Carissimo Gianni, lasciatelo dire: sapessi quanto mi manchi.
Lascia che ti scriva di nuovo, perché forse non sono riuscito a farmi capire, che non avevo sussurrato a sufficienza, e non avevo aperto il mio cuore senza prima averlo ripulito dalle scorie e dalle amarezze.
Perché non so se ti ricordi: eri quello aperto e disponibile, un
po’ boy scout ingenuo, un po’ chitarrista spensierato. Una via di mezzo tra i
ragazzi dell’oratorio e quelli del collettivo. Stavi defilato in classe, per
questo mi piacevi: non eri tra quelli che vedevo lontani, lanciati su mondi che
non sapevo nemmeno immaginare, io un po’ nerd e un po’ imbranato, ma neppure
tra quelli che persino io consideravo impresentabili anche se a 13 anni, nel
pianeta della scuola media, tutto si colora solo in bianco e nero, e senza
mezze misure è difficile separare le mezze calzette dalle mezze speranze.
Per questo c’eri tu. Che mi hai preso per mano e tirato
fuori da un buco nel quale stavo sprofondando: quello della depressione
pre-adolescenziale, quel non sentirsi all’altezza di un mondo che cambia,
perché mentre sfumavano i sabati a giocare a subbuteo o a calcio e si
affacciavano i pomeriggi a filare le ragazze e ad esplorare il territorio
disegnato dalla pubertà, io perdevo colpi, arrancavo, scivolavo indietro e ne
ero atterrito.
Io timido, io intimidito, io timoroso, io sensibile, io
crudele, io tradito. Io. Sempre io. Solo io. Al centro. Di che cosa poi? Della mia solitudine? Del mio egoismo!
E tu mi facesti scivolare dentro nella vita una consonante
che cambiò tutto. Una banale D che non voleva ancora dire bocca spalancata
nelle risate, perché gli emoticon non erano nemmeno ipotizzabili, figurati la
rete che per parlarsi bisognava stare in piedi davanti al telefono a muro
inchiodato in corridoio!
Mi spiegasti, te lo ricordi ancora? Io sì, era domenica
pomeriggio e pioveva e percorrevamo sicuri piazza Pompeo Castelli evitando le
buche piene d’acqua, che era ora di lasciare da parte quell’io fastidioso e
iniziare a pensare a Dio. Perché anche la commiserazione è egoismo. Fulminante.
In quell’apparente mancanza di autostima si nasconde una rivendicazione
rabbiosa di supremazia: un’ira fumosa che attinge imperiosamente dalle profondità
dell’egoismo per imporre un’attenzione che non andrebbe neppure supplicata. Che
entrambe sono figlie di quel peccato va sotto il nome di superbia.
Perché quel
seme che buttasti allora, ha germogliato lentamente ed è sbocciato con
fragranza nell’età adulta, quando tutto perde la confusione di passioni accese
e con l’ombra assume profondità: l’ho rivista milioni di volte quell’acidità di
chi si erige a vittima, brandendo la propria banalità come una clava e
incolpando il mondo di indifferenza, o peggio di insensibilità, quando invece
dovrebbe scegliere il nascondimento e il servizio per ritrovare dapprima la
dignità e poi la stima di Chi sa vedere nel nascosto, e magari poi anche di chi
vede solo ciò che sta sotto il sole. Tu allora me la indicasti sottotraccia,
con parole di un ragazzino appena sbozzato, ma con una lucidità che ancora oggi
ti riconosco.
E lo facesti con una sicurezza che per me che ti ammiravo fu
un colpo di frusta. Mi sbattesti in faccia le responsabilità, come quella volta
che continuavo a rimandare il rientro al corso di judo dopo uno strappo e mi
affrontasti a muso duro per dirmi che non ero onesto con me stesso e che dovevo
decidere che cosa fare della mia vita. Perché eri così Gianni, secco e sicuro,
come un eroe a cavallo, come John Wayne, un po’ solitario, ma non troppo, un
po’ affascinante, ma senza svenevolezze. E sicuro, lo dico ancora, di quella
fierezza che ti portava a esigere la medesima rettitudine si trattasse di avere
fede –che mi rimproveravi di aver perso la Messa domenicale- o di superare la
paura di affrontare un istruttore di judo che mi trattava un po’ male, da
pischello, da deboluccio qual ero –la codardia è sempre stata la mia fragilità
maggiore- perché per te il grigio non aveva non dico cinquanta sfumature, ma
neppure ragione di esistere.
E ancora me lo tengo nel cuore perché accidenti sì come mi
hai fatto male quel giorno. E quindi bene. Mi hai costretto a guardare in
faccia la mia pigrizia e a prendere partito: o di qua o di là, come il
bicarbonato che mia nonna diceva sempre che fa sempre effetto (o va giù o tira
su). Così mi son buttato di qua, con la Grazia del tuo rimprovero e lo sconto
che tu mi hai donato dinnanzi a Dio e sei stato il primo di una strada in cui
al momento del bivio -no anzi a quello della locanda dove sostare una notte e
che invece ti attirava come le sirene di Ulisse a non andartene più via, a fare
casa invece che proseguire il viaggio- ho sempre trovato un samaritano che mi
ha preso per il bavero, compelle intrare, e apostrofandomi come lo furono i
discepoli di Emmaus, mi ha strappato via dalla comodità per portarmi avanti, un
passo in più almeno, un confine in più: Alberto, Paolo, Giuseppe. Che tanto
nessuno sa chi sono se non io.
Ecco, eri così Gianni e adesso?
Adesso non lo so perché ti
nascondi, ti neghi, non ti fai trovare, nascondi i tuoi recapiti neanche fossi
una spia bolscevica. Se imploro l’unico tramite che ci unisce, da lui ottengo
solo un fermo invito a lasciar perdere a far come se tu non esistessi più,
fossi sparito dalla circolazione. E no che non posso farlo. Non si lasciano
perdere le pietre miliari. Che ne è stato di quella fierezza, di quella fronte
alta sempre al sole?
Tanti anni e siamo estranei potresti dirmi: ma non che non è vero! te lo ricordi quel verso di Vecchioni che commentavamo seduti sopra una barca rovesciata sulla spiaggia insieme a quella che sarebbe diventata tua moglie? "Non si è soli se qualcuno se ne è andato, si è soli se qualcuno non è mai venuto". Come si fa ad essere estranei quando i ricordi sono condivisi? Magari ti riattacchi a quelli, magari finisce per essere un po' malinconico, romantico. Ma va bene istess! E' come andare in bicicletta: non te lo scordi mai.
Che poi forse non è neanche vero che ti nascondi: forse è autodifesa. Forse sono io che sono scappato via.
Chi sono io per non ipotizzare di essere stato io quello che ti ha ferito e ti ha costretto a scappare, per difenderti, per non restare ferito troppo a fondo? Perché una cosa l'ho imparata: si può ferire a morte anche chi si ama senza accorgersene, perché siamo così insensibili tranne che per i presunti colpi che diciamo ricevere dagli altri. Se quindi ti avessi in qualche modo deluso o addolorato, non so se riuscirai a perdonarmi, ma sappi che non c'è stata malafede. Siamo così fragili, così incapaci di volere bene ricambiando coloro che ci stanno dando tutto, così banali nelle nostre scelte, che potremmo pugnalare il migliore amico senza rendercene conto. E ad evitare ogni equivoco, sono io quello che brandisce l'arma della quale si sta parlando. Sia chiaro.
Per cui, per farla breve e non tediarti oltre sappilo, per me resterai sempre quel tredicenne
che sotto la pioggia mi apriva le porte del cielo.
E quella immagine sarà il mio ricordo di te. Insieme ad un'altra che sta qui scolpita forte e chiara: Porto San Giorgio, estate, piazza Mentana. Tu con tuo fratello e Gino seduti nell'erba. Io che arrivo. E tu che suoni e canti quei versi che avevo scritto su Villenueve. Questa è l'icona dell'amicizia che non tramonta mai.