Quando i cinquant’anni sono stati raggiunti e superati con la velocità del suono di una sirena arrabbiata, tre sono le possibilità che rimangono all’uomo che non vuole rimanere ad attendere l’impatto indifeso e inconsapevole: farsi l’amante, farsi una macchina rossa, scrivere un blog. Dato che mi state leggendo (davvero? Mi state davvero leggendo?) avete compreso che ho scartato le prime due ipotesi. E per scelta volontaria e creduta, non certo forzata.

Ma che cosa e perché scrivere? Condividere, o l’illusione di farlo, aiuta spesso a sentirsi in compagnia di fronte alla piccole battaglie della vita: quelle grandi, si sa, le si può affrontare solo in compagnia di se stessi, senza nessuno scudiero o cavaliere al proprio fianco.

La prima delle sfide e quella che affettuosamente potremmo definire di san Giuseppe, che di fatto nomino mio speciale e personale protettore confidando sulla sua ironia e bonomia. In che cosa consiste questa sindrome? Nel sentirsi ovviamente il più imperfetto della famiglia dovendone invece apparire la guida salda. Non che con questo voglia affidarmi a una melliflua umiltà fasulla, l’autocompiacimento di sentirsi negare la denigrazione e gustare così una vanitosa ricompensa per la propria maliziosa modestia. Affatto. Lauto compiacimento può derivare solo dalla concretezza. Non che non sia vanitoso, tutt’altro: la vanità è sempre in agguato, come ben sa il diavolo impersonato da Al Pacino nel mondo degli avvocati.
Gli è che essendo proprio vanitoso e anche intelligente, so bene che l’ambizioso deve attingere a piene mani all’umiltà: per crescere, ambizione che può essere anche nobile e saggia, bisogna capire dove migliorare. E per capirlo non c’è che l’umiltà.
L’ambizioso vanesio e superbo farà una brutta e rapida fine.

Quindi qui sto: con una moglie tendente alla perfezione, pur con difetti marginali che provocano in me tanto irritazioni quanto ammirazione per la loro trascurabile banalità; con tre figli che, come recitano brutti film, hanno preso maggiormente da me i difetti, e quindi non posso accusarli di una eredità che ho trasmesso loro; con un lavoro che amo e che ogni mese mi sfida sempre di più, aiutandomi a non fare mai mia la sicurezza.
Di che scrivere dunque?

Della precarietà, della inadeguatezza che mi rende comico a me stesso, specchio delle cose che ho appreso e che rivedo, con squarciante veridicità, nel mio quotidiano.

domenica 13 novembre 2011

La colonna sonora

Prossimo post mercoledì 16 novembre






Viaggio molto. E ascolto la radio. 24.
Non 24 radio, ma Radio24. Interessante. E utile.
Poi ci sono un paio di trasmissioni che non gettano solo uno sguardo secco e acuto sull’economia, ma strizzando l’occhio alle emozioni, alla letteratura, al cuore.
Voi siete qui. Conduce Matteo Caccia. Parla bene. Non scivola sui luoghi comuni, su quel fare radio da presuntuosi.
E racconta storie, che pare il primo Baricco, neanche quello di Totem, ancora prima, quello di Pickwick. Mi piace. Non indulge al manierismo, non gli piace sentirsi parlare.
E l’altro giorno mi ha conquistato. Leggendo una storia. Di Dodo. Che parlava delle canzoni che hanno fatto la vita.
Un gioco che mi piace. Quali sono le canzoni che hanno fatto la nostra vita? Lui ne chiedeva tre. Troppo poche. Perché sono tante. Troppe forse, ma sono lì, piantate al muro come un quadro, come una foto che ti ritrae con i calzoni corti, in bianco e nero, sbiadita, i contorni sfuocati, oppure digitale, mentre ti stringi a lei sul molo di Cape Codd. E come fai a negare un periodo della tua vita?
Allora giochiamo: elenchiamo la colonna sonora della nostra vita. Non tutta oggi, e non so se la finirò. Dipende da voi. Se vi piace o no. Altrimenti inutile sporcare la bacheca.
Se volete raccontarmi le vostre, fatelo qui su questa pagina, così resta visibile a tutti.
La prima canzone di cui ho memoria, dopo quelle che mi cantava mia nonna e che grondavano di struggente maledizione, di storie tormentate e infelici, con rari sprazzi di sole: la Capinera, profumi e balocchi, la marsina color zafferano, il vecchio frac, e la soave ninna nanna che mi cantava mia madre sulle note della Spagnola, canzone sanguigna e ardita per i primi anni Sessanta, la prima canzone di cui ho memoria dicevo è Ma che freddo fa, di Nada (allora Malanima). E poi subito dopo Un mondo d’amore del giovane Gianni Morandi, all’epoca in cui i dolci sospiri iniziavano a gorgogliare.
Poi, come un buio, dal quale emerge qualche strofa di Ti tirano le pietre, Io vagabondo, Mettete dei fiori nei vostri cannoni, ma come sfumati, inavvertiti. Ininfluenti.
E quando riapri gli occhi piomba lui, Baglioni. Non quello degli amori passionali. Ma quello degli amori irrealizzati, dei sogni bruciati prima ancora di volare, di quell’età surmunddrang che ha solcato l’adolescenza di chi si sentiva in seconda fila, stracciato, umiliato, perennemente inadeguato, di chi –come canterà anni dopo Ruggeri- si sedava timido e non mangiava mai perché gli chiedessero “cos’hai”. Poster. Sabato Pomeriggio.
A tanto Baglioni rispondeva solo il primo Cocciante: L’alba, Era già tutto previsto.
E nel cielo correva imperioso quel Cavallo Bianco che sembrava segno di ogni speranza e di un futuro finalmente capace di soddisfare ogni desiderio.











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2 commenti:

  1. Direi Claudio Villa, Granada ... e il Barbiere di Siviglia. Mio padre li adorava. Eppoi i dick dick... "vendo un po' di blu, dove il blu non c'è...". Poi Lando Fiorini e il mitico Elvis.
    Questo nella mia adolescenza e dopo sono arrivati i Righeira e Battiato. Baglioni poco.
    Il resto è arrivato senza lasciare particolari segni. Tutto si è fermato al "cerco un centro di gravità permanente" eppoi è finita la gioventù e sono arrivate le cose serie e meno musica nella mai vita. Certo non posso dimenticare F.Mercury e madonna o Micheal.

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  2. Claudio Villa! Eggià! I dik dik però sono venuti dopo per me... mi sa che mi tocca scrivere la seconda puntata... grazie della... provocazione ;-)))

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