Tutto
è grazia e tutto è periferia. Tutto è fango e tutto è carità. Sempre. Lo è
sempre stato. La vita è in Galilea non a Gerusalemme. Gesù sta con i malati, non
con i sani. O, meglio, con coloro che si ritengono tali. La differenza è lì. Se
tu, che sei cieco, dici di vedere, allora non ti curo.
Non
ti posso curare.
Sto
leggendo avidamente, e con grande profitto personale, il vangelo narrato da
Maria Valtorta e questa dimensione dell’Uomo-Dio che si sporca le mani, che le
infila senza paura nel letame –e certe vite sono anche peggio, e so di starci
in questo numero: lo voglio Lui come medico, io- e ne cava fuori un diamante da
sgrezzare, che rifiuta solo coloro che dicono di essere perfetti, perché non ha
nulla da offrire loro e perché sono loro a rifiutare Lui per primi, ecco questa
lettura qui, questa dimensione mescolata con la Pentecoste e con le notizie di
tutti i giorni, con una società che prende i miti e li indossa come gioielli,
perché pensa di dover rifulgere invece che stare all’ombra di Dio, ecco mi
costringe a ragionare, a vedere dentro le cose per cercare di cogliere il filo.
Anzi, il messaggio per me, personale. Perché Dio ti parla, mi parla. Dio mi chiama di continuo, dentro a ciò che
mi accade intorno, nei giornali che leggo, persino su Facebook, che per
esserGli amico mica Glielo devi chiedere e aspettare che ti risponda
accettando.
Così
in questo sabato italiano –tra parentesi: splendida questa metafora del sabato
per descrivere la nostra situazione, dove nostra è una realtà a cerchi
concentrici e l’Italia non ne è esclusa. Da Leopardi a Jovannotti passando per
Sergio Caputo si canta sempre la stessa realtà: che ce la si può fare ad avere
voglia di rialzarsi e speranza, perché non si può restare intrappolati nel
sabato, che è un po’ come quel 6 infinito che è cifra del diavolo, l’eterno
incompiuto- in questo sabato italiano, dicevo, leggo del trionfo degli yes nel referendum irlandese. E la prima
reazione è la disperazione, lasciargliela lì come fosse un gioco questa lotta
che sembra già persa. Ti vien voglia di restare chiuso in casa, accucciato come
una cosa posata in un angolo e dimenticata, di vivere questi brandelli di
futuro sprangato nella tua follia, finché vengano a prenderti, perché verranno
a prenderti, chi che sia, l’ISIS o altra cosa, verranno a prenderti e correrà sangue
e rotoleranno teste, se avrai coraggio, altrimenti ti scapperà via l’anima.
Ti
vien voglia di lasciare tutto e andare via, che ci sarà un angolino di terra,
dove come un soldato giapponese, rifugiarti ad aspettare la morte.
E
invece no. Invece ti viene la luce, per caso; ma no! Lo sai che non è per caso,
che è perché Lui ti corre incontro sempre, basta che tu pensi di fare un passo
e ti viene incontro.
E
capisci nell’ordine le seguenti cose:
a)
che il controllo non ce l’hai tu e non devi nemmeno cercare di avercelo,
b)
che, se vuoi essere servo buono e fedele, servi senza preoccuparti del
raccolto, che ci pensa Lui, che il grano lo fa crescere anche nella zizzania,
c)
che t’ha promesso che “non
prevarranno” e allora di che ti preoccupi?
d)
che forse, invece, ti chiede
di non mollare mai sì, ma di provare a fare come dice Lui e non come
dici tu e che varrebbe la pena di capire, di provarci almeno,
e)
che lasciar fare allo Spirito è quello che dice da sempre,
f)
che se lo sguardo lo tieni fisso su di Lui e non ti spaventi della
tempesta, ci puoi camminare sopra all’acqua, ma se appena pensi di fare da
solo, allora affoghi.
Ti
viene dunque il dubbio che tutto questo sia un grande quadro, o una grande
rappresentazione, che tutto porta scritto “più in là” e devi solo stare a
vedere dove sta la luna, mica fissarti sul dito.
Perché
la prevalenza è del cretino, la sottomissione del cristiano. (O l’obbedienza,
se preferisci, ma ci siamo capiti e anche l’aforismo ha le sue leggi di ritmo e
contrasto che richiedono scelte tra vocaboli).
Obbedire
quindi, stare sotto, fare da base in un’epoca che sfalda, che sbriciola, che
getta nel vento, in un vento in cui non ci sono risposte, che deve essere una
cosa ben triste e disperata, così come un mondo senza paradiso –te lo immagini?
Per me è proprio difficile!- che deve essere un inferno in realtà altro che un
solo cielo e tutti felici in un eterno oggi.
Così
inizi a farti domande e ti accorgi che questi falsi miti ci stanno portando
all’origine, là dove tutto è cominciato -che poi non sarà mica anche la fine?-
perché questo mondo qui mi sembra tanto simile a quello in cui il Figlio
dell’Uomo nacque e la sua Chiesa mosse i primi passi. Perché stiamo tornando al paganesimo, ad un mondo popolato da dèi e da
riti dionisiaci, alla credenza che per il corpo passa tutto e tutto è ammesso;
una società in cui la democrazia è assente o virtuale, come nelle poliarchie del tempo di
Gesù, in cui l’impero comanda e ti lascia giocare con i tuoi idoli purché non
rompi il giocattolo, non cerchi di metterti di traverso, che allora sì che
entra e distrugge, spezza ossa e crocifigge.
Come
sarebbe bello, qui, poter inserire con un colpo di bacchetta magica tutto il
libro e le conversazioni di don Fabio Bartoli sull’Apocalisse per capire come
sarà questa fine che non chiude ma spalanca!
E
però in quel mondo lì che cosa veniva chiesto ai cristiani? Che cosa ha fatto
il Cristo? Stava dentro le periferie della verità, in quel fango che era la
Galilea delle genti, stava a dialogare con la samaritana, a guarire il
lebbroso, ad ascoltare il fariseo timoroso che lo incontrava solo di nascosto,
abbracciava il pubblicano, si faceva vedere con la prostituta. Era scandalo
perché non perfetto.
Questo
ci ha insegnato: che la perfezione è un’iperbole, è uno sforzo, un cammino, non
una pretesa, un trono dal quale maledire gli altri, una superiorità
antropologica da sbattere in faccia al nemico durante una trasmissione
televisiva anche mentre va in onda la pubblicità. Quello è odio allo stato
puro, ricoperto di una violenta presunzione che equivale al peccato contro lo
Spirito Santo, quello che non otterrà perdono, stando al vangelo.
Ecco,
dentro questo mondo qui, che qualcuno vuole sia giunto ormai agli ultimi tempi,
stiamo tornando alle origini. E, se è vero che si parla di un paganesimo, di
ritorno è, non originale. Non è quindi prodotto dall’ignoranza di Dio, ma dal
suo rifiuto. O, se vogliamo essere pignoli, dal rifiuto di quello che viene
creduto essere oggi Dio, così come il demonio è riuscito a farlo apparire.
Apostasia invece di paganesimo? Rifiuto dell’umanità, una volta capita cosa
fosse e che senso avesse?
Vero
tutto. Questo solo però constato: siamo tornati ad un mondo che si vuole senza
Dio, senza riferimento alcuno se non a se stessi, padroni di tutto. Una società
che s’è creata nuovi dèi e si illude di poterli dominare, che spinge fuori dal
reale ogni riferimento a Dio,
perché s’illude di liberare i confini, spalanca sì le porte: non però per farne
uscire le costruzioni, per conquistare libertà impensabili e lungamente attese,
ma in realtà per farsi invadere da demoni che schiavizzano, riducono in
poltiglia, portano dolore qui e infelicità dopo.
E in
questa follia, finisce che s’illudona pure i forti, i saggi, i sapienti, quelli
che prenderesti per esempio. I quali invece, in buona fede, si lasciano sedurre
in virtù di quelle piccole crepe che sabotano la loro vita alla radice perché
nessuno vuole essere cattivo e allora quando sbagli non resta che illuderti che
il male non esista o stia negli altri..
(A
margine una curiosità: perché dagli auguri s’è espuso il Natale trasformandolo
in season greetings e si conserva la sacralità del Thanksgiving? A chi pensano di rendere
grazie? A Wall Street? Al FMI? A Obama?)
Fatto
è che in questo mondo ci siamo dentro, e allora che cosa ci viene chiesto? Di
essere pronti al martirio? Di annunciarlo al mercato, sulla strada, tra
schiavi, tra fabbricanti di tende? Di recuperare la carità?
Perché,
diciamolo, è ben diverso annunciare il Vangelo dalle catacombe, che oggi si
chiamano piazze delle Sentinelle, anziché dalle regge, dalle cattedre, dagli
scranni del potere.
E
se alla corona si è arrivati un tempo, è stato partendo dalla sabbia del
Colosseo, dalle prigioni di Gerusalemme, dalle croci di Nerone, dai massacri
nelle terre pagane.
Quindi
forse è lì che oggi dobbiamo andare a ricercare la traccia che s’era, se non
smarrita, diluita, fatta fragile.
Arrugginita.
Perché
il fondamento sta nell’umiltà, e questa raramente s’associa al potere, quale
che sia, alla certezza che il potere ti dà, anzi alla presunzione di
autorevolezza che invece si guadagna sul campo, rimboccandosi le maniche e
cingendo la veste per faticare con gli ultimi, con i servi, con i pastori, con
gli schiavi.
Mi
chiedo se non sia proprio l’umiltà la chiave per comprendere e discernere che cosa
sia vero e che cosa invece sia inganno, perché sfidare la perfezione può avere
due conseguenze: l’arroganza o la coscienza e quest’ultima permette all’umiltà
di irrompere e regnare nella propria vita.
Forse
ci vien chiesto questo oggi, ripartire dal basso, da un cuore sincero che prova
a capire il vicino di casa, il collega di scrivania, l’amico del bar e guidarlo
poco alla volta a capire che cosa si sta perdendo. Perché io di dolore intorno
ne vedo tanto. E sofferenza. E insensibilità. E paura.
E
allora conviene che ci sediamo sul sasso mentre intorno la lava scorre a fiumi,
brucia, azzera, confonde in una distruzione che cancella la civiltà, come alle
falde di un vulcano che vomita dolore e disperazione; sedersi lì con un amico
al fianco e ripetere quelle soavi parole: “Sono
felice di essere con te, Samvise Gamgee, qui alla fine di ogni
cosa”.
Perché
di questo solo siamo certi: le aquile a prenderti arriveranno di certo.