Scrivo.
Vomito fuori. A volte con ironia, piacere. A volte con strazio, con il dolore
di un’amputazione.
Non
perché sia triste né per cercare commiserazione. Troppo fiero per questo. E
troppo credente. Che la tristezza è la migliore alleata del nemico. E non voglio
arrendermi.
Ma
duole dentro, poco o troppo, brucia, e bisogna espellere. Come sterco che una
volta fuori non è più tuo, non c’è neanche più. E si cristallizza.
A
volte fa male, prima, e poi quel senso di sollievo di chi ha preso le distanze,
di chi ha capito e curato. Perché verbalizzare dissolve, come se pigiando i
tasti che trasferiscono su un foglio virtuale quel peso che comprime il petto,
tutto s’acchiarasse, spazzato via il dolore, l’anima stirata, accesa la luce.
E
sì, la forza della parola per me sta in questo che mentre scrivo che non sento
più la forza di lottare, di insistere, di provare ancora una volta; mentre le
dita scorrono lente e talvolta accelerano per tener dietro al pensiero mentre
spiegano alla pagina che la volontà si estingue, s’annacqua il coraggio, ecco,
mentre questo cancro prende vita sul biancore che lo schermo mi riluce, è già
svanito dal cuore e la voglia di ringhiare e combattere è già qui ancora.
Lo
sguardo torna secco, duro, vivo.
Per
questo scrivo, perché le pene se le asciuga la carta –finta si intende, eppure
reale- e non resta poi nessuna rivendicazione, nessun rimpianto, nessun
rimorso, nessuna vendetta. Solo un cielo terso, allegro, una risata che
sconfigge questo fischio sordo e senza fine che ormai le orecchie mi rimandano
di continuo, proprio quando tutto intorno tace.
E
se scrivo di noi non è per ripicca, per lamentela, ma per gioia, per amore, per
raccontare quanto sono fortunato, quanto ho meritato, indegno io.
Scrivo
perché qui incontro l’amico più grande che ho, che non sono neppure io, ma
quell’angelo che mi sa ascoltare senza mai smettere di cullarmi.
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