Già perché sarebbe bello essere perfetti. E non sbagliare
mai. Siccome questo piace, ma non è possibile, allora si crea la perfezione
artificiale, che è peggio di una droga. Perché non sfinisce solo il fisico, ma
sgualcisce la psiche, e attapira l’anima, la spegne, la dissolve.
Essere perfetti vuol dire non dover mai chiedere scusa, vuol
dire non dover mai rinunciare ai propri sogni perché sono perfettamente giusti.
Da dove nasce questa tendenza che abbiamo tutti dentro?
Dalla necessità di sentirci innocenti? Perché in fin dei conti a tutti piace essere
giusti. Sentirsi in pace. E se rimuoviamo dalla nostra vita colui che la pace
può dare, resta solo un tormento, l’atroce voce dentro di noi che rode, che si muove
e urla febbrile come un personaggio di Dostoevskij. Siamo tutti Raskolnikov.
Solo che non ci piace. Non vogliamo.
E quando anche riusciamo a zittire la coscienza,
schiacciandola come Pinocchio fece con il Grillo Parlante, ma si alza alta la
voce di chi ci ricorda gli errori, allora sono questi nemici che vanno dissolti
e distrutti.
Noi cerchiamo l’approvazione e la sappiamo dentro l’innocenza,
la giustizia, il sapersi giusto agli occhi di tutti. La cerchiamo anche in
rete, dai, è così… diciamocelo, io me lo dico per primo… voglio l’applauso, il
like, il commento positivo, che quando qualcuno si oppone è reato di lesa
maestà, ti aspetti che qualcuno dei tuoi fedeli –ah, no scusa, followers-
prenda le tue parti. (Diceva Al Pacino Satana ne L’avvocato del diavolo “la vanità è decisamente il mio peccato
preferito”).
Ma dentro, dentro che questo senso di abbraccio che
cerchiamo, e siccome abbiamo scacciato il perdono, perché abbiamo esiliato Chi
ce lo può dare, allora abbiamo bisogno di eliminare la colpa.
Se per sentirmi, e farmi approvare da altri come perfetto, devo
lottare e fare fatica, tanta fatica, e se sperimento da solo l’impossibilità di
arrivare alla perfezione, e se non riesco a trovare chi mi rialzi dopo le
cadute chi mi attenda, chi mi capisca, guardi dentro di me condividendo quella
fragilità che urla, che divora, allora non mi resta che rimuovo lo sforzo,
negarlo. E per farlo devo cambio metro, cancellare questo metro che mi misura,
mostrandomi l’errore, mettendo il luce le mie imperfezioni.
Divento metro a me stesso. E mi assolvo.
La tragedia però consiste nel fatto che negare la verità non
la cambia, la realtà anche se oscurata non svanisce e rimane come pietra di
inciampo. Contro la quale prima o poi si sbatte. E allora se non hai le
protezioni, ti fai male, tanto male.
Che proprio coloro che ti stavano a fianco, come predoni che
cacciano insieme e che quando uno di loro viene ferito si gettano su di lui per
sbranarlo, sono coloro che ti calpestano, ti annientano. Infatti tutte le volte
che qualcuno infrange il sogno, che mostra come la perfezione sia chimera, sia
semmai traguardo e non possesso, allora è necessario, si impone, devi farlo per
sopravvivere, devi spegnerlo, schiacciarlo, distruggerlo per mostrare come sia
un errore di produzione, uno scarto, non uno di noi.
Il branco ti si rivolta contro per restare nell’illusione,
come ne La grande magia tutto rimane
sospeso per negare al protagonista il dolore del tradimento. Il branco vuole
restare dentro la scatola per credere a quello che vuole, e quindi non può che
buttare fuori chi, in modo palese, mostri la sua fragilità.
E qui si mostra tutta la differenza tra una vita cristiana
che proprio incontro a questo escluso va, non per buttarlo fuori, ma per
abbracciarlo e riportarlo –ferito come la pecora smarrita, come il figliuol
prodigo- a casa, per rialzarlo, e una ideologia del volere che rigetta chiunque
sveli l’inganno per rimanerne prigioniera felice.
A che cosa può condurre il disperato bisogno di amore quando
non cerca il suo fine vero, ma si perde nel dilatarsi del suo io, a negarlo per
ammantarsi di falsità, quasi che fossero tiare e diademi, per dare retta alle
proprie voglie!
Che tutti abbiamo dentro questa voglia di sentirci amati per
quello che siamo, e non c’è bisogno di fingersi perfetti –fisico impeccabile,
sorriso smagliante, vestito a pennello, auto che romba, compagno senza pieghe,
figli senza preoccupazioni e senza difetti fisici comperati a misura- per
essere voluti bene. Basta accettare l’amore da chi lo può dare senza limiti.
Quale responsabilità abbiamo noi per farlo percepire anche a
chi sembra essere completamente sordo e autistico in questa sua ricerca che
dirige sulle cose invece che nella coscienza!
Quale impegno per essere quella voce che mostra l’innocenza
anche quand’è nascosta nel letame, e la sa tirare fuori, parlando chiaro e con
affetto!
II
Questa è una provocazione. Lo dico subito. Per evitare che
qualcuno poi salti su e mi minacci. Perché poi avrei paura io. E allora te lo
dico prima. Che sto provocando.
Chiamando fuori il pensiero. Grattando l’anima con la carte vetrata per vedere
che effetto fa. Spingendomi oltre
le colonne di Ercole.
Ti ho incuriosito eh? Tecniche di bassa retorica…
Non ce la meritiamo più la democrazia, non fa per noi. È un
errore storico.
È una forma sottile e subdola di dittatura.
Ecco la bomba.
Abbasso la democrazia.
Perché quando la inventarino i greci avevano un prerequisito
che era così fondativo e ineludibile da non essere neanche citato. Se respiri
mica lo ricordi ad ogni passo. Che devi respirare. Inspiri ed espiri. Punto.
Così la democrazia.
Ha bisogno dell’etica, della verità. Del fondamento.
Già, ma che cosa è l’etica? È la verità sul bene e sul male.
Sul significato della vita. E ti allena a pratica virtù che, in campo sociale,
suonano così: c’è un bene della comunità che è più grande del mio interesse di
individuo.
Ed è il punto chiave. Perché la democrazia non può fare a
meno di questo. Possiamo dissentire su come raggiungere il bene della polis, ma
non abbiamo il minimo dubbio che quello prevalga sul mio egoismo. Sono pronto
ad affrontare tutto, anche la sconfitta, anche la morte, perché la comunità viene
prima.
Concetto che poi è stato elevato dal cristianesimo ad un
valore più alto, dato che la comunità diventa il corpo mistico di Cristo. E non
posso salvarmi senza tenere in conto la pratica di virtù che sono per
definizione sociali: se quello che resta alla fine di tutto è la carità, è
evidente che il cristiano non può salvarsi nel suo cubicolo in isolamento
totale –non solo fisico, ma anche spirituale che la clausura non è
annichilimento delle relazioni, anzi amplificazione per altri canali- e quindi non
può che essere un animale sociale.
Oggi siamo passati dal bene comune al voglio personale.
Ciò che conta sono i miei diritti, quali che siano. Perché
io non SONO, io VOGLIO. Che poi è il nome del demonio. Mentre Dio si presenta a
Mosé spiegando l’essenza “io sono colui che è” il diavolo si racconta
attraverso la volontà, il volere, e il non volere, non voler servire, quindi
amare. Chissà se gli fischiano le orecchie a Nietzsche?
Oggi noi vogliamo. Per noi. Per i nostri obiettivi. Siamo
così implosi in noi che cancelliamo ciò che dovrebbe durare per sempre, ma che
vediamo come un peso (il matrimonio) e pretendiamo invece duri in eterno ciò
che ci interessa, a noi come vantaggio personale, come il contratto di lavoro.
A prescindere.
Vogliamo un figlio. Non lo vogliamo.
Tutto qui
E quindi ce ne freghiamo del bene comune.
Votiamo e decidiamo per riempire la pancia.
Abbiamo stravolto i principi essenziali della democrazia,
che è un servizio alla comunità.
Ma dove la comunità non esiste, al massimo finisce per
essere community, che è tutt’altro dato che è ispirata a vantaggi condivisi che
non vuol dire comuni, la democrazia si dissolve.
Non ce la meritiamo la democrazia. L’abbiamo illusa e
tradita.
Che quale dovrebbe essere il luogo nel quale insegni i principi
che la mantengono viva? No, non in televisione.
Il luogo è la communio
personarum ossia la famiglia come la definiva Giovanni Paolo II, dove ci si
ama a prescindere e si insegna, perche la si pratica, la carità reciproca che è
fatta di sacrificio voluto, con il sorriso alle labbra, perché si vuole il bene degli altri.
E cos’è che stanno distruggendo proprio in questa sua
radice?
Bravi! La famiglia!
Sostituendola con un fantoccio che si arroga il medesimo
nome, ma con finalità diverse. Diventa coabitazione
di egoismi, convivenza a termine finché ne traggo un vantaggio personale.
Che quando finisce pazienza, o anzi no, se finisce ti uccido perché non
sopporto il peso, che è una forma folle, diabolica, disumana di egoismo confuso
con amore.
È un caso secondo voi?
ottime riflessioni, come al solito. Io leggo e inizio a riflettere , a considerare, di mio da sola non ci arrivo ma mi nutro di questi "stimoli" esterni che comunque mi fanno crescere (si anche se ho passato i 50 :-) ah PS grazie per il..rimando..a Raskolnikov , ecco appunto,come scrivevo prima , imparo sempre cose nuove che mi incitano a pensare, cambiare, agire ..
RispondiEliminaGrazie mille!
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