Quando i cinquant’anni sono stati raggiunti e superati con la velocità del suono di una sirena arrabbiata, tre sono le possibilità che rimangono all’uomo che non vuole rimanere ad attendere l’impatto indifeso e inconsapevole: farsi l’amante, farsi una macchina rossa, scrivere un blog. Dato che mi state leggendo (davvero? Mi state davvero leggendo?) avete compreso che ho scartato le prime due ipotesi. E per scelta volontaria e creduta, non certo forzata.

Ma che cosa e perché scrivere? Condividere, o l’illusione di farlo, aiuta spesso a sentirsi in compagnia di fronte alla piccole battaglie della vita: quelle grandi, si sa, le si può affrontare solo in compagnia di se stessi, senza nessuno scudiero o cavaliere al proprio fianco.

La prima delle sfide e quella che affettuosamente potremmo definire di san Giuseppe, che di fatto nomino mio speciale e personale protettore confidando sulla sua ironia e bonomia. In che cosa consiste questa sindrome? Nel sentirsi ovviamente il più imperfetto della famiglia dovendone invece apparire la guida salda. Non che con questo voglia affidarmi a una melliflua umiltà fasulla, l’autocompiacimento di sentirsi negare la denigrazione e gustare così una vanitosa ricompensa per la propria maliziosa modestia. Affatto. Lauto compiacimento può derivare solo dalla concretezza. Non che non sia vanitoso, tutt’altro: la vanità è sempre in agguato, come ben sa il diavolo impersonato da Al Pacino nel mondo degli avvocati.
Gli è che essendo proprio vanitoso e anche intelligente, so bene che l’ambizioso deve attingere a piene mani all’umiltà: per crescere, ambizione che può essere anche nobile e saggia, bisogna capire dove migliorare. E per capirlo non c’è che l’umiltà.
L’ambizioso vanesio e superbo farà una brutta e rapida fine.

Quindi qui sto: con una moglie tendente alla perfezione, pur con difetti marginali che provocano in me tanto irritazioni quanto ammirazione per la loro trascurabile banalità; con tre figli che, come recitano brutti film, hanno preso maggiormente da me i difetti, e quindi non posso accusarli di una eredità che ho trasmesso loro; con un lavoro che amo e che ogni mese mi sfida sempre di più, aiutandomi a non fare mai mia la sicurezza.
Di che scrivere dunque?

Della precarietà, della inadeguatezza che mi rende comico a me stesso, specchio delle cose che ho appreso e che rivedo, con squarciante veridicità, nel mio quotidiano.

venerdì 27 luglio 2012

Str*** come sua madre


Scrosci di blog: replay


“Str*** come sua madre”: no, non è una offesa, anzi un sottile complimento. E non l’ho inventato io, ma Chiara e mia moglie insieme. Ed è diventata una frase liberatoria.
Ecco come è andata.
Ho bucato. No, non nel senso che anche io mi sono convertito alla lavatrice, ma in quello che ho forato una gomma. Anzi squarciata. Mezzogiorno di buco.
E lemme lemme me ne sono andato dal gommista. Sì perché per una serie di circostanze l’auto non ha la gomma di scorta.
Telefono alla figlia che doveva rientrare a casa per chiedere un passaggio. Escluso. Beh però magari mi potete portare di nuovo dal gommista quando devo andare a ritirarla nel pomeriggio.
Mah, vedremo. Mi dicono. Chiamo il figlio. Lui si rende disponibile. Più che pietà filiale credo solidarietà maschile.
Poi richiama mia moglie, che nel frattempo era insieme alla figlia.  Ridono. Mi dicono che hanno avuto una idea. Che siccome avevo espresso il desiderio di andare a correre, potrei unire l’utile al dilettevole e andare di corsa dal gommista. Ridono ancora.
E aggiungono che Chiara ha anticipato quello che sarebbe stato il mio commento : “Str*** come sua madre” appunto.
Che non è affatto vero. Ho riso anche io.
Ma da allora quella espressione è entrata nel lessico famigliare. Senza gli asterischi.
E ci è tornata in mente quella famosa mattina che ho accompagnato Letizia a Malpensa. Perché non appena messo le ruote sulla strada (integre e gonfie) ha iniziato a chiedermi perché facevo quel percorso e non un altro, e come mai avevo scelto quella opzione.
Che qui ci stava bene. L'epiteto intendo. 
E per la precisione la mia brillante e bella signora non merita affatto neanche l’ombra di simili appellativi, sia bene inteso, ma solo complimenti e affettuosi ringraziamenti.

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