Quando i cinquant’anni sono stati raggiunti e superati con la velocità del suono di una sirena arrabbiata, tre sono le possibilità che rimangono all’uomo che non vuole rimanere ad attendere l’impatto indifeso e inconsapevole: farsi l’amante, farsi una macchina rossa, scrivere un blog. Dato che mi state leggendo (davvero? Mi state davvero leggendo?) avete compreso che ho scartato le prime due ipotesi. E per scelta volontaria e creduta, non certo forzata.

Ma che cosa e perché scrivere? Condividere, o l’illusione di farlo, aiuta spesso a sentirsi in compagnia di fronte alla piccole battaglie della vita: quelle grandi, si sa, le si può affrontare solo in compagnia di se stessi, senza nessuno scudiero o cavaliere al proprio fianco.

La prima delle sfide e quella che affettuosamente potremmo definire di san Giuseppe, che di fatto nomino mio speciale e personale protettore confidando sulla sua ironia e bonomia. In che cosa consiste questa sindrome? Nel sentirsi ovviamente il più imperfetto della famiglia dovendone invece apparire la guida salda. Non che con questo voglia affidarmi a una melliflua umiltà fasulla, l’autocompiacimento di sentirsi negare la denigrazione e gustare così una vanitosa ricompensa per la propria maliziosa modestia. Affatto. Lauto compiacimento può derivare solo dalla concretezza. Non che non sia vanitoso, tutt’altro: la vanità è sempre in agguato, come ben sa il diavolo impersonato da Al Pacino nel mondo degli avvocati.
Gli è che essendo proprio vanitoso e anche intelligente, so bene che l’ambizioso deve attingere a piene mani all’umiltà: per crescere, ambizione che può essere anche nobile e saggia, bisogna capire dove migliorare. E per capirlo non c’è che l’umiltà.
L’ambizioso vanesio e superbo farà una brutta e rapida fine.

Quindi qui sto: con una moglie tendente alla perfezione, pur con difetti marginali che provocano in me tanto irritazioni quanto ammirazione per la loro trascurabile banalità; con tre figli che, come recitano brutti film, hanno preso maggiormente da me i difetti, e quindi non posso accusarli di una eredità che ho trasmesso loro; con un lavoro che amo e che ogni mese mi sfida sempre di più, aiutandomi a non fare mai mia la sicurezza.
Di che scrivere dunque?

Della precarietà, della inadeguatezza che mi rende comico a me stesso, specchio delle cose che ho appreso e che rivedo, con squarciante veridicità, nel mio quotidiano.

domenica 21 aprile 2013

I visi di BAires



Un paese si vede nelle facce: in qualche modo raccontano la sua storia e il suo futuro.  A Buenos Aires colpisce una cosa in particolare, per una città del mondo globalizzato e multietnico come orami sono tutte con rare eccezioni. Che quando cammini per Manhattan come a Milano, a Parigi come a Lisbona, fai fatica a distinguere quelli che una volta venivano definiti autoctoni o indigeni dagli immigrati storici da quelli recenti, così come nella vita è dura distinguere i nativi dagli immigrati digitali. Perché tutto il sangue si confonde e rimanda ad una unica origine, e la vita è lì a dimostrartelo. Con infinito umorismo. È che se cammini per i viali della capitale federale, se ti riposi nelle stradine ammalianti dei barri più sicuri; se ti siedi sulla piazza di
Maggio, qualche che sia il mese dell’anno, se riesci a procedere rapido sulla Avenida Florida, una copia che sta alla Lincoln Road di Miami Beach come le borse cinesi a quelle di Prada, sfuggendo ai cambiavalute che bramano dollari ed euro, a chi ti vuol vendere una crociera o un ristorante, ai tangeros che ballano e vogliono attirarti nel vortice, ai butta dentro delle boutique locali, così simili ai vecchi empori All’Onestà –quella che oltre ad essere la seconda squadra di basket di Milano era la nonna di Lidl, Oviesse ed Upim- e ai borseggiatori; se riesci a concentrarti sui visi, scopri che non ce n’è neppure uno di colore così intenso da indicare una discendenza africana. Tanti invece i tratti propriamente latinos, che stanno diluendo fino a farli scomparire quelli dei caucasici, che forse sarebbe meglio chiamare alpini, dato che sono parenti diretti di italiani finiti là con le grandi immigrazioni, dalla seconda metà dell’800 in poi.

E sono visi che non parlano di rassegnazione, magari di rabbia, ma sempre rivolti al futuro. Con una saudade che pare abbiano assorbito per infusione dai vicini brasiliani, ma meno triste, più caballera, più carica a trasformare la poesia in lavoro e questo in serietà.
D'altronde è figlio di questa terra quello Zanetti che è capitano coi fatti prima che con la fascia.












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