo, c’è la spada a doppia lama di un verdetto ineludibile. Il bello –o il brutto, vedi tu- è che dipende da te.
Già perché su quella lama sta scritta una promessa –a me pare, talvolta, più una minaccia- che Gesù quasi di sghembo lascia cadere sul tavolo: “col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati“. Matteo, 7, 2. Sta lì, secco, duro, come inciso sulla pietra.
Pare che ce lo siamo scordati. Io per primo! Mica mi tiro indietro. Sarebbe come cercare di rompere lo specchio nel quale ti vedi.
Io per primo. Lo ribadisco così nessuno può puntare il ditino.
C’è che siamo tutti intransigenti e inflessibili coi peccati degli altri.
Finisce il sinodo, e tutti –dai, diciamo molti perché così un po’ di spazio di indulgenza me lo creo- iniziano a sparare il loro fuoco di fila partendo non dal testo ufficiale, ma dalle prime pagine dei giornali.
E sì che ormai molti, LaCroce in prima fila, il giochetto te l’hanno spiegato: si chiama disinformazione, manipolazione, inganno. È il gioco in cui il diavolo è maestro, lo dice anche Gesù. Che è l’ingannatore dei suoi fratelli.
E mi ci caschi tutte le volte?
Che basta un minimo di competenza non dico di teologia, ma solo di funzionamento della Curia per sapere che l’affermazione “passa la comunione ai divorziati per un solo voto” contiene più inesattezze che parole.
Dai, te l’ha chiarito anche il Papa che il sinodo è consultivo e non possiede il potere legislativo, che non cambia le regole, semmai propone non nuovo dogmi, ma nuovi percorsi pastorali.
E poi basta che vai a leggerti il testo per capire che nulla di ciò, che sta nel titolo, è in realtà riportato nel documento ufficiale.
Dicono “sì, ma con la vicenda del caso per caso si nega la regola”. Ah sì? Ma non è ciò che la Chiesa, con i suoi confessori, ha fatto da sempre? Non è il discernimento che il padre spirituale applica nel valutare la coscienza? Non è ciò che l’etica spiega quando parla di circostanze? Di piena avvertenza e deliberato consenso, condizioni previste dal Catechismo §1857: “Perché un peccato sia mortale si richiede che concorrano tre condizioni: « È peccato mortale quello che ha per oggetto una materia grave e che, inoltre, viene commesso con piena consapevolezza e deliberato consenso »”. 
Invece vedi in giro sui social proclami di fuoco: sono peccatori! Alcuni li scomunicano ipso facto. Altri li vedono bruciare nel perdurare del peccato che nega la misericordia.
Le conversioni all’Innominato sono rare, il più delle volte è un cammino lento che accelera solo nella fine e la storia insegna che non sono i predicatori apocalittici quelli che ottengono più risultati. Il “verrà un giorno!” di Fra Cristoforo non fa che inasprire don Rodrigo, mica lo getta tra le braccia del confessore. È la pietà di Lucia che corrode il peccato dell’Innominato. È  la pazienza del padre che salva il figliol prodigo, non la sua apoditticità.
Ecco, ricordando poi quella spada che penzola sulla mia testa, quella minaccia di venire giudicato secondo il mio metro, io me ne starei un pochino più schiscio, più attento, che senza negare la regola l’attenzione si può prestare, oltre alla preghiera che cannoneggia da lontano. Che è la mia vita a dirti che sbagli, la mia fatica che produce gioia a indicarti la strada, non il proclama “o sesso o ostia” che ricorda ahimè più la battuta “ma quale morte?! Ho detto o Roma o Orte!” che non un comando divino.
Si dice Gesù ha perdonato invitando a non peccare più!
Già, ma non so voi, anche a me capita di dirlo con convinzione –condizione richiesta per l’assoluzione peraltro- che non lo farò più. E poi ci ricasco milioni di volte. Magari nel medesimo giorno. Se voi invece non peccate davvero più, datemi una vostra reliquia da venerare! Siete già Chiesa Trionfante!
Perché l’equilibrio che siamo chiamati a trovare certe volte lo vedo difficile come sommare pere alla mele, cosa che, secondo la mia insegnate delle elementari, era ontologicamente impossibile.
Lo dico in quanto quell’altra frase che mi sta qui, appena sopra lo stomaco, e mi procura ulcere continue, a me portato per formazione a privilegiare la regola, la razionalità, la verità, mi impone di farla sì questa verità, ma nella carità.
E mi scontro con la fatica di fare una miscela con due liquidi incompatibili, come acqua e olio.
Perché la verità è eterna, immutabile, immodificabile. Sta. Come la porta dell’inferno “Fecemi la divina potestate,/ La somma sapïenza e il primo amore/ Dinanzi a me non fur cose create,/Se non eterne, ed io eterna duro”. Sta. Punto. Non cambia.
E nessuno la vuole cambiare. Non muta una iota.
Invece la carità è personale, è calata dentro la situazione, dentro all’occasione. Caso per caso. Va amata questa persona che sta qui, a prescindere, senza pregiudizi.
Anche se è un samaritano.
Anche se è un peccatore pubblico. Anzi. Proprio per questo.
Perché Dio è amore (mico lo dico io, lo dice san Giovanni!).
E come faccio ad applicare criteri eterni a situazioni puntuali e cangianti?
Qui si gioca tutto.
E per non farvi pensare che la mia spada penda solo dalla parte del rigorismo, vale la pena ricordare che anche il lato opposto è oggetto di giudizio spietato: maledetti coloro che svieranno i miei figli e li indurranno a commettere il male. Anche per loro c’è la condanna.
Quindi la spada diventa filo sul quale camminare, corda tesa tra due baratri ugualmente terribili.
“Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore!” Romani, 7, 24-25 
Non c’è altra strada: aiutarci e fidarci.
Di chi? Della Chiesa che conterrà infiniti peccatori, ma anche anime sante che ne guidano altre.
E in fila dietro al Papa, come indicava un santo che mi sta molto a cuore, san Josemarìa Escrivà de Balaguer, che non passava per essere un lassista o un prete “di sinistra” per usare un termine da quotidiano: ad Jesum, cum Petro, per Mariam.

Quindi, se vogliamo stare sereni –no, non in quel senso, dai, non fate i furbetti- pur stando sotto la spada del giudizio, dobbiamo –lo credo- sforzarci di lottare tutti i giorni per stare ben attaccati alla Chiesa, capire dove ci vuole portare, imparare ad amare nella verità (cosa che peraltro questo quotidiano sta facendo dalla sua nascita e con un coraggio senza paragoni) e iniziare a comprendere come sia possibile farlo per non rimanere bruciati dalla nostra intransigenza, o dal nostro lassismo, nel momento in cui verremo saggiati con fuoco.

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