E guardami! E daì guardami! Tu che passi, chiunque tu sia.
Che ti costa! Anche solo per deridermi, per insultarmi, per scuotere la testa
in quel modo volgare e violento, che percola disgusto misto a disprezzo. Ma
almeno guardami. Non fare finta di nulla. Perché credi che mi sia ridotta così?
Perché pensi stia distruggendo la mia dignità così come la natura ha distrutto
il mio corpo se non per ottenere uno sguardo? Anche lascivo. Sebbene tema che
nessuno lo poserà più su di me con desiderio. Semmai con scherno. Mi
basterebbe. Sarei felice di non passare inosservata. Come mi è successo a lungo
nella vita. Perché nessuno ha mai posto su di me uno sguardo assetato. Una
sensazione dolorosa, che avvelena lentamente l’anima e la fa implodere in una
depressione spenta e arida. Camminare tra le strade della città, al mercato, e
accorgerti che non sei degna neppure di un movimento del capo. Perché invece li
vedo quando girano la testa e tutto il resto quando passa una di quelle, sì, di
quelle ragazzine che hanno tutto da mettere in mostra e non negano niente.
Mentre io invece. Fin da giovane. Fin da ragazza sono stata
condannata. Da un corpo goffo, sformato, gonfio. Non che non mangiassi, no. Ero
affamata di sensazioni, quindi anche di cibo. Ma non fu questo. No.
Mi cresceva addosso come un tumore, mi rovinava sopra questa
massa turgida e ruvida che mi ha nascosto al mondo. E io ne sono rimasta
prigioniera. Ma almeno allora, quand’ero ragazza, al paese, almeno allora c’era
chi mi inseguiva per insultarmi, per schernirmi. Mi sentivo viva, dolorosamente
presente al mondo. Poi, come una nebbia che s’alzi pallida e smorta, e via via
più coraggiosa, così sono scomparsa all’esistenza.
Il trasferimento in città. Gli studi. Inutili devo dire. Non
hanno aggiunto una goccia di felicità alla mia vita. Solo conoscenza. E con
quella semmai ho accresciuto il dolore. Poi un lavoro bieco, ripetitivo,
individuale, in un cubicolo che mi separava netto, come una roggia profonda,
dai colleghi che dilagavano al di là della paretina. Una voce al telefono. Poi
neppure quella. Poi la pensione anticipata. Anni di lavoro sciolti in un saluto formale e stropicciato,
condito di indifferenza e scherno. Neppure quel giorno sono riusciti a superare
la barriera del mio corpo per calarsi non dico nella profondità, ma almeno
sotto la superficie e cercare di capire. Che serve a loro capire? Che servivo
io? Che se non servi oggi, per qualunque cosa, sei finito: allontanato. Fine
del lavoro, fine dell’impegno.
E sempre la solitudine.
Che non sono vecchia. Non fuori almeno. Non all’anagrafe. Ma
dentro eccome. Perché a non sentirsi amati, si brucia. Non però di quel fuoco
che non consuma e arde perenne, come dicono sia l’amore, che io non ho mai
conosciuto, neppure da bambina. No. Non quello.
Io avvampo di quel calore trasparente e violento, quello dei
forni, che crema, che riduce in cenere, che lascia senza speranza. E la
speranza ormai io l’ho persa, non dico dell’amore, ma anche solo di un tepore
mite. Anche ipocrita. Mi starebbe bene. Mi farei truffare da un uomo, se per
spogliarmi dei miei beni, quelli che comunque ho accumulato in questi anni di silenzio
e di reclusione, mi rivestisse anche per un solo momento di un affetto
manieroso ed eccessivo, palesemente finto. Anche solo di sesso. Anche di quello
mi accontenterei.
E così mi sono ridotta ad essere questo pagliaccio, questa
prostituta dell’anima: a mettere fuori questa carne in decomposizione, che si
arrotola su se stessa confondendo inizio e fine. C’è pudore in tutto questo?
Sì, perché ormai in queste rovine non si distingue più nulla che possa bruciare
la mia intimità. Tutto è disgrazia. Deformità. Eppure sento di calpestare la
mia dignità. E non me ne frega niente. Perché chi si riempie la bocca con
questa parola probabilmente non ha mai sofferto il mio dolore, non è mai stato
solo. Io sì. Sempre. Rinchiusa dentro il carcere di un corpo esagerato che mi
ha impedito di essere scorta. Di vedere. Di capire.
Ma che cosa c’è da capire! In quest’epoca che esalta la
bellezza e la rincorre senza posa, in quest’età che magnifica il corpo e ne ha
paura, io scorgo il terrore sui loro occhi, il terrore di essere come me, di
finire come me, di venire calpestati, messi in un angolo. Io questo ho capito.
E solo adesso riesco a ribellarmi.
E guardami daì! Tu che passi adesso e volti il capo dalla
parte opposta con gesto affrettato e teatrale, come per istruirmi, per
condannarmi, per umiliarmi. Più di così? Potrei essere più umiliata di così?
Perché non capisci? Perché non esplori? Perché non ti sforzi di superare quella
sciapa barriera della tua superficialità, del tuo orizzonte così gretto e
chiuso, che non riesce ad accostarsi alla vita per quello che è: non un secco
fotogramma, ma una pellicola senza fine. Con solo l’inizio e mai titoli di
coda. E tu invece te ne stai lì, intrappolato nell’attimo che fugge, e non
capisci che invece resta, resta per sempre, e si estende, in tutte le
direzioni. Come la mia vita. Come la mia carne che scioglie la mia figura in
una storia di solitudine totale.
Guardami: rendimi un filo di stima, che la mia in me stessa
l’ho persa. Fammi pensare, anche per un solo istante, che posso lasciare una
tenue traccia su questa terra, che posso avere sfiorato per un battito d’ali il
cuore e la memoria di un’altra creatura. Che non è stato vano venire al mondo.
Che non sarà insulso andarsene.
No, non
funzionerà neppure questo. Non è servito a nulla scendere fino in fondo
al cratere del disonore. Fino al fango dell’esibizionismo. Neppure questo è
servito per trovare un filo di speranza, un rigagnolo di luce che sappia
restituire un po’ di futuro a questo ammasso di depressione. Forse non resta
che cercare l’ultimo sguardo, quello di terrore, quando scioglierò la mia vita
sopra un binario. O sotto un camion. Affermando il diritto di essere guardata
almeno mentre mi dissolvo.