Si dice che gli elefanti tra di loro talvolta si
complimentino così: ”hai una memoria da donna!”. Ora è dimostrato che la nostra
capacità di immagazzinare dati è sempre parziale, ancorché sia altrettanto
scientificamente provato che le donne hanno questo dono in misura molto
maggiore degli uomini. Il punto è che la selezione dei ricordi non è casuale,
ma monodirezionale: l’accumulazione dei torti. Mi è folgorato questa certezza,
che è andata a riprendere certi studi fatti e poi nascosti in qualche centro
della memoria del quale avevo perso la strada, quando l’altra sera, di punto in
bianco, parlando di figli, mia moglie è saltata fuori a dire: “e poi quella
volta che dovevamo andare a Firenze in treno e ti sei fatto accompagnare in
stazione alla mattina da tuo padre in macchina mentre io sono venuta in
metropolitana. Eri proprio un viziatissimo figlio unico: sapessi come ti ho
detestato quel giorno…”.
Ora, sebbene la critica fosse ineccepibile, e sebbene io debba
ringraziare lei per avermi aiutato a deporre gran parte della mia figlio unicità
–perché, come diceva la nonna di Franca: gli uomini possono migliorare, ma
guarire mai- e sebbene il ricordo fosse legittimo, perché accidenti ricordarci
ancora con così viva memoria, testimoniata dal lampo di odio che per una
frazione ha squillato nei suoi occhi, un evento transitorio che data prima del
1985, dato che riguarda l’epoca del fidanzamento e che quindi possiamo
approssimatamente datare tra il 1982 e il 1984? Perché non provate a prendere
qualche lezione da noi che siamo in grado di dimenticare tra la camera da letto
e la cucina che ci avete detto di spegnere il fuoco sotto le patate e
ricordarcelo solo in presenza di un acre odore di bruciato? Perché Proust ha
avuto bisogno della madaleine per evocare il tempo perduto, a sua sorella,
ammesso che ne avesse una, non sarebbe servito che un ascoltatore paziente.
Orsù dunque, deponete questa rancorosa eredità del passato e guardate con noi
al futuro, che oggi sembra sì meno radioso che un tempo, ma è sempre dolce se
passato insieme.
Ma che cosa e perché scrivere? Condividere, o l’illusione di farlo, aiuta spesso a sentirsi in compagnia di fronte alla piccole battaglie della vita: quelle grandi, si sa, le si può affrontare solo in compagnia di se stessi, senza nessuno scudiero o cavaliere al proprio fianco.
Quando i cinquant’anni sono stati raggiunti e superati con la velocità del suono di una sirena arrabbiata, tre sono le possibilità che rimangono all’uomo che non vuole rimanere ad attendere l’impatto indifeso e inconsapevole: farsi l’amante, farsi una macchina rossa, scrivere un blog. Dato che mi state leggendo (davvero? Mi state davvero leggendo?) avete compreso che ho scartato le prime due ipotesi. E per scelta volontaria e creduta, non certo forzata.
Ma che cosa e perché scrivere? Condividere, o l’illusione di farlo, aiuta spesso a sentirsi in compagnia di fronte alla piccole battaglie della vita: quelle grandi, si sa, le si può affrontare solo in compagnia di se stessi, senza nessuno scudiero o cavaliere al proprio fianco.
La prima delle sfide e quella che affettuosamente potremmo definire di san Giuseppe, che di fatto nomino mio speciale e personale protettore confidando sulla sua ironia e bonomia. In che cosa consiste questa sindrome? Nel sentirsi ovviamente il più imperfetto della famiglia dovendone invece apparire la guida salda. Non che con questo voglia affidarmi a una melliflua umiltà fasulla, l’autocompiacimento di sentirsi negare la denigrazione e gustare così una vanitosa ricompensa per la propria maliziosa modestia. Affatto. Lauto compiacimento può derivare solo dalla concretezza. Non che non sia vanitoso, tutt’altro: la vanità è sempre in agguato, come ben sa il diavolo impersonato da Al Pacino nel mondo degli avvocati.
Gli è che essendo proprio vanitoso e anche intelligente, so bene che l’ambizioso deve attingere a piene mani all’umiltà: per crescere, ambizione che può essere anche nobile e saggia, bisogna capire dove migliorare. E per capirlo non c’è che l’umiltà.
L’ambizioso vanesio e superbo farà una brutta e rapida fine.
Quindi qui sto: con una moglie tendente alla perfezione, pur con difetti marginali che provocano in me tanto irritazioni quanto ammirazione per la loro trascurabile banalità; con tre figli che, come recitano brutti film, hanno preso maggiormente da me i difetti, e quindi non posso accusarli di una eredità che ho trasmesso loro; con un lavoro che amo e che ogni mese mi sfida sempre di più, aiutandomi a non fare mai mia la sicurezza.
Di che scrivere dunque?
Della precarietà, della inadeguatezza che mi rende comico a me stesso, specchio delle cose che ho appreso e che rivedo, con squarciante veridicità, nel mio quotidiano.
domenica 29 aprile 2012
venerdì 27 aprile 2012
L'incrocio delle vite
Prossimo post domenica 29 aprile
C’è
questo nuovo serial, che ne buttano fuori uno alla settimana e fai fatica a
stargli dietro. Ma questo vale. La pena intendo. E’ un po’ maschile d’accordo.
No, non perché sia uno spara-spara. Piuttosto perché è un po’ borderline con la
fantascienza, ma non quella esplicita alla Spazio 1999 o Star Trek. No.
Quella
strisciante, alle Lost, Fringe, Alcatraz. Quello sconfinamento in un terreno
che è ambiguamente (im)possibile, forse (im)probabile. Insomma. Piace poco alle
donne.
Invece
c’è una profondità che merita.
Ecco,
una versione più intensa di Crash, il film, e di Flash Forward.
E
poi c’è quello di 24, Kiefer Sutherland, un bel fieu…
Si intitola Touch e parla del destino: c’è
un bambino che sembra autistico ed invece è si una specie superiore, uno che
vede come la vita dell’uomo sulla terra sia una guerra e ci sia bisogno di
solidarietà per vincerla. Vede le connessioni che la Provvidenza, questo lo
dico io, tesse tra le persone, solo che lo vogliano, e con l’aiuto del padre,
che solo poco alla volta lo scopre, snoda i fili, li dipana, spalanca i
collegamenti, rende la gioia, risolve i problemi.
Banale?
No.
A me sembra che riveli come la Provvidenza ci sia davvero, ma che richieda il
nostro aiuto e che se vogliamo darlo dobbiamo superare la comodità, metterci la
faccia, impegnarci. Soprattutto metterci in ascolto, perché Dio parla piano,
sussurra, usa linguaggi diversi dai nostri. E si limita a suggerire.
Vale
la pena, fidatevi. Poi mi dite.
martedì 24 aprile 2012
Dare o ricevere? Delegare
Prossimo post venerdì 27 aprile
e prima del post oggi 25 aprile festeggiamo
XVII - 25/IV/1985
Post: dare, ricevere o delegare?
e prima del post oggi 25 aprile festeggiamo
XVII - 25/IV/1985
Post: dare, ricevere o delegare?
Qualche volta la carità, l'attenzione
per gli altri consiste più nel chiedere aiuto che nel dare. Con semplicità. E
in italiano corrente.
Non in donnese.
Meditate,
mogli, meditate.
E
non lo dico con sarcasmo o disprezzo. Piuttosto con affetto. Con dolcezza. Va
bene, lo ammetto, magari una spolverata di stizza. Ma buona eh!
Perché
lo so che è per eccesso di affetto che lo fate, per via di quella generosità
che è quasi implicita nella femminilità. Nella donazione, che è l’atteggiamento
ontologico femminile.
Ma
qualche volta, siccome siete umane anche voi, che wonderwoman sì, ma poi c’è la
quotidianità che prosciuga, questa generosità produce un effetto pernicioso che
sta sotto la sindrome del “tocca sempre a me fare tutto”.
Che
è anche vero, ma chiedere un aiuto non è una perdita di autorevolezza.
Ecco,
e qui subentra la vostra seconda patologia: il donnese, ossia quel linguaggio
che a voi è perfettamente comprensibile, ma che a noi, che nel sangue abbiamo
la rincorsa alla paciosa e pigra tranquillità, suona più come una
considerazione che come un appello.
Evitate
perciò affermazioni che a noi appaiono stravaganti come “ci sarebbe da pulire
il balcone” (ma quando mai, tanto hanno previsto pioggia per tutta la
settimana…) “dovrei stirare le tende” (e a che pro?) “guarda quel vetro come è
sporco” (ma va? Non me ne ero proprio accorto) e così via.
Perché
non è che noi non vogliamo aiutarvi, beh magari non proprio adesso che c’è la
partita, ma la buona volontà ce l’abbiamo anche. Ma ditecelo chiaro: “mi puoi
aiutare? Pulisci quel vetro? Lavi il balcone? Sparecchi mentre stiro le
tende?”.
Noi
capiamo, voi non vi arrabbiate e noi non ci prendiamo quello che poi,
inevitabilmente, ci rovescerete addosso.
Gotta
deal?
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sabato 21 aprile 2012
La verticalità della vita
prossimo post lunedì 23 aprile
Uno dei lati più
squisiti della vita è questa possibilità di trovare umorismo, e con esso
sorriso e profondità, in ogni circostanza, anche nelle più banali, effimere e
sdrucite. Ci vuole uno sguardo lucido per riportarcele davanti e spiegarle in
tutta la loro forza. Leggo su un blog della disavventura di una appassionata di
montagna che cerca invano di farsi capire dall’edicolante occasionale. Sta
cercando Vertical, rivista dell’ascensione. L’incauto venditore, che non
capisce –non solo il titolo, ma molte altre cose, e perde l’occasione- le
propone improbabili riviste di enigmistica. C’è da riflettere. Notare ad
esempio che cosa evoca la verticalità nel mondo di oggi: più che slanci mistici
(poteva essere anche una rivista di teologia o di filosofia) modestamente solo
l'orizzontalità degli incroci. Come se ormai la nostra aspirazione di elevarsi
fosse drammaticamente incatenata alla piattezza di orizzonti orizzontali, che
nascondono enigmi da svelare lettere dopo lettera, ma solo per avere un po' più
di chiarezza sulla piatta tavola in bianco e nero. Non per riuscire a leggere
nella trama della vita, quello schema in trasparenza che rivela senza svelare
troppo, per non estirpare alla radice la libertà di ognuno di noi.
giovedì 19 aprile 2012
I racconti del giovedì: Gabriele
I racconti del giovedì Gabriele
prossimo post sabato 21 aprile
«Già, Gabriele. Non lo
ricordavo più. Nome nobile. E' l'angelo che ha portato l'annuncio a Maria. Uno
dei tre arcangeli insieme a Raffaele e Michele. La madre di quell'uomo commise
un errore mostruoso: o forse fu lui ad essere schiacciato dal peso di quel
nome. Nomen sit omen: il tuo nome ti
sia di buon auspicio. Fu una sciagura, invece. Tutto in quella persona faceva
pensare alla bassezza: la meschinità emanava da lui come una deformazione del
corpo che nessun abito sia mai in grado di nascondere. Era forse la luce degli
occhi o il modo in cui si torceva di continuo le mani o quel sibilo, dovuto ad
una forma particolare di asma contratta in gioventù nei terreni paludosi e
malarici dove era nato. Viveva nella perenne convinzione di essere l'olocausto
dell'umanità: una sorta di vittima predestinata da un dio cinico e sarcastico che l'avesse eletto come capro espiatorio. E lui non negava a nessuno
il suo disprezzo. Era impiegato postale nel paese di montagna, nel cuore
dell'Abruzzo, dove andai a vivere per un certo periodo. Vi trovai impiego mentre
decidevo che cosa fare della mia vita. Commesso da un pizzicagnolo. Per
sopravvivere. Gabriele veniva a comperare formaggio e salame. Scivolava dentro
il negozio, uno stanzone buio e polveroso, quando le ombre si facevano più
dense. Sentivo il suo sibilo rauco prima ancora di vedere la sua faccia.
"Firmino", mi diceva, "Firmino, il solito". E aggiungeva
subito: "anche oggi scalogna nera. Lo sai quanti pacchi si spediscono in
questi paese di balordi? Più che le capre! Sembra che ogni bestia abbia parenti
ovunque nel mondo... E che gli manderanno mai? Pacchi pesanti, come peccati. E
tocca a me portarli tutti: dallo sportello al cestone, dal cestone alla porta,
dalla porta al furgoncino. Io non c'ho più l'età, Firmino. Lo vedi come sono?
Secco. E loro ridono di me. I pacchi li spediscono solo per farmi faticare. Lo
so, lo so. Non scuotere la testa. Li vedo in faccia io, quando vengono lì con
quei loro macigni. Hanno facce rosse, gonfie, sporche. Hai mai visto come sono
sporchi? Tutti! Anche il farmacista, che fa tanto il signore. Ma è sporco pure
lui. E non mi saluta quando passo davanti alla sua bottega e lui è lì, sulla
porta a fumare. E che? Non si può vivere senza medicine? Io, le sue medicine,
non gliele compro mai! Mai, hai capito Firmino? Io con le erbe mi curo. Eppoi
non mi curo mai perché sono sempre malato e non c'è più nulla che mi possa
aiutare. La posta invece: come si può vivere senza quella? Come li manderebbero
quei loro pacchi senza la posta? Maledetti loro e i loro pacchi! Firmino, me
l'hai dato saporito il formaggio? Eh, Firmino. Se non ci fossi tu in questo
paese... ti dovevano inventare. Benedetto il giorno che sei arrivato. A
proposito Firmino, da dove vieni? Me l'hai già detto, ma non ricordo. Non ho
mai spedito pacchi per te! Grazie Firmino. Li odio i pacchi, io". Io
tacevo. Era l'unica difesa. Ma anche il silenzio può essere giudicato, se
proprio vuoi. Poi si trascinava fuori dal negozio, si fermava sulla soglia e
con quegli occhietti piccoli e luccicanti -sì, luccicanti, come la pelle di una
anguilla- radiografava la piazza. Un disgraziato, ti dico. Aveva accompagnato
la moglie al cimitero: era bianco
come una busta. Lui ce l'aveva mandata! Almeno così dicevano. Non che la
picchiasse: anche se per la verità non posso escluderlo. Fu il suo veleno:
l'astio che colava da ogni suo gesto. Un anima di quelle che tengono la lista
dei danni. Il rancore, che non aveva il coraggio di sfogare, gli si
moltiplicava dentro come un virus. E poi traboccava. Era arguto: non c'era frase che non contenesse un retrogusto
marcio. Se diceva "buonasera", lo accompagnava con un tono sordo e
minaccioso, e con un gesto della testa di sbieco, come se stesse
attorcigliandosi su se stesso per attaccarti, alla moda di un serpente a
sonagli, e pareva ti dicesse: "che sia la tua ultima sera". La moglie era pian piano svanita, si era fatta
trasparente: consumata, come una candela. Finché non era rimasto più nulla e si
era spenta, bianca sul grigiore diffuso delle lenzuola. "M'ha fatto
torto", urlava Gabriele, "m'ha fatto torto anche morendo. Mi ha
lasciato solo: e come faccio adesso con la casa e una figlia da
maritare?". La figlia si era maritata da sola e in gran fretta, appena
dopo la morte della madre. Era scappata via, ti dico. Credimi: so come si può
fuggire. Forse aveva fatto sciocchezze prima del matrimonio per liberarsi da
quel padre: aveva il terrore che uccidesse anche lei. "Svergognata! Il
primo foresto che le è capitato a tiro!", commentava Gabriele, "che
razza di uomo può essere quello? Un rappresentante di commercio: di biancheria
femminile. Mascalzone! Come gli fatto gli occhi dolci lei qui, chissà quante
donne... Peggio di un marinaio. Questo Cristina proprio non doveva farmelo. Mi
ha rovinato. In paese lo dicono tutti: una ragazza inutile, leggera. E quello?
La farà soffrire. Ah, ma io sono un buon padre, io. Mi trasferirò da loro,
quando la finirò di spedire pacchi. E allora aggiusterò tutto io. So di avere
le mie responsabilità. E metterò tutto apposto". Doveva aver comunicato
queste sue intenzioni alla figlia, perché né lei né il marito si fecero più
vedere in paese e dicono che cambiarono anche casa senza più scrivere al padre,
per il timore di vederselo piombare addosso all'improvviso. Io ero ancora
giovane, allora. Lo stavo a sentire. Un anima torva così non l'ho più
incontrata. Però mi è rimasto il dubbio che la colpa non fosse tutta sua.
Chissà, un torto patito in gioventù: forse l'asma vissuta come un castigo
immeritato. Se qualcuno fosse stato a sentirlo fin d'allora... Certe volte mi
pareva di vedere un alito diverso: come uno spirito prigioniero che cercasse di
forzare la serratura e venire fuori. In controluce mi pareva di scorgere sul
suo volto agitarsi un altro uomo che premeva e piangeva per liberarsi. Sembrava
che i lineamenti stessi si distendessero per assumere toni più sfumati, più
lievi. Un secondo. Forse anche meno. Poi ritornava quell'espressione fratturata
e cattiva. Non so che fine abbia fatto. Dopo qualche anno me ne andai da quel
paese. Mi era venuto a noia quel sole stanco che rovesciava pigrizia».
mercoledì 18 aprile 2012
L'isola dei facinorosi
Prossimo post giovedì 19 aprile
Non capisco come
non abbiano già utilizzato questo format. Che in confronto il Grande Fratello o
L’isola dei famosi sono una passeggiata a Disneyland. Perché c’è un luogo, una
situazione, che inspiegabilmente riesce a condensare e riassumere tutte le
abiezioni dell’uomo, a rapprenderle nello spazio di un soffio e a farle
esplodere con la fragranza di una giorno appena nato. E stende intorno a sé la
tenebra, dopo la luce cattiva scende un’oscurità densa e fritta nella quale la
bestialità si aggira mordendo e stanando anche chi spera ancora di trovare un
barlume di razionalità. C’è una situazione, un luogo in cui le persone
depongono il tratto umano, abbandonano sulla soglia ogni benché minima pretesa
di altruismo, ma neanche, anche solo di attesa per il bene comune, e indossano
le armi della difesa dei propri egoismi ad oltranza, come Leonida alle
Termopili: piuttosto sopra il mio cadavere. Immaginatevi ricreare una simile
ambientazione in un reality: altro che le schermaglie del GF! Altro che le
risse dell’Isola. Persino altro che le rivalità di Amici. Pensate
che audience potrebbe avere un reality in cui ognuno si riconosce, perché di là
almeno una volta ci è passato, e almeno per una volta quelle stesse sensazioni
le ha vissute dentro di sé, intorno a sé: ha sentito crescere dentro di lui la
rabbia, prima sommessa, poi incredula, poi spaventata, infine incontenibile.
Perché ci ha provato a controllarla, ci ha provato a ragionare, ci ha provato a
mediare. Ma alla fine ha ceduto: o si è lasciato travolgere dalla passionalità
del clima, e come belva ruggente si è gettata nella mischia; o ha lasciato le
armi e se ne è fuggito atterrito da se stesso e dal genere umano. Sì perché
potrebbe anche esser salutare mettere in mostra dove l’uomo può giungere, fin
dove può scendere nell’abisso dell’egoismo, dell’odio, della mancanza di
rispetto, dell’idiozia, dell’incapacità di ragionare. E sarebbe anche un
interessante studio sociologico, perché lì, cadute le difese del perbenismo,
abbandonati i sorrisi da cortile, quando ci si incrocia e si saluta mettendo su
la faccia più brillante e falsa che possediamo, per quei sei metri in cui si
rientra nel campo visivo, prima di riaccendere il pettegolezzo e la critica, lì
tutto viene fuori: è un grande specchio che riflette all’uomo il suo io
bestiale, demoniaco. Che se uno riuscisse a fare un passo indietro, a vedere il
tutto con sguardo non dico limpido, ma almeno sbrinato, se riuscisse a
riaccendere la ragione quel tanto che basta per osservare ed osservarsi, gli
cadrebbero le scaglie dagli occhi e potrebbe vedere i demoni danzare accanto
alle persone che tengono al guinzaglio, e ridere, e schernirle mentre le
aizzano. O sì, avrebbe anche una valenza metafisica un reality simile. Che
parlasse dell’Armageddon quotidiano. Che mette in scena, a beneficio di tutti,
l’assemblea di condominio.
lunedì 16 aprile 2012
La lezione della Pasqua
prossimo post mercoledì 18 aprile
Ci
lamentiamo della nostra sorte e non comprendiamo le nostre fortune finché non
ci sfracelliamo contro il dolore altrui. Me ne accordo in questa domenica di
Pasqua in chiesa, che peraltro è luogo delle grandi scoperte sull’umanità, anzi
sulle persone, che queste sono vere, l’altra è un’astrazione, quella che ama
Lucy che invece, dice, fa fatica a sopportare le persone.
Ecco.
Lì scopri che dietro alle apparenze, a quel fastidio che produce la tua
permalosa presunzione, a quell’irritazione per comportamenti che non comprendi,
battono vite che si sono forgiate nel dolore. E che a volte da questo, invece
che essere illuminate, sono state devastate e illuse, avvelenate e rinchiuse in
soluzioni che sono inganni e dolore ancora più profondo e feroce e senza
speranza.
Ma
chi sei tu per giudicare o disprezzare?
Incontriamo
una signora che ha appena perso il figlio, compagno di scuola di Franca. E improvvisamente
mi tornano addosso, scagliandosi come affamati predatori, i dolori che leggi
sul web, che ti raccontano alla macchinetta del caffè, che catturi –anzi, sono
loro a farti prigioniero- sul tram, per strada. Un pianto sommesso.
Allora
ti accorgi che è così bello stare bene, è così dolce ringraziare perché anche
questa sera i figli sono rientrati tutti a casa sani e salvi, perché…
E
forse la lezione di questa Santa Pasqua è proprio questa: tutto è grazia e non
resta che accorgersene con solare evidenza.
sabato 14 aprile 2012
Il paese dei balocchi
prossimo post lunedì 16 aprile
Primo quadro.
Come tutti i
sabati, dopo la Messa in trasferta (da noi non c’è alla mattina) e la sosta al
forno di Trenno per l’ottimo pane che dura tutta la settimana, e dopo avere di
nascosto trangugiato come un bambino una fettina di focaccia che sembra una
sospensione in olio di mollica di pane, salgo al centro commerciale per
comperare i giornali e i periodici della settimana. Da quando hanno chiuso
l’edicola davanti casa è la soluzione migliore. Davanti a me sul tappeto mobile
che porta al piano rialzato due signore a cavallo della mia età: la figlia,
qualche anno meno di me, dice alla madre, mentre stiamo per essere consegnati
dal parcheggio al piano negozi: “hanno aperto l’Oviesse! Che bello! Peccato non
poterci andare, siamo di corsa”. Replica la madre, direi sulla sessantina
andante: “ma dai che un quarto d’ora per un giro lo troviamo!”.
Imbevuto di
focaccia e orgoglio penso: ma che banalità, apre l’oviesse, neanche fosse
Tiffany o un AppleStore, e bisogna per forza andarlo a vedere. Mi ricorda tanto
All’Onestà dei miei tempi, non la seconda squadra di basket di Milano, la
catena di tutto per la famiglia low cost, trent’anni prima del tempo. Mah.
Secondo quadro.
Cucina. Cena da
empty nester. Andrea è ad arrampicare. Le due bambine sono fuori. Racconto, con
sarcastico disdegno, la scena della mattina. E come sempre, quando voglio fare
il brillante, mi torna in gola. Oh che bello, andrei a vederlo volentieri, fa mia moglie. Come volentieri? Se non ti
serve nulla che cosa ci vai a fare? Per orientarmi, nel caso mi servisse
qualche cosa so già dov’è. Ineccepibile. Potrei obiettare che quando le
servisse qualche cosa potrebbe darsi che la disposizione del negozio sia già
stata cambiata. Obiezione irrilevante e irricevibile. Le raccoglitrici godono
ad osservare, scoprire. Per me sarebbe tempo perso.
Morale: mai usarsi
come metro per giudicare. Davvero altrimenti verremmo giudicati con questo
stesso metro e allora potrebbero essere guai. E che bello riuscire a vedere con
occhi diversi perché c’è sempre un lato umoristico da scoprire.
giovedì 12 aprile 2012
Ripiegato - i racconti del giovedì
prossimo post sabato 14 aprile
Vorrei essere stato io. Vorrei averlo ucciso io. Almeno la
facevamo finita e non se ne parlava più. Invece no. Non solo non sono stato io,
ma neppure so nulla di ciò che è successo. Non basta. Non mi credono. Si sono
convinti. E non riesco a fargli cambiare idea. Perché ogni parola, ogni gesto,
ogni colore loro lo incastrano nel loro castello. E tutto li conferma nella
loro devastante ipotesi. Non so perché. Qualcuno all’inizio ha avuto questa
idea. E se ne è innamorato al punto da diventarne prigioniero. Di più. E’
diventato lui. Si è insinuata lui, lo possiede. E quindi nulla potrà mai fargli
cambiare idea. E le cattive impressioni, si sa, fanno presa. Crescono più in
fretta perché alimentate da quel vento tiepido e calmo che vive dentro ognuno
di noi. Non so come definirlo, non credo sia invidia. Di che poi? Del mio misero
lavoro? Della mia vita insulsa che cercavo di rendere meno segalina ad ogni
alba? E che spegnevo nel sonno, a volte piatto, altre profondo, il più delle
volte sensibile e sudato, ogni santa notte? Non è invidia. E’ quella voglia di
fare del male, di non credere. E’ la sfiducia nell’uomo. perché ognuno si sente
sempre vittima. E mai carnefice. Curioso, ciò che più invochiamo dagli altri, è
proprio ciò che meno siamo disposti a concedere: sia che si tratti di pazienza,
sia di pietà, sia di comprensione. Ho letto da qualche parte che la carità più
che nel dare consiste nel comprendere. Parole sante. Ma anche atroci. Perché
così come si scolora la carità nell’elemosina, si avvelena la comprensione
nella maldicenza. Ammantandola di buona fede si pretende di toglierle l’acido.
Ne ho sentiti tanti. Nessuno osava accusare. Ma va! Piuttosto millantavano
misericordia, pretendendo di addolcire il messaggio con la falsità di
espressioni come “pover’uomo” “si dice” “ma ti pare vero che..”. E godevano di
questa loro capacità di velare. E così, è scivolata via anche la dignità. E ho
iniziato a maledirmi per non avere commesso il reato. Perché allora sì che
avrei riconquistato il loro rispetto.
Sarei salito in cattedra, avrei spiegato e rivendicato e affermato. E in
questa rivendicazione della mia libertà, sarebbe sorta la denuncia della
società. Allora mi sarei assicurato la loro pietà. Forse anche di più. La loro
ammirazione. Sarei sceso nelle aree televisive. Il mondo sarebbe stato mio.
Rimpiango la codardia dell’onestà. Perché mi ha ripagato con l’espulsione dalla
vita. E non c’è stato altro che ripiegarmi, mettermi via, insinuarmi in un
cassetto dell’esistenza, dove solo la naftalina può proteggermi dalle tarme e
dai tormenti. Un oblio fatto di fughe, di volti chinati, di passaggi
nell’ombra. E non posso neppure rompere i confini di questo paese perché
l’indagine non me lo consente. Come se non avessero già sdrucito tutto.
Squartato ogni particolare. Come vorrebbero fare di me. Ho già confessato. Ma
il crimine che ho vomitato fuori non è quello che interessa loro. Né alla gente
che aborre di vedere negli altri le miserie che cercano di nascondere a se
stessi. Non ci sono più le mezze calzette di una volta: ciò che la gente vuole
sono i grandi trionfatori per ammirarli ed invidiarli, racchiudendoli in un
odio puro, senza limiti; oppure i grandi peccatori, per disprezzarli e
rialzarli ammanendo senza riparmio la propria misericordia e mostrandosi così
più grandi di coloro che giudicano. E sto qui, ad aspettare che la morte, che
ha già devastato il fisico, finisca per penetrare nell’animo e lo spenga del
tutto. A meno di trovare, da qualche parte, in qualche sguardo, una luce che
parli di un riscatto che possa ridarmi non dico l’onore, ma almeno il rispetto
di me stesso.
martedì 10 aprile 2012
Le sfumature dell'amore
prossimo post giovedì 12 aprile
Non
c’è come avere più figli per capire le sfumature dell’amore. O le sue
sfaccettature. Chiamale come vuoi.
Perché
ti interroghi spesso su che cosa significhi uguale. Che è una di quelle parole
che non ha senso se non in modo relativo. Nella vita intendo, non nella
matematica. O nella geometria. Dove prevale la congruenza o la
sovrapponibilità. Che non sono di questo mondo.
Così
non ha senso avvilupparsi in crisi di coscienza per capire come amare in modo
uguale i propri figli, perché l’uguaglianza qui sta nell’intensità, non nei
modi.
Ma
se non ce ne hai più di uno, fai fatica, perché l’amore paterno è una specie
unica (come quello materno si intende, ma lì ho zero esperienza è ovvio) e ti
si squadra davanti senza preavviso la prima volta che tieni in braccio quel
frugolino che fino ad allora intuivi.
E’
solo però moltiplicando i destinatari di questo speciale affetto che comprendi
quanto profondo e vario possa essere l’amore, non perché chi è padre (o madre)
una volta sola non sappia amare. No. Solo che si priva di quelle sfumature che
la moltiplicazione dei figli rende possibile, e non oso immaginare a quale
grado di comprensione arrivino quegli amici nostri che di figli ne hanno 6, 7,
8, 10. Che lì sì che l’amore assomiglia a quello divino, che di figli ne ama
miliardi e ognuno a modo suo.
Eppure
in questo presagire l’oceano, restando sulle sponde, le gambe immerse solo fino
alle caviglie, lo sguardo che vaga all’orizzonte dove il sole sta lentamente
scendendo, il calore della sua infinitezza ti sale fino al cuore e per una
frazione sola, anche minuscola, ti si incide dentro come perché tu non
dimentichi mai.
Guardando
i figli, che ti cambiano davanti come la spuma delle onde che si sciolgono o
litigano con la battigia, e che ritornano indietro come per fuggire ma poi
ritornano, ti racconta quanto e come sai amare e come realmente tu sia pronto a
svuotare te stesso per lasciarti plasmare dall’affetto per loro.
Perché
forte come la morte è l’amore, non dobbiamo scordarcelo mai.
sabato 7 aprile 2012
Specchio della vita è il web
prossimo post martedì 10 aprile
Specchio
della vita è il web. E delle nostre piccole manie.
Scrivi
e pubblichi, su Twitter, Facebook e sui blog, e poi stai a guardare, un po’ a
metà tra quel cinese che attende il cadavere del nemico, e lo scienziato che
osserva il comportamento animale.
Attenzione:
non che questo voglia dire che lettori e amici del web siano cavie da
laboratorio o bruti senza ragione. Offendere in un colpo solo tutte le persone
che conosco sarebbe follia pura, quindi rassicuratevi.
E’
che uno riesce a capire molto di sé e delle sue manie cercandosi nei
comportamenti degli altri, che la radice della persona è la medesima in tutti.
Così
scrivi un post di 644 parole (contate da word) che parla di come l’età passi e
debba restare il coraggio, e trovi chi si impunta su una di queste, ambigua se
vuoi, ma decisamente priva di veleno.
Così
annunci il compleanno di tuo figlio e c’è chi se la sente come una accusa, come
se la felicità fosse in realtà un pretesto, un arma a doppio taglio, che fosse
lì per sbellettare gli altri, per incolpare di chissà quali reati.
Fa
pensare.
E
giungere alla conclusione che ormai, oggi troppo sicuramente, abbiamo preso la
nostra vita come misura del mondo: ci mettiamo al centro e interpretiamo tutto
a partire da noi. Spesso usando come chiave di comprensione proprio ciò che ci
fa male, ciò in cui soffriamo.
Mostrando
così al mondo il nostro vero volto. E quella fragilità che chiede, e merita,
affetto.
Buona
Pasqua.
giovedì 5 aprile 2012
Sedicianni - i racconti del giovedì
prossimo post sabato 7 aprile
E voi pensate
che sia facile avere sedici anni? No dico, vi siete mai posti il problema di
avere sedici anni oggi? E non venite a dirmi che sedici anni li avete avuti
anche voi. Era un mondo diverso. Molto più semplice. Mica dovevate combattere
con la tecnologia, voi. Al massimo la fame, tipo il terzo mondo, che poi so
bene che è una balla e che la raccontate per spaventarci, e mica ci caschiamo
noi. Non avevate neppure il telefono. Che ne so? Tipo ci avete talmente
stressato con i vostri tempi che mi sembra di averci passato un’altra vita. E
non è la mia. La mia è qui. Ma lo capite o no come è dura rimanere sulla
cima dell’onda? Perché se non ci sei, non sei nessuno. E qui chi non è nessuno
è già morto. Meglio che lo fosse anche fisicamente. Perché sei nel tunnel. E
soffri. E se non soffri abbastanza ci pensano gli altri a farti soffrire. Ma lo
capite o no quanta cura dobbiamo metterci nel farci vedere? Che c’è un limite
ogni volta: appariscente sì, ma puttana no. Perché poi i ragazzi non ti
chiedono che quello. Già tipo sanguisughe non pensano ad altro, che se li senti
parlare sembrano i Simpson versione porno. Quelli dei film che vedono su
internet che li scaricano a manciate neanche fossero cioccolatini e poi te li
raccontanto che non c’è più che vomito a sentirli. Se poi sembra che gliela dai
senza aspettare, allora non c’è più riposo. E’ tutta una questione di immagine.
Capisco che non si pensi ad altro. E non dico che non mi sono data da fare. Non
così però: fare sesso nei bagni o in macchina o dietro casa tua, ma nascosta
così nessuno ti vede. Che poi se mi vede mia madre, che se ne frega, che cosa
potrebbe mai dire? Che cosa fa lei in fin dei conti? Che quanto a eccessi
faccio fatica a starle dietro! E voi, non dovevate mica competere con le vostre
madri voi in quei famigerati anni Settanta che tanto ce li venite a menare con
Fonzi e i Beatles e quale altra diavoleria non me la ricordo più. Non mi
interessava e l’ho rimossa. Come faccio di solito. Non voglio avere una
discarica in testa: quello che non serve immediatamente si butta subito. Così
c’è più spazio per pensare a come divertirsi. Eh, dovevate difendervi dalle
vostre madri voi come tocca fare a me? Che quando mi costringere a fare
shopping con lei li vedo gli uomini, tutti, e anche i ragazzi, quelli che ci
farei l’occhio acceso e un po’ pornito, che guardano lei invece che me e le sue
scollature e scosciature come se il mondo le girasse attorno e il marciapiede
fosse una passerella. Che credo che voglia farlo solo per distruggermi, per
annichilirmi, per umiliarmi tipo che guardano solo lei e non me, che sono
ancora uno schizzetto. E io gliel’ho fatta addosso invece, che con il ganzo che
le ronza attorno, e lei ci sguazza anche se è quasi più vicino a me che a lei
di età, ci sono andata io mica lei. Forse anche lei, chemmifrega. Ma io pure.
La sera che lei si è fatta aspettare. E non s’è accorta di niente. E ne sono
orgogliosa perché questa volta l’ho vinta io. E mica mi pento sai? Di che cosa?
Di fare quello che fanno tutti? Quello che chiedono tutti? Tanto tutto passa,
neppure un’ora e passa. Vivere il presente. Ecco. Lo dicono tutti. Anche quelli
famosi che vedo in tv e che mi fanno impazzire perché voglio anch’io diventare
così. E non fare fatica. Che mia madre non la fa la fatica. Ha spiantato mio
padre. Che quando se ne è andato l’ha morso fino al midollo. Rosicchiato.
Spolpato. E adesso siamo ricche. Lui è ricco e anche noi. Finche dura. Lo dice
sempre lei. Ma io non voglio fare fatica. Non serve. Non la fa nessuno. A scuola?
Ma non farmi ridere! Che c’è sempre un modo per copiare, fregare, passare. E
che serve studiare? Per fare i secchioni? Come le verginelle e i nerds, che
stanno rintanati nella loro cultura e avvizziscono, in mucchi scomposti e
rinchiusi perché non se li fila nessuno, solo fra di loro, che fanno ridere e
non li tormentano nemmeno più perché non c’è gusto, solo quando sei un po’ giù
e non ti va neppure di niente, allora una presa in giro, un paio di sberle, che
non rifiutano mai, e ti tiri subito su. Che non bisogna essere sballati o tipo
teppisti per fare queste cose qui. Che le fanno tutti e gli sfigati se le
aspettano, ti sorridono e se le aspettano, fa parte del gioco, noi i belli loro
gli sventurati. Noi quelli che piacciano, loro bui. E senza superare il confine
e finire tra i bulli, che quelli non piacciano a nessuno, e sono deboli: fanno
finta di sbancare, ma sono corrosi dentro. Lo capisci. Aggrediscono solo perché
non riescono a guardarsi allo specchio. E sono così grezzi, sporchi, scialli.
Noi siamo scianti e lindi: eleganti. Belle facce, mia nonna direbbe acqua e
sapone. E mi diverto quando lo fa perché non sa, e non potrebbe mai sapere.
Perché come ti guarda lei brucia. E quel fuoco io non lo voglio.
Però poi mi ritrovo questa faccia da malmostosa addosso sempre, anche dentro, come se mi guardassi in uno specchio interiore, che quando me lo dicono mi arrabbio perché capiscono e non voglio che capiscano. E un po’ fa smeriglio, fa superiore, ma troppo poi finisce che te lo dicono. Sorridi. E perché? E poi chi te lo dice è un adulto che non mi frega niente, mentre il mio giro non te lo dice neanche, ti spinge ai margini e poi ti espelle: perché fari i duri sì, ma i tristi mai. E’ una questione di immagine. Che noi vogliamo sempre divertirci. Che ci stiamo a fare sennò? Che tutto passa, ma qualche cosa rimane, ed è sempre la parte meno bella, più acida, che graffia. E temo che non ci sia trucco sufficiente per coprirlo, perché non è intorno agli occhi, ma dentro. E la faccia un po’ ingrugnata fa trendy, ma ci ho l’impressione che non sia una faccia che ti metti su tipo per cuccare o farti notare, ma perché non te la riesci a togliere che c’ha le radici dentro, profonde. Perché quando guardo il mare, non è la voglia di veleggiare che mi viene, ma quella di annegare. E questo non è bello. E la sera. Tipo quando perdo quei minuti affacciata alla finestra a fumare per non impregnare la stanza, che a me fregherebbe anche, ma lei rogna perché detesta quest’odore le ricorda mia padre, non è il cielo che vedo, né i colori, ma una coperta tesa, come quelle che da CSI copre i morti delle autopsie. E non so perché, ma non mi piace. E non so guardare più in là di domani, che già faccio fatica e non so neppure perché dovrei farlo. Ma un po’ mi ferisce.
Però poi mi ritrovo questa faccia da malmostosa addosso sempre, anche dentro, come se mi guardassi in uno specchio interiore, che quando me lo dicono mi arrabbio perché capiscono e non voglio che capiscano. E un po’ fa smeriglio, fa superiore, ma troppo poi finisce che te lo dicono. Sorridi. E perché? E poi chi te lo dice è un adulto che non mi frega niente, mentre il mio giro non te lo dice neanche, ti spinge ai margini e poi ti espelle: perché fari i duri sì, ma i tristi mai. E’ una questione di immagine. Che noi vogliamo sempre divertirci. Che ci stiamo a fare sennò? Che tutto passa, ma qualche cosa rimane, ed è sempre la parte meno bella, più acida, che graffia. E temo che non ci sia trucco sufficiente per coprirlo, perché non è intorno agli occhi, ma dentro. E la faccia un po’ ingrugnata fa trendy, ma ci ho l’impressione che non sia una faccia che ti metti su tipo per cuccare o farti notare, ma perché non te la riesci a togliere che c’ha le radici dentro, profonde. Perché quando guardo il mare, non è la voglia di veleggiare che mi viene, ma quella di annegare. E questo non è bello. E la sera. Tipo quando perdo quei minuti affacciata alla finestra a fumare per non impregnare la stanza, che a me fregherebbe anche, ma lei rogna perché detesta quest’odore le ricorda mia padre, non è il cielo che vedo, né i colori, ma una coperta tesa, come quelle che da CSI copre i morti delle autopsie. E non so perché, ma non mi piace. E non so guardare più in là di domani, che già faccio fatica e non so neppure perché dovrei farlo. Ma un po’ mi ferisce.
domenica 1 aprile 2012
tra moglie e marito...
prossimo post mercoledì 4 aprile
Tra tutte le
frasi, lette e comprese, delle mie letture, che mi hanno dato più luce
aiutandomi a capire la filigrana della vita quotidiana, c’è un pensiero di Jean
Guitton (Sull’amore: libro sensazionale) che mi accompagna dal momento in cui,
parecchi anni fa, lo incontrai. E mi sorprende come la sua essenziale
semplicità, al limite del banale, di quel ordinario che nasconde le grandi
saggezze, non sia dominio comune. Già questo dovrebbe farmene comprendere la profondità.
Dice dunque
Guitton che quando siamo fuori di noi per la rabbia ciò che desideriamo è fare
male. Senza alcun rispetto per l’altro. Questa è l’essenza dell’odio: ecco per
non può esistere un odio santo, checché ne dicano in streaming pseudo comici
predicatori. E che per noi è molto più facile fare male a chi amiamo di più,
perché ne conosciamo l’intimità così nel profondo da sapere esattamente dove
colpire per lasciare la ferita più profonda. Affermazione così corretta da
avere un corollario immediato: quando vogliamo fare male a qualcuno che non
conosciamo, ci attacchiamo a quei luoghi comuni che sappiamo possono ferire. Da
qui certe offese che non hanno nulla di razzista, ma solo di becero. Come posso
colpire duro la persona della quale non so nulla se non mistificando ciò che lo
caratterizza? Quindi dagli al negro, al terrone, alla donna al volante, al
fascista, al cattolico, al gay e così via: categorie utilizzate, secondo
Guitton, non come offese razziste, ma come offese tout court.
Ora quando
litigano marito e moglie, è lì che il coltello affonda con più profondità,
perché la comunione è tale da lasciare ben poche parti dell’anima velate. E la
familiarità produce quell’esperienza del dolore altrui da fornire, nell’impeto
dell’ira, l’arma giusta nel momento giusto e mettere in bocca quella parola,
che se ad un estraneo può apparire inoffensiva, tra coniugi assume la violenza
di una mazza chiodata.
Il dramma, che la
passione incollerita del momento nasconde, e c’è un che di diabolico in questo,
è che l’unione è tale che ferendo l’altro, il colpo si riversa anche su di noi.
E probabilmente va più in profondità, perché alla sofferenza si somma la
vergogna.
Quando c’è: perché qui c’è la perla da scoprire. Provare rimorso,
pentimento, misericordia per risalire insieme. Se prevale il rancore, il torto
subìto, il desiderio di vendetta, è la nostra stessa vita che si sta
sgretolando.
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