Quando i cinquant’anni sono stati raggiunti e superati con la velocità del suono di una sirena arrabbiata, tre sono le possibilità che rimangono all’uomo che non vuole rimanere ad attendere l’impatto indifeso e inconsapevole: farsi l’amante, farsi una macchina rossa, scrivere un blog. Dato che mi state leggendo (davvero? Mi state davvero leggendo?) avete compreso che ho scartato le prime due ipotesi. E per scelta volontaria e creduta, non certo forzata.

Ma che cosa e perché scrivere? Condividere, o l’illusione di farlo, aiuta spesso a sentirsi in compagnia di fronte alla piccole battaglie della vita: quelle grandi, si sa, le si può affrontare solo in compagnia di se stessi, senza nessuno scudiero o cavaliere al proprio fianco.

La prima delle sfide e quella che affettuosamente potremmo definire di san Giuseppe, che di fatto nomino mio speciale e personale protettore confidando sulla sua ironia e bonomia. In che cosa consiste questa sindrome? Nel sentirsi ovviamente il più imperfetto della famiglia dovendone invece apparire la guida salda. Non che con questo voglia affidarmi a una melliflua umiltà fasulla, l’autocompiacimento di sentirsi negare la denigrazione e gustare così una vanitosa ricompensa per la propria maliziosa modestia. Affatto. Lauto compiacimento può derivare solo dalla concretezza. Non che non sia vanitoso, tutt’altro: la vanità è sempre in agguato, come ben sa il diavolo impersonato da Al Pacino nel mondo degli avvocati.
Gli è che essendo proprio vanitoso e anche intelligente, so bene che l’ambizioso deve attingere a piene mani all’umiltà: per crescere, ambizione che può essere anche nobile e saggia, bisogna capire dove migliorare. E per capirlo non c’è che l’umiltà.
L’ambizioso vanesio e superbo farà una brutta e rapida fine.

Quindi qui sto: con una moglie tendente alla perfezione, pur con difetti marginali che provocano in me tanto irritazioni quanto ammirazione per la loro trascurabile banalità; con tre figli che, come recitano brutti film, hanno preso maggiormente da me i difetti, e quindi non posso accusarli di una eredità che ho trasmesso loro; con un lavoro che amo e che ogni mese mi sfida sempre di più, aiutandomi a non fare mai mia la sicurezza.
Di che scrivere dunque?

Della precarietà, della inadeguatezza che mi rende comico a me stesso, specchio delle cose che ho appreso e che rivedo, con squarciante veridicità, nel mio quotidiano.

venerdì 18 gennaio 2013

L'amico che ti apre le porte del cielo





Carissimo Gianni, lasciatelo dire: sapessi quanto mi manchi.
Lascia che ti scriva di nuovo, perché forse non sono riuscito a farmi capire, che non avevo sussurrato a sufficienza, e non avevo aperto il mio cuore senza prima averlo ripulito dalle scorie e dalle amarezze.
Perché non so se ti ricordi: eri quello aperto e disponibile, un po’ boy scout ingenuo, un po’ chitarrista spensierato. Una via di mezzo tra i ragazzi dell’oratorio e quelli del collettivo. Stavi defilato in classe, per questo mi piacevi: non eri tra quelli che vedevo lontani, lanciati su mondi che non sapevo nemmeno immaginare, io un po’ nerd e un po’ imbranato, ma neppure tra quelli che persino io consideravo impresentabili anche se a 13 anni, nel pianeta della scuola media, tutto si colora solo in bianco e nero, e senza mezze misure è difficile separare le mezze calzette dalle mezze speranze.
Per questo c’eri tu. Che mi hai preso per mano e tirato fuori da un buco nel quale stavo sprofondando: quello della depressione pre-adolescenziale, quel non sentirsi all’altezza di un mondo che cambia, perché mentre sfumavano i sabati a giocare a subbuteo o a calcio e si affacciavano i pomeriggi a filare le ragazze e ad esplorare il territorio disegnato dalla pubertà, io perdevo colpi, arrancavo, scivolavo indietro e ne ero atterrito.

Io timido, io intimidito, io timoroso, io sensibile, io crudele, io tradito. Io. Sempre io. Solo io. Al centro. Di che cosa poi? Della mia solitudine? Del mio egoismo!

E tu mi facesti scivolare dentro nella vita una consonante che cambiò tutto. Una banale D che non voleva ancora dire bocca spalancata nelle risate, perché gli emoticon non erano nemmeno ipotizzabili, figurati la rete che per parlarsi bisognava stare in piedi davanti al telefono a muro inchiodato in corridoio!

Mi spiegasti, te lo ricordi ancora? Io sì, era domenica pomeriggio e pioveva e percorrevamo sicuri piazza Pompeo Castelli evitando le buche piene d’acqua, che era ora di lasciare da parte quell’io fastidioso e iniziare a pensare a Dio. Perché anche la commiserazione è egoismo. Fulminante. In quell’apparente mancanza di autostima si nasconde una rivendicazione rabbiosa di supremazia: un’ira fumosa che attinge imperiosamente dalle profondità dell’egoismo per imporre un’attenzione che non andrebbe neppure supplicata. Che entrambe sono figlie di quel peccato va sotto il nome di superbia. 

Perché quel seme che buttasti allora, ha germogliato lentamente ed è sbocciato con fragranza nell’età adulta, quando tutto perde la confusione di passioni accese e con l’ombra assume profondità: l’ho rivista milioni di volte quell’acidità di chi si erige a vittima, brandendo la propria banalità come una clava e incolpando il mondo di indifferenza, o peggio di insensibilità, quando invece dovrebbe scegliere il nascondimento e il servizio per ritrovare dapprima la dignità e poi la stima di Chi sa vedere nel nascosto, e magari poi anche di chi vede solo ciò che sta sotto il sole. Tu allora me la indicasti sottotraccia, con parole di un ragazzino appena sbozzato, ma con una lucidità che ancora oggi ti riconosco.
E lo facesti con una sicurezza che per me che ti ammiravo fu un colpo di frusta. Mi sbattesti in faccia le responsabilità, come quella volta che continuavo a rimandare il rientro al corso di judo dopo uno strappo e mi affrontasti a muso duro per dirmi che non ero onesto con me stesso e che dovevo decidere che cosa fare della mia vita. Perché eri così Gianni, secco e sicuro, come un eroe a cavallo, come John Wayne, un po’ solitario, ma non troppo, un po’ affascinante, ma senza svenevolezze. E sicuro, lo dico ancora, di quella fierezza che ti portava a esigere la medesima rettitudine si trattasse di avere fede –che mi rimproveravi di aver perso la Messa domenicale- o di superare la paura di affrontare un istruttore di judo che mi trattava un po’ male, da pischello, da deboluccio qual ero –la codardia è sempre stata la mia fragilità maggiore- perché per te il grigio non aveva non dico cinquanta sfumature, ma neppure ragione di esistere.
E ancora me lo tengo nel cuore perché accidenti sì come mi hai fatto male quel giorno. E quindi bene. Mi hai costretto a guardare in faccia la mia pigrizia e a prendere partito: o di qua o di là, come il bicarbonato che mia nonna diceva sempre che fa sempre effetto (o va giù o tira su). Così mi son buttato di qua, con la Grazia del tuo rimprovero e lo sconto che tu mi hai donato dinnanzi a Dio e sei stato il primo di una strada in cui al momento del bivio -no anzi a quello della locanda dove sostare una notte e che invece ti attirava come le sirene di Ulisse a non andartene più via, a fare casa invece che proseguire il viaggio- ho sempre trovato un samaritano che mi ha preso per il bavero, compelle intrare, e apostrofandomi come lo furono i discepoli di Emmaus, mi ha strappato via dalla comodità per portarmi avanti, un passo in più almeno, un confine in più: Alberto, Paolo, Giuseppe. Che tanto nessuno sa chi sono se non io.
Ecco, eri così Gianni e adesso? 

Adesso non lo so perché ti nascondi, ti neghi, non ti fai trovare, nascondi i tuoi recapiti neanche fossi una spia bolscevica. Se imploro l’unico tramite che ci unisce, da lui ottengo solo un fermo invito a lasciar perdere a far come se tu non esistessi più, fossi sparito dalla circolazione. E no che non posso farlo. Non si lasciano perdere le pietre miliari. Che ne è stato di quella fierezza, di quella fronte alta sempre al sole?

Tanti anni e siamo estranei potresti dirmi: ma non che non è vero! te lo ricordi quel verso di Vecchioni che commentavamo seduti sopra una barca rovesciata sulla spiaggia insieme a quella che sarebbe diventata tua moglie? "Non si è soli se qualcuno se ne è andato, si è soli se qualcuno non è mai venuto". Come si fa ad essere estranei quando i ricordi sono condivisi? Magari ti riattacchi a quelli, magari finisce per essere un po' malinconico, romantico. Ma va bene istess! E' come andare in bicicletta: non te lo scordi mai.

Che poi forse non è neanche vero che ti nascondi: forse è autodifesa. Forse sono io che sono scappato via.

Chi sono io per non ipotizzare di essere stato io quello che ti ha ferito e ti ha costretto a scappare, per difenderti, per non restare ferito troppo a fondo? Perché una cosa l'ho imparata: si può ferire a morte anche chi si ama senza accorgersene, perché siamo così insensibili tranne che per i presunti colpi che diciamo ricevere dagli altri. Se quindi ti avessi in qualche modo deluso o addolorato, non so se riuscirai a perdonarmi, ma sappi che non c'è stata malafede. Siamo così fragili, così incapaci di volere bene ricambiando coloro che ci stanno dando tutto, così banali nelle nostre scelte, che potremmo pugnalare il migliore amico senza rendercene conto. E ad evitare ogni equivoco, sono io quello che brandisce l'arma della quale si sta parlando. Sia chiaro.

Per cui, per farla breve e non tediarti oltre sappilo, per me resterai sempre quel tredicenne che sotto la pioggia mi apriva le porte del cielo. 

E quella immagine sarà il mio ricordo di te. Insieme ad un'altra che sta qui scolpita forte e chiara: Porto San Giorgio, estate, piazza Mentana. Tu con tuo fratello e Gino seduti nell'erba. Io che arrivo. E tu che suoni e canti quei versi che avevo scritto su Villenueve. Questa è l'icona dell'amicizia che non tramonta mai.

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