apparso su LaCroce quotidiano di martedì 5 maggio
Manca il lavoro, lo
dicevamo la scorsa settimana. Manca il lavoro o la voglia di farlo?
Tutti e due probabilmente e come i personaggi di una fiaba,
o di una tragedia alla Giulietta e Romeo, i due sono destinati a inseguirsi
senza mai trovarsi.
Qualche giorno dopo lo scivolone sugli stagisti di Expo,
ecco un bellissimo
pezzo di Luca Tobagi, uscito sul CorSera domenica 26 aprile, sullo smarrito
senso del lavoro.
Fa notare il giornalista milanese come si sia perso il
gusto del lavoro ben fatto, del lavoro portato a termine con passione. Insomma
del lavoro alla Peguy,
quello descritto nel acutissimo brano intitolato “LA SEDIA”:
“Un tempo gli operai
non erano servi.
Lavoravano.
Coltivavano un
onore, assoluto, come si addice a un onore.
La gamba di una
sedia doveva essere ben fatta.
Era naturale, era
inteso. Era un primato.
Non occorreva che
fosse ben fatta per il salario, o in
modo proporzionale
al salario.
Non doveva essere
ben fatta per il padrone,
né per gli
intenditori, né per i clienti del padrone.
Doveva essere ben
fatta di per sé, in sé, nella sua stessa natura”.
E questa passione era percepita, era il ponte che collegava
committente ed esecutore, che stabiliva una relazione dentro la quale si creava
un mistero, il senso del lavoro spianava la strada alla creazione.
Era un lavoro che aveva ben altro destinatario, come illustra
questa breve e intensa riflessione di San Josemarìa Escrivà de Balaguer:
“Mi piaceva salire su una delle torri
della Cattedrale di Burgos, per far contemplare da vicino a quei ragazzi la
selva di guglie, un autentico ricamo di pietra, frutto di un lavoro paziente,
faticoso. In quelle conversazioni facevo notare che tutta quella meraviglia non
era visibile dal basso. E, per materializzare ciò che tanto spesso avevo loro
spiegato, commentavo: questo è il lavoro di Dio, l’opera di Dio!: portare a
termine il lavoro professionale con perfezione, in bellezza, con la grazia di
questi delicati merletti di pietra”.
Il lavoro ha questo senso: contribuire alla creazione mentre
mi aiuta a migliorarmi nel compierlo. Perché io divento quello che faccio e nel
fare bene, con passione, il mio lavoro, miglioro me stesso per dare gloria a
Dio.
È questo senso del lavoro che Tobagi vorrebbe vedere oggi,
un lavoro dove si crei realmente una relazione basata sull’apprezzamento
reciproco, costruita a partire dall’esecuzione impeccabile e appassionata del
compito assegnato: “Come clienti, può
capitarci di rimanere delusi da un prodotto acquistato o da un servizio
ricevuto. Tale delusione di solito non nasce solo perché si è pagato un prezzo:
spesso riguarda il mancato soddisfacimento di un’aspettativa ed è tanto più
acuta quanto più percepiamo la distanza o il disinteresse di chi sta
«dall’altra parte». L’esecuzione meccanica di un compito può non bastare.”.
Perché questo non è più possibile? Dove s’è guastato il
senso? Dove si è persa questa dimensione verticale? Chi ha ucciso questo ponte
che, attraverso un lavoro ben fatto, genera relazioni costruttive?
Il lavoro è virtù e come ogni virtù, sciaguratamente, trascina
con sé due vizi: uno per eccesso ed uno per difetto.
Il vizio per eccesso ha dominato gli anni Ottanta e
dintorni: i workaholic, lavorotossici, che non potevano vivere se non per
lavorare, lo avevano eletto a scopo della vita, a fine ultimo. Il resto era
solo contorno, un fastidioso intervallo tra una giornata lavorativa e l’altra.
Li hanno eliminati le aziende stesse, dopo l’ubriacatura
iniziale. Se all’inizio sembravano eccellenti questi stakanovisti urbani, le
corporation si sono presto rese conto che figure del genere spaccano la
squadra, distruggono il tessuto aziendale, deprimono i colleghi e finiscono per
essere un peso.
Poi oggi sarebbero comunque in minoranza, nel mondo del
“tutto è tuo diritto”.
Oggi è l’epoca del lavoratore stanco, infastidito. Quelli
che la vita è fuori perché posso fare quello che voglio e ho diritto a tutto,
ho diritto a soddisfare il mio istinto, a disobbedire, che poi non è
disobbedire ma dare retta a me stesso a quello che voglio.
Oggi è l’epoca di chi ha confuso il diritto al lavoro con il
diritto a non fare fatica, a fare ciò che voglio, quando voglio.
Chiaro che non è generalizzato, chiaro che ci sono molti
–giovani ed adulti- che hanno ben altro modo di affrontare il lavoro e la vita.
Ma è altrettanto evidente che ci sia questa interpretazione distorta del
lavoro, che deriva pari pari dai falsi miti, quelli che appunto pretendono che
tu ti debba sentire libero di fare quello che vuoi.
E a lavorare si fa fatica.
Perché la fatica, la sofferenza, è implicita se vuoi
raggiungere la felicità e il senso. E se vuoi migliorare su questa strada.
“Tutto e subito” non fa parte della vita, è la strada verso
la morte della felicità, quella che si basa sul senso vero della tua esistenza.
“Tutto e subito” conduce alla negazione di ogni cosa che venga vista come un
ostacolo a soddisfare i propri desideri: che si tratti di un lavoro da fare, di
Expo, delle Sentinelle in Piedi.
Questa società dei diritti, in cui la pubblicità mal pensata
soffia sul fuoco acceso dai maitre à
penser dell’istinto, distrugge anche il senso del lavoro come migliore
occasione della persona di essere migliore, di impegnare se stessa in un’opera
che è sempre d’arte, che io pulisca la strada o diriga una orchestra o svolga
un intervento a cuore aperto. La nobiltà sta nell’impegno messo, nella
passione, nell’intenzione oltre che ovviamente nella cura, ma le due cose vanno
di pari passo. Non regaleresti mai un mazzo di fiori appassiti o una scatola di
cioccolatini scaduti. Così se il lavoro è mezzo per dare gloria, non puoi non
farlo al meglio di te stesso e con attenzione alle persone.
È questo il mondo che Luca Tobagi rimpiange. E sottolinea un
ulteriore fattore di decadenza: se da un lato c’è sufficienza nel fare, quasi
che ciò che conti sia togliersi di mezzo lo sforzo al più presto, dall’altro
manca sempre la dimensione del ringraziamento, dell’apprezzamento.
Il lavoro altrui è disprezzato: non se ne capisce il valore.
Tutti sono convinti di poter fare tutto meglio degli altri. E quindi ciò che
viene fatto è sempre scadente, sempre sottovalutato.
L’unico lavoro importante è il mio, il tuo… beh lo potrei
fare meglio se solo avessi tempo di fare anche queste banalità: “Apprezzare il merito degli altri è un
passaggio cruciale. Riconoscere che un lavoro ben svolto abbia un valore in sé
richiede la capacità e la volontà di farlo”.
Certo, se io sono convinto, come i falsi miti mi insegnano,
di essere il centro della vita, di essere l’unico importante, di essere chi ha
diritto a tutti, lo svilimento del lavoro altrui è immediata conseguenza.
Tiriamo le somme, perché non è di aspetti tecnici che stiamo
parlando, ma di felicità, di senso della vita, di relazioni umane: anche nel
lavoro i falsi miti producono disperazione e degradazione, svilimento,
impoverimento, prosciugamento. È
veramente questo che vogliamo per noi e i nostri figli?
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