Quando i cinquant’anni sono stati raggiunti e superati con la velocità del suono di una sirena arrabbiata, tre sono le possibilità che rimangono all’uomo che non vuole rimanere ad attendere l’impatto indifeso e inconsapevole: farsi l’amante, farsi una macchina rossa, scrivere un blog. Dato che mi state leggendo (davvero? Mi state davvero leggendo?) avete compreso che ho scartato le prime due ipotesi. E per scelta volontaria e creduta, non certo forzata.

Ma che cosa e perché scrivere? Condividere, o l’illusione di farlo, aiuta spesso a sentirsi in compagnia di fronte alla piccole battaglie della vita: quelle grandi, si sa, le si può affrontare solo in compagnia di se stessi, senza nessuno scudiero o cavaliere al proprio fianco.

La prima delle sfide e quella che affettuosamente potremmo definire di san Giuseppe, che di fatto nomino mio speciale e personale protettore confidando sulla sua ironia e bonomia. In che cosa consiste questa sindrome? Nel sentirsi ovviamente il più imperfetto della famiglia dovendone invece apparire la guida salda. Non che con questo voglia affidarmi a una melliflua umiltà fasulla, l’autocompiacimento di sentirsi negare la denigrazione e gustare così una vanitosa ricompensa per la propria maliziosa modestia. Affatto. Lauto compiacimento può derivare solo dalla concretezza. Non che non sia vanitoso, tutt’altro: la vanità è sempre in agguato, come ben sa il diavolo impersonato da Al Pacino nel mondo degli avvocati.
Gli è che essendo proprio vanitoso e anche intelligente, so bene che l’ambizioso deve attingere a piene mani all’umiltà: per crescere, ambizione che può essere anche nobile e saggia, bisogna capire dove migliorare. E per capirlo non c’è che l’umiltà.
L’ambizioso vanesio e superbo farà una brutta e rapida fine.

Quindi qui sto: con una moglie tendente alla perfezione, pur con difetti marginali che provocano in me tanto irritazioni quanto ammirazione per la loro trascurabile banalità; con tre figli che, come recitano brutti film, hanno preso maggiormente da me i difetti, e quindi non posso accusarli di una eredità che ho trasmesso loro; con un lavoro che amo e che ogni mese mi sfida sempre di più, aiutandomi a non fare mai mia la sicurezza.
Di che scrivere dunque?

Della precarietà, della inadeguatezza che mi rende comico a me stesso, specchio delle cose che ho appreso e che rivedo, con squarciante veridicità, nel mio quotidiano.

mercoledì 26 dicembre 2012

Carissimo Fabio: lettere ad amici sperduti




Carissimo Fabio, le vuoi tirare fuori le #§@]§ allora?

Come facevi quando mi ringhiavi in faccia a pochi millimetri che sentivo il tuo alito fumato fin dentro l’intestino, e urlavi così forte che non percepivo neppure le parole, ma i tuoi pugni che roteavano sì che li vedevo, con la coda di quegli occhi che non cercavano di non mollare la presa del tuo sguardo. Che solo così potevo farti vedere quanto amavo le mie idee da non avere paura di te e dei tuoi compagni.
E poi siamo diventati amici, quando la stagione della passione si è autunnata e alle esplosioni di verità si è sostituita la ricerca della stessa, ma insieme, non contro.
Però non mi dire che non ti sei salvato dal fumo delle barricate per finire in banca pure tu! Perché non ti riconosco più adesso che padre mi sorridi sornione, un po’ ingrassato –beh, diciamocelo tra di noi, un BEL po’ ingrassato, che non è un problema di alimentazione, ma un specchio di quella tranquillità alla quale hai abdicato riponendo la volontà nell’astuccio che poi hai chiuso nell’ultimo cassetto della credenza, termine mai più azzeccato nella sua ambivalenza- e mi rispondi con tenerezza che son ragazzi, che bisogna capirli, che bisogna lasciar fare.
Così mi hai detto quando ti ho sbattuto sotto gli occhi le foto che posta tua figlia sua facebook, che un tempo le ragazze così le chiamavi con un termine così crudo e tagliente che non voglio ripeterlo, ma a te sì l’ho detto e mi hai guardato male, come se venissi da un tempo che hai rimosso e che non esiste più. “Ma no, ma cosa hai capito” mi hai sussurrato “son bravate, è per farsi apprezzar dagli amici, come la sigaretta: lo facevo anche io, per sentirmi grande ed era una stupidata, ma ci son passato come tanti altri”.
E mi lasci senza parole anche quando ti dico che insomma le avrai parlato, “ma di che cosa?” mi hai risposto candidamente, per poi confidarmi che lei con te non ci parla tanto e che perché ti dedichi un po’ d’attenzione le devi regalare qualche cosa: un cd, un telefono, un motorino, una vacanza. Col fidanzato.
Col fidanzato? A sedici anni?
Ma sì, cosa vuoi dirmi, mi hai risposto qui sì un po’ alterato, con il piglio di un tempo, che tu pensi che le ragazze oggi non… ? e allora se lo fanno tanto meglio controllare…!
Come? Cedendo? Aiutando? Che poi, ragazzi e ragazze peri sono, mica è diversa la storia.
Quando riprenderai a fare il padre? Quando ti assumerai le tue responsabilità? Forse non l’hai mai fatto. Perso tra un pannolino da cambiare e un viaggio alla sede centrale di Racine, Illinois, hai smarrito sull’oceano quella rabbia che ti spingeva a vietare di vietare, e sulle barricate con la forza ha smarrito anche il senso. E imbolsito dentro prima che fuori, ti trovi a inseguire le tue figlie, che l’altra è piccola ma aspetta solo qualche anno, per elemosinare l’affetto in cambio di una comprensione che non è che abdicazione dai tuoi doveri.
Dammi retta, svegliati, riscopri dentro quello spirito guerriero che ruggiva, e inizia a picchiare il tuo pungo sul tavolo per dire no. E si pronto a spiegare perché neghi. Che ad accondiscendere non c’è bisogno di dare ragioni.
Immaginati di avere di fronte me, la mia faccia di allora, l’età era la stessa, e di urlare sul mio viso. Forse ritroverai il senno.

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