Ma che cosa e perché scrivere? Condividere, o l’illusione di farlo, aiuta spesso a sentirsi in compagnia di fronte alla piccole battaglie della vita: quelle grandi, si sa, le si può affrontare solo in compagnia di se stessi, senza nessuno scudiero o cavaliere al proprio fianco.
Quando i cinquant’anni sono stati raggiunti e superati con la velocità del suono di una sirena arrabbiata, tre sono le possibilità che rimangono all’uomo che non vuole rimanere ad attendere l’impatto indifeso e inconsapevole: farsi l’amante, farsi una macchina rossa, scrivere un blog. Dato che mi state leggendo (davvero? Mi state davvero leggendo?) avete compreso che ho scartato le prime due ipotesi. E per scelta volontaria e creduta, non certo forzata.
Ma che cosa e perché scrivere? Condividere, o l’illusione di farlo, aiuta spesso a sentirsi in compagnia di fronte alla piccole battaglie della vita: quelle grandi, si sa, le si può affrontare solo in compagnia di se stessi, senza nessuno scudiero o cavaliere al proprio fianco.
La prima delle sfide e quella che affettuosamente potremmo definire di san Giuseppe, che di fatto nomino mio speciale e personale protettore confidando sulla sua ironia e bonomia. In che cosa consiste questa sindrome? Nel sentirsi ovviamente il più imperfetto della famiglia dovendone invece apparire la guida salda. Non che con questo voglia affidarmi a una melliflua umiltà fasulla, l’autocompiacimento di sentirsi negare la denigrazione e gustare così una vanitosa ricompensa per la propria maliziosa modestia. Affatto. Lauto compiacimento può derivare solo dalla concretezza. Non che non sia vanitoso, tutt’altro: la vanità è sempre in agguato, come ben sa il diavolo impersonato da Al Pacino nel mondo degli avvocati.
Gli è che essendo proprio vanitoso e anche intelligente, so bene che l’ambizioso deve attingere a piene mani all’umiltà: per crescere, ambizione che può essere anche nobile e saggia, bisogna capire dove migliorare. E per capirlo non c’è che l’umiltà.
L’ambizioso vanesio e superbo farà una brutta e rapida fine.
Quindi qui sto: con una moglie tendente alla perfezione, pur con difetti marginali che provocano in me tanto irritazioni quanto ammirazione per la loro trascurabile banalità; con tre figli che, come recitano brutti film, hanno preso maggiormente da me i difetti, e quindi non posso accusarli di una eredità che ho trasmesso loro; con un lavoro che amo e che ogni mese mi sfida sempre di più, aiutandomi a non fare mai mia la sicurezza.
Di che scrivere dunque?
Della precarietà, della inadeguatezza che mi rende comico a me stesso, specchio delle cose che ho appreso e che rivedo, con squarciante veridicità, nel mio quotidiano.
giovedì 31 maggio 2012
mercoledì 30 maggio 2012
come un distributore di benzina
C’è
che la sindrome da figlio unico coccolato m’è rimasta dentro anche se dovrei
averla dimenticata almeno dal 1985, anno del Signore in cui sono diventato una
carne sola con la mia signora, e ancora di più dal 1986 385 giorni dopo il sì,
quando la coppia è diventata famiglia a tutti gli effetti.
Così
mi capita che quando si cena tutti insieme, a metà strada tra tavola e
fornelli, mi salti lo sghiribizzo di capire se qualcuno porgerà almeno il
piatto al capo famiglia, non dico che lo serva che sarebbe volar alto, ma
almeno condividere il vassoio come vedi fare nei telefilm americani dove le
famigliole –definizione originale della mia dolce metà- si riuniscono per
mettere insieme cibo e avventure, come nei duri e bellissimi telefilm di Blue Bloods molto johnwayne
come piace a me.
All’ennesima
mia domanda, un po’ polemica confesso: “andiamo a self service?” mi viene
intimato di definire cosa intendo e nel balbettio che ne segue esce perentoria
una affermazione: “qui è come dal benzinaio: ci sono due corsie. Self service e
servito. Solo che quella servito è spesso chiusa. E fanne pure un post”. Cosa
che mi affretto a fare.
Inciso:
c’è anche una terza modalità che potrebbe equivalere al servizio notturno non
presidiato. La chiamiamo: ad apertura di frigo, estendendo la possibilità di
aprire sportelli anche alla dispensa e alla cassettiera. Ce la giochiamo quando
siamo tutti un po’ cotti o tutti di fretta o di passaggio. E’ una versione
famigliopugnesca dell’all you can eat con l’aggiunta dell’ if you can find it…
per dirla papale papale magna quello che trovi.
Ma
nelle cene ufficiali, quelli in cui c’è almeno un figlio (se ci sono tutti e tre
si festeggia ovviamente), vigono i due percorsi summenzionati, un po’ come la
corsia blu per freccia lata-ulisse e non tesserati…
Dunque,
ricapitolando, siamo una famiglia self service con qualche rara concessione al
servizio, come un regalo speciale che mi verrà poi ricordato in secula
seculorum.
È
che ormai la tessera fedeltà ce l’ho, e come potrei mai cambiare…
lunedì 28 maggio 2012
Facebookiamoci 2
Facebook è un mondo strano: (ne abbiamo già parlato qui) stai lì a meditare un post
di quelli che vorresti diventassero targhe sulle facciate delle piazze, chessò un
castigat ridendo mores o un sic transit gloria mundi, insomma quegli
aforismi epici che vengono tramandati di generazione in generazione e magari ci
riesci anche e non ti si fila nessuno.
Poi ti passa per la testa una, per dirla con Fantozzi,
“cagata pazzesca” e sollevi una ola di “mi piace”.
Così sulla bacheca di un gruppo amico scopro una
discussione affascinante dove si vuol fare le pulci alla padrona di casa, che
dell’autoironia e del servizio ha fatto il proprio stile, redarguendola con
sommessa severità perché invece di accozzarsi alla figlia (nel senso di starle
incollata come cozza allo scoglio) si concede un intervento all’aula Nervi in
presenza di Nonno Benedetto XVI per testimoniare fede e famiglia.
Ma il bello deve ancora venire: al moderato commento
di chi fa notare all’incauta moralizzatrice che stare in famiglia non consiste
nel vivere in simbiosi come attinia e bernardo (paguro) si scatena la diga. E
con simili parole, se non proprio queste, il nuovo tentativo di ragionamento
viene così demolito: “Noi vogliamo essere
uno sempre in ogni cosa che si fa e si vive. Certo durante la settimana c'è il
lavoro (lavora solo mio marito) e la scuola. Ma sabato e Domenica sempre
insieme... sempre... anche ai compleanni degli amichetti e alle cene di mamma e
papà. I miei figli hanno 9 e 7 anni chissà, forse da adolescenti non andremo
alle loro feste ma, per quanto possibile, prego affinché condivideremo la
maggior parte del nostro tempo”.
Ora, a parte il fatto che li aspetto a Filippi questi
che vogliono andare alle feste dei figli adolescenti (modo migliore per
trasformarli in aspirati pietromaso), e il fatto che la preghiera finale mi
sembra più una maledizione da strega alla festa della belladormentata “d’ora in
poi starete sempre sempre insieme!” ciò che mi ha divertito è sorpreso è che,
essendomi io concesso un commento con un pH inferiore a 7, anche se non di
molto, ho prodotto una valanga.
Volendo intervenire con garbo e
delicatezza, ho tirato fuori dal fodero l’ascia bipenne e ho scritto “beh per
la verità sempre sempre insieme sembra più una condanna che un
piacere...” ottenendo in cambio del mio ardire un numero impressionante di “mi
piace” tale da farmi prendere in esame l’idea di entrare in politica e
candidarmi come premier alla guida del movimento 5 pollici alzati, tra l’altro
con un effetto long seller che continua ancora oggi settimane dopo la
pubblicazione.
Credo di avere inavvertitamente sbottigliato due
elementi.
Primo: non se ne può più di questi moralizzatori da
Facebook che non capiscono un acca di ciò di cui si sta parlando, non capiscono
le persone e non le conoscono, confondono domande retoriche con quesiti
esistenziali rivolti a loro direttamente (vedi
post sul tema) e rispondono con la sicumera di chi si attende di vedersi
assegnare di lì a poco per acclamazione popolare il Nobel in Tuttologia
comparata per il bene dell’umanità.
Secondo: non se ne può neanche più degli eccessi. Se è
vero che la famiglia va sostenuta e privilegiata è anche vero che non può
essere un buco nero che attrae e devasta le vite personali per triturarle in un
ciccino-ciccina che sputacchia fuori l’amore in tempi rapidissimi.
Ciò detto senza offesa alcuna per la persona in
questione, della quale non ricordo né nome né icona: come sempre mi preme
risalire dal particolare al generale, dal caso alla radice perché convien
parlare di macrotemi più che lanciar anatemi al singolo.
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venerdì 25 maggio 2012
I torti e i diritti
Spesso
percepiamo i minuscoli (presunti) torti come supreme imperdonabili ingiustizie.
Ad
esempio questa è la stagione delle guerre in casa nostra: perché abbiamo
visioni diverse sulle necessità di apertura. Delle finestre.
Uno
predilige una rigorosa resistenza alle correnti, l’altra una ottimistica
apertura al sole e al vento. Uno tende a fuggire i bruschi cali di temperatura,
l’altra sta meglio in condizioni Findus che non polloallospiedo.
Il
punto è che ci si può anche prendere amorevolmente in giro su questo, qualche
volta battagliare, ma mai distruggersi.
Eppure
è qui che poi i matrimonio si disgregano, franano: nel ritenere insopportabili
mancanze di affetto quelle che in fin dei conti possono essere al massimo
definite piccole manie quando non sono forse se non semplici preferenze.
Ma
bisogna vegliare, sulle battute aspre per i cassetti lasciati aperti, per i
vestiti abbandonati sulla sedia, per le tazze non lavate, per il ritardo nel
gettare la spazzatura.
È
lì che si incrina l’amore, che si aprono quelle fessure nelle quali soffia poi
il vento dell’egoismo, si insinuano i serpenti della insoddisfazione. Dice bene
il Cantico dei Cantici “Prendeteci le volpi,
le
volpi piccoline
che guastano le vigne” (2,15).
È nel poco che bisogna
combattere per vincere nel molto. Anche nell’amore.
mercoledì 23 maggio 2012
Facebookiamoci 1
Uso
Facebook anche come sfogo ai pensieri: raggiunta una certa età si apprezzano
gli aforismi per la loro sagace sintesi e cruda qualche volta crudele
essenzialità. E sobrietà. E ci provo a scriverli. Ci provo.
Certo,
che qualche volta la frase che pretendi tagliente ti esce alla fine di un
pensiero, di una situazione, di una preghiera. Che gli altri non sanno.
E
fraintendono.
E
io m’offendo. Perché sono permaloso. E vanitoso.
Così
scrivo: “sono un uomo innamorato. Qualche volta lotto con e confondo le
priorità”
E
dopo due tre “mi piace”, dati sulla fiducia, arriva la sciabolata “eccone lì un
altro”.
Ora
posso immaginare che la lettrice abbia preso la mia esternazione come una
accondiscendenza verso il tradimento, una sorta di indulgenza per i mariti che
sbagliano.
Certo,
potrebbe essere.
In
realtà ero arrivato a quella considerazione dopo Messa, dopo aver pensato a
moglie, figli e Dio. E aver sentito dire che il primo amore, il fiore della
spremitura, va a Dio.
E’
qui che inizia la lotta con le priorità. Perché se è vero che lo so, e so che è
vero, è anche vero che mi capita di pensare di amare la mia famiglia di più e
se mi chiedessero a bruciapelo chi amo più di tutti, beh forse (confesso) non
mi verrebbe al volo di dire Dio, ma forse mia moglie, forse la famiglia.
E
non per una diminuzione altrui.
Ora,
avendo in mente questi pensieri di così nobile intento e di così sublime
ispirazione, vedersi trascinare nel fango della depravazione, additato come
istigatore di tradimenti, fiancheggiatore dei fedifraghi, capirete che come
minimo addolora.
Anche
perché mai e poi mai chiamerei amore uno scuotimento di ormoni, un rigurgito di
passioni adolescenziali, un inganno che il fisico tesse alla ragione. Perché
una promessa è una promessa e se tutti siamo pronti a dire che venir meno ad
una promessa è da manigoldi, perché dovremmo poi farci sconti quando questa
promessa è quella dell’unione per tutta la vita?
Ciò
detto m’ha fatto pensare sto fatto, e m’ha fatto concludere che la sintesi non
fa l’aforisma se il senso vien meno…
Riproverò.
sabato 19 maggio 2012
Ma questa è una domanda?
Capita
questo Che questo blog non sia l’unico che firmo. Qui c’è il cuore, il gusto,
il tratto. Negli altri c’è anche la professionalità. Anche in quello che parla
di famiglia.
E
per aumentare il traffico, come si dice, essendo che siamo sul web e non a
Melegnano, non serve mettere un cantiere stradale, bisogna farsi trovare.
Così
uso i social media come annunci radiofonici, lanci d’agenzia.
E
come in questi casi, specie se usi twitter che di caratteri nel accetta 140,
scrivo una frase a effetto, una domanda, una provocazione. Un titolo insomma.
Avete presente quelli che stanno sopra gli articoli nei giornali? O quelli che si
trovano nelle bacheche delle edicole. Come quelli che trovate in questa pagina.
Ora:
è chiaro che a un titolo non si risponde. Che un titolo non interroga: la
domanda è retorica. E se accanto alla frasetta trovi un link, ti verrà pure il
dubbio che forse lo scopo dell’interrogativo “per
educare ci vuole il consulente? Intervista alla sig.na Daniela” sarà quello
di indurti a cliccare sopra http://ow.ly/b0Wr0 per poter leggere
l’intervista…
E
allora perché mi rispondi? Perché ti ostini a tirare fuori baggianate che non
stanno ne in cielo ne in terra? Perché ti arrampichi sugli specchi per dire
cose che non c’entrano con il tema?
E
poi, quando te lo si fa notare, invece che fare la sola cosa sensata –cioè dire
una roba tipo “opss… ci sono cascato… scusate- mi tiri fuori che rispondi
sull’onda dell’emozione, dell’intuizione e che quindi dici quello che pensi?
Perché
così mi dimostri due volte di essere un po’, come dire, stravagante: la prima
perché rispondi –scusate il termine tecnico- a ca@@o, come se rispondessi alla
domanda di Amleto “essere o non essere?”; la seconda perché pensi che dire la
prima cosa che ti passa per la testolina sia positivo, invece che provare a
collegare il tutto con la ragione e magari anche leggere il pezzo collegato.
Che
sia chiaro: non sei mica obbligato, neh! Ma se vuoi partecipare al dialogo,
contribuire al dibattito, forse è meglio che ti prepari. O no?
Il
che mi fa davvero pensare che stiamo un po’ andando alla deriva: perché questa
storia dilaga e con essa vedo la ragione aggredita da due aspetti: l’irruente
violenza dell’emotività da un lato e l’assoluta difesa della propria arrogante
presunzione dall’altro.
Riassumibili
in: “Io dico quello che sento e per questo ho ragione per definizione”.
E
questo, scusate, mentre mi spaventa, mi fa anche girare un po’ i ventilatori….
By the way:
nel caso gli altri blog sono
giovedì 17 maggio 2012
i racconti del giovedì: Firmino due
Prossimo post domenica 20 maggio
Continua la storia raccontata.
Seconda puntate
mercoledì 16 maggio 2012
L'essenza del calcio
Prossimo post giovedì 17 maggio
Reblog: giugno 2010
Gli è che il calcio è molto più di uno sport. E i mondiali molto più di una competizione. No. Non voglio fare il sociologo. Né l’economista. Non voglio parlare di show business né lamentarmi perché si parla di eliminazione come tragedia nazionale quando i problemi sono altri. Neppure affermare che il calcio ha sostituito la guerra e che quindi…
Vedo spesso su giornali, blog e social network commenti sdegnati di chi stigmatizza aggettivi e tempo dedicati al flop, e si lancia in lunghe fiLippiche sui veri problemi che assillano il paese e il mondo. Tirate sociologiche, analisi politiche, antropologiche, globalistiche e via discorrendo.
Mi irritano perché, pur sostenendo una sostanza reale e corretta, puzzano di intellettualismo sociale e dimostrano, a mio parere, una totale incomprensione di ciò che calcio e mondiali sono e fanno.
E’ per esempio irragionevole non considerare che i mondiali scandiscono il tempo assai più che crisi economiche, guerre o olimpiadi. Lo cantava anche Venditti: ricordate? Era l’anno dei mondiali quelli del 66…. E chi non ricorda dove era e cosa faceva e con chi nelle finali degli anni in cui era capace di intendere e di volere? Dal 70 in poi le ricordo praticamente tutte! E’ un tassello nel tempo che va ben oltre l’evento sportivo. Diventa un parente caro, una ricorrenza affettuosa della quale si sente la nostalgia.
Tra gli amici della terrazza ricordiamo ancora quella volta, mondiali USA 94, in cui un amico, poco interessato allo sport della pedata, si addormentò durante i minuti finali di Italia Bulgaria, con risultato in bilico e partita tesissima.
I Mondiali parlano al cuore, scuotono, radunano, riaccendono. Insomma per una volta uniscono invece di separare. Perché il tifo è una delle poche cose rimaste che si radica nel cuore, e scuote. Irrazionale, che non richiede spiegazioni, infiamma. E ogni quattro anni, quando lo sport si fa evento mediatico, tutti, anche le signore, ne vengono influenzati. So bene che le tragedie sono altre, che andare a casa dopo il girone iniziale non è nemmeno paragonabile alla chiusura di un negozio con conseguente licenziamento del personale. Che va di moda definire bamboccioni straricchi e viziati e calciatori. Ma questo che cosa c’entra?
C’è una valvola di sfogo nel parlare di calcio, di vittorie e sconfitte, per lungo tempo. Non è obnubilazione. E’ mediazione culturale. E’ dare riposo al fisico e al cervello in un momento in cui si può distogliere, per un attimo, dai reali affanni di una vita, da un millennio che nei suoi primi dieci anni ha saputo regalarci solo crisi a grappoli e morti e disperazione, insieme con sofferenze e tribolazioni. Lasciateci inventare video e canzoni su Macello Lippi e i suoi branca leoni.
E poi comincio ad esaurire la pazienza per questi cultori del lamento, del benaltrisimo, che di fronte ad ogni cosa si stracciano le vesti urlando che il problema è ben altro, che il problema è a monte, che il problema è che non pensiamo abbastanza al problema. Che lo facciano loro per tutti e ci trovino le soluzioni invece che continuare ad additare con spocchiosa prosopopea e superiorità antropologica che cosa noi facciamo di sbagliato. Anche perché quando chiedi loro di darti una soluzione, se ne escono con banalità così sconcertanti che mettere un trentasettenne bollito al centro della difesa al confronto sembra una idea innovativa e geniale. Come una mucca viola. Ma di questa parleremo un’altra volta
domenica 13 maggio 2012
Il pianeta degli esperti
Prossimo post mercoledì 16 maggio
Franca soffre di pesantezza di
gambe. Mi dice delle recenti sofferenze. Il caldo le accentua. E qui scatta la
mascolinità. Hai fatto? Hai chiamato? Hai provato? Lei paziente abbozza e
ascolta e risponde. Poi siccome gli angeli sono sempre in agguato, mi capita in
mano un libro sulle differenze tra donne e uomini. Apro a caso e leggo che i
marziani, cioè gli uomini, sono molto egocentrici ed autoreferenziali e
detestano chiedere aiuto agli altri per fare qualche cosa che dovrebbero essere
in grado di fare da soli. Che ci si aspetta sappiano fare da soli. Come trovare
la strada ad esempio. Piuttosto che chiedere ad un passante un aiuto siamo
capaci di girare per ore alla ricerca della destinazione che il navigatore ci
nega.
E che quindi, i marziani,
torniamo a loro, si rivolgono ad altri per chiedere un aiuto, un consiglio,
solo se considerano l’interlocutore un esperto. L’uomo chiede riferendosi a chi
ritengono ne sappia più di loro di….informatica, tapparelle, impianti
elettrici, automobili.
E questa cosa qui è importante
per entrambi gli uomini: perché è un riconoscimento. E’ gesto di rispetto. Io
ti riconosco superiore a me in questo campo. Ed io, che mi sento onorato, mi
sforzo di trovare la soluzione migliore. Funziona così. E per non perdere la
faccia non vengo a chiederti aiuto. No. Ti espongo il problema. E ti chiedo una
soluzione.
Ci fate caso? Si inizia sempre
così: “tu che cosa faresti se…? Perché la situazione è questa….”.
Si espone un problema. E si cerca
una soluzione. E’ nel nostro DNA. E’ meccanico. E’ semplice. Lineare.
Finché non si incrocia una
venusiana. La quale, secondo il libro e la vita, ama condividere, ama avvolgere
nei propri pensieri gli altri. E lo fa: ti racconto un problema perché così ti
rendo partecipe dei miei sentimenti, mi sento ascoltata, mi sento capita.
Amata. E devi solo ascoltare, annuire, al massimo fare una domanda, semplice,
gentile: “e tu che cosa hai fatto?”. Perché io ho già fatto, ho già trovato la
soluzione, ho già risolto tutto. Te lo racconto solo perché è un modo carino per
stare assieme, per essere più uniti.
Capite che il problema è quando i
due pianeti si incrociano.
E capite che la soluzione è che,
come sempre, abbiate una gran pazienza con noi marziani.
p.s. ma uno spettacolo basato su
queste situazioni di tutti i giorni, sui linguaggi dell’amore, con commenti di
video, battute e riflessioni lo verreste a vedere?
giovedì 10 maggio 2012
I racconti del giovedì: la storia di Firmino - prima parte
Prossimo post domenica 13 maggio
Questa volta invece che una storia scritta, una storia raccontata.
E se vi piace, pubblico prossimamente le altre puntate
Questa volta invece che una storia scritta, una storia raccontata.
E se vi piace, pubblico prossimamente le altre puntate
mercoledì 9 maggio 2012
Di calcio e donne
Prossimo post giovedì 10 maggio
reblog - scrosci di post del 2010
reblog - scrosci di post del 2010
“e poi quando te la metti?”
questa frase rivolta da una moglie al marito e avente per oggetto una maglia
dell’Inter che il poveruomo cercava di comperare, dimostra la profondità
dell’incomprensione tra i sessi e la ancora più profonda frattura che tiene
separati due mondi. Tutto questo affermato, nel caso fosse complesso
comprendelo, all’interno del tono umoristico e autoironico che caratterizza
queste righe.
Perché diciamolo: che cosa cerca
un uomo in una maglia? Perché comperare un capo d’abbigliamento onestamente
inutilizzabile, se non nelle sere calcistiche a bordo divano con altri tifosi
come lui agghindati? Una maglia è appartenenza, è dimostrazione laica di una
fede sportiva che sta dentro radicata (impossibile cambiare la squadra del
cuore una volta raggiunta la coscienza di sé stessi: mio nonno paterno,
milanista come mio padre, mi prendeva in giro mostrando delle mie fotografie a
due anni nelle quali indossavo i colori rossoneri. Ribattevo facendogli notare
che nelle foto dell’anno seguente, alla soglia della capacità di intende e
volere, già vestivo il nerazzurro). L’appartenenza ai colori è sicurezza, è
sguardo al futuro quanto alla tradizione, è sentirsi parte di un tutto che
trascina con sé gioie e sofferenze, come la vita. Indossare una maglia è tutto
questo: val più il nome Milito o Zanetti (personalmente sceglierei la seconda)
che la firma Ferragamo o Blahnick su un capo che non dice nulla se non l’effimera
transitorietà che lo contraddistingue. Perché una maglia non passa di moda,
neppure quando il nome è da cambiare: perché c’è stato un momento in cui
Ronaldo è stato il simbolo di quei colori. Non è più oggetto da saldo di fine
stagione o capo dismesso. E’ storia.
Le donne invece sono pragmatiche:
che te ne fai? Quest’anno è già finito e magari il prossimo sarà un disastro
(facciamo le corna e tocchiamo ferro. Ho detto ferro…) e poi quando mai la puoi
mettere? Mica alla serata della scuola. O all’uscita con gli amici. Al massimo
quando da solo guardi le partite. E allora spendere questi soldi per una maglia
che non si può sfoggiare… che serve?
Credo che le donne siano non solo
più pragmatiche ma anche più individualiste, nella loro consorteria solidale.
Noi saremo anche competitivi, ma lo spirito di squadra dentro ci rugge. E con
esso quello dell’appartenenza ai colori. Mah. Che ne dite?
lunedì 7 maggio 2012
Ci vuole poco
Prossimo post mercoledì 9 maggio
“Sei un grande!”
e con questo
commento di mia moglie ci si può addormentare sognando il Paradiso.
Ma come ho
fatto a meritarmelo?
Guardando uno dei nostri serial gialli preferiti, The
Mentalist, lei -nonostante sonnecchi- intuisce il colpevole e lo anticipa.
Alla soluzione del mistero
me lo fa notare, e mi chiede “E tu l‘avevi capito?”
“Sì”, rispondo.
“Quando?”
incalza.
“Quando me l’hai detto tu” spiego.
Da qui il complimento che mi fa
dormire tra latte e miele.
domenica 6 maggio 2012
quinto emendamento
Prossimo post lunedì 7 maggio
"Quando
vieni a letto non arieggiare le coperte..."
"Non sarà mica che hai
freddo anche tu?"
"Certo! Non sarà mica che lo scopri adesso? Sono
anni che ti dico di non creare tornado quando ti infili sotto le
coperte!"
"Ma pensa, è la prima volta che mi viene in mente che sia
per io freddo..."
"Non dirlo che peggiori la tua
sitrazione!"
"Ma no, davvero, non ci avevo mai
pensato!"
"La prossima volta prima di parlare aspetta il tuo avvocato
che è meglio"
e come fai a non amarla una moglie così!
venerdì 4 maggio 2012
l'amore in lavastoviglie
prossimo post domenica 6 maggio
Quanto amore c’è nel gesto di una moglie che stira? O di un figlio che
svuota la lavastoviglie?
Se solo avessimo la pazienza di fermarci e di non dare per scontato tutto
quello che ci capita intorno, come se fosse un incasso che riscuotiamo da una
eredità che non abbiamo fatto nulla per meritare.
E invece è un dono, silenzioso quanto prezioso, che ci viene elargito, davvero
senza merito, nelle pieghe della giornata e che non merita di scivolarne
sull’orlo fino a cadere nell’oblio.
Due sono i nemici che dobbiamo combattere per toglierci le scaglie dagli
occhi e vedere con chiarezza: da un lato la vista selettiva, tipica maschile,
che non nota se non ciò sul quale si è fissata, perdendo i contorni
(definizione dall’astigmatismo secondo il già citato Zingarello- vocabolario
povero della lingua italiana: la malattia degli occhi che ti fa vedere la
bistecca ma non le patatine);
dall’altro l’assoluta ignoranza per le cose di casa per cui riteniamo che i
panni si lavino, asciughino e stirino da soli o grazie a qualche incantesimo
harrypotteriano.
Questa seconda sindrome, molto diffusa tra gli uomini, crea violenti
imbarazzi nel momento in cui ci si chiede un contributo. Vorremmo il manuale
delle istruzioni anche per apparecchiare, denunciando così una ignoranza
complice ed interessata. Quanto poi a far funzionare la lavatrice... bisognava
che, come per le lingue, ce lo insegnassero da piccoli. Infatti mio figlio è
capace!
Quanto a me: ormai le donne di casa sono arrivate a scrivermi con il
pennarello sulle piastrelle le istruzioni, le volte che rimangono da solo a
Milano.
Due nemici: una sola battaglia. Non ci vuole
molto per vincerla. E i successi sono così rassicuranti che meritano lo
sforzo.
giovedì 3 maggio 2012
I racconti del giovedì: tornando a casa
Prossimo post venerdì 4 maggio
E non so neppure perché sono qui, perché sono entrato qui.
Passavo. E adesso me ne sto qui davanti a te. Anzi, davanti ad una statua che
pretende di rimandare a te. Se ci sei. Che questo è ormai un dubbio. Prima ero
sicuro. Che il cielo fosse vuoto intendo. Un inganno. Come una cosmica candid
camera, che ci fanno credere sia abitato e invece no che non lo è. Vuoto non
perché qualcuno l’abbia abbandonato, ma perché nessuno c’è mai stato. E invece
oggi mi è sceso nel cuore questo tarlo, questa voce chioccia e stonata, che
vorrei tanto soffocare. E fomenta, e tormenta, e provoca. Assicurandomi che sì,
ho proprio ragione, il cielo è sprangato, come una saracinesca bollente, non
tanto vuoto quanto inaccessibile. Sconfinato e blindato. E allora, anche solo
per il gusto di contraddirla, m’ha preso un uggia urticante, una smania
infastidita che m’ha condotto qui dentro, davanti a questa scultura lignea
essenziale e devo dire decisamente semplice, ingenua, brutta, e ora m’ha
piegato le ginocchia e chinato il capo, come una mano decisa e materna che mi
invita a spegnere il mondo.
E così, sommesso e composto, posso lasciar sfogare la mia
paura che sale piano dal cuore e si irradia paralizzando ogni muscolo. Sì
Signore, ho paura. Non di te. Che non ti conosco, ma quel che sento è una
pazienza infinita come mia madre quando tornavo a casa, in ritardo, e sporco,
magari stracciato, le ginocchia ferite. E invece che urlare, mi prendeva in
braccio e mi cullava. Ecco, di questo ho bisogno, di essere avvolto da un
affetto che non ho più sentito da allora. No, lo so che la famiglia… E che non
mi posso lamentare. E che la amo lei, mia moglie, e lei mi ama anche di più e
che i figli... Lo so. Ma è diverso. Non è l’amore che lei può darmi quello di
cui ho bisogno ora. Perché dentro il suo affetto non c’è la speranza, o
addirittura la certezza. Di questo ho bisogno ora. Ho paura, non so come fare,
come trovare la luce in questa penombra che scende lieve, quasi allegra, ma
vorace. Quando alzo lo sguardo sul futuro, la vista si fa miope, tutto si
sfuoca e poi l’orizzonte si chiude nella notte. E la morsa stringe il cuore.
Cerco di lottare, ma il veleno sta arrivando al cervello perché la tentazione
di lasciarmi andare è sempre più grande. Sogno di adagiarmi nell’acqua calda,
di quel tepore morbido come una schiuma, e galleggiare contemplando il sole
sopra di me, e giacere lì, senza muovere neppure gli occhi fino a che la
corrente mi culli e mi conduca oltre la linea che serra il futuro. E mi sciolga
nel mare così, con dolcezza e senza dolore. Lo so che è una diserzione, lo so
che è egoismo, ma se non mi aiuti tu in qualche modo Signore, se ci sei, io lo
faccio. Io esco e lo faccio.
Perché questo terrore sta dilagando, occupando come un
nemico astuto tutti gli spazi della mia giornata, affogando la speranza nei dettagli. Non riesco più a fare
quello che vorrei, non riesco più ad alzarmi all’ora che vorrei, non riesco più
a leggere quello che vorrei, il tempo mi sbeffeggia, illudendomi di possederlo
con attività che in realtà lo disperdono e poi ruggendo quando mi rendo conto
che il debito cresce a dismisura e anche qui raggiunge cifre che non riuscirò
mai a colmare.
Perché se da un lato si spegne la speranza, dall’altro
cresce il fallimento. Se guardo avanti il cielo è spento, se guardo indietro
vedo il fuoco che mi insegue. Che cosa ho fatto? Che cosa posso vantare? I
figli? Che cosa ho saputo dare loro? Denaro? No, anzi, sono di quella
generazione che brucia quello che la precedente ha accumulato lasciando il
deserto a quella che la segue. Forza? No, ma fragilità. Li guardo e temo che il
primo vento forte non li agiterà ma li sradicherà portandoseli via come un
tornado un alberello. E nei loro occhi vedo le mie colpe, non la loro scelta
libera, ma le mie catene. Ma questo non spegne nella colpa la mia delusione:
che se da un lato mi sento addosso la macchia per la loro, dall’altro sento una
rabbia scomposta contro di loro, per la delusione che non mi hanno mai
risparmiato. Una delusione che ha
radici in me non in loro e che quindi è più figlia mia di loro stessi. E
proprio per questo mi irrita, perché mi deride dipingendo in loro le mie
incapacità.
Dell’adolescenza ti rimangono in mente immagine spezzate,
sparse: l’amica della ragazza che filavi che le dà di gomito mentre passi, loro
appoggiate al calorifero nell’atrio della scuola, tu passo annodato e testa
bassa. E tutti e due arrossite senza sapere come nasconderti eppure provando un
senso di orgoglio e felicità. Le scale del liceo e la balaustra dove ti
sporgevi per vederla entrare, lei che non ci sei mai riuscito a parlarle,
neanche a fermarla, e una volta le hai scritto e pensi che starà ancora ridendo
di te. Il bar dove giocavi a boccette con tuo padre a mare, e dove poi avresti
aspettato la telefonata di lei anni dopo, quando il massimo della mobilità era
la cabina nel vicolo, o la complicità di un amico che ti lasciava usare il telefono.
E se qualche volta sogno di tornare a quegli angoli, quelli del tavolo messo all’angolo con sopra le bevande, come canta Ruggeri, non fosse che perché il
futuro ti guardava muto, senza sbeffeggiarti, solo illudendoti, non che non ci
vorrei tornare, perché non baratto quella slavata sicurezza con la felicità,
tenue eppure salda, che sento tremolare sullo sfondo, come una musica lontana,
come la luce sommessa di un faro in una notte tempestosa.
E torno a te allora, sperando che Tu ci sia, che questo
calore che ora sento non sia ancora la ruggente beffa del destino, ma la
notizia di un approdo sicuro, che in qualche modo arriverà, non so dove, non so
come, ma arriverà. E potrò riposare calmo. Senza più paura.
Che la paura si sta sciogliendo mentre sono qui, pesante
sulle ginocchia, e fuori il giorno
si dissolve non più nella notte buia, ma nella sera calma, tiepida,
rassicurate.
Sto tornando a casa.
martedì 1 maggio 2012
Sincerità
prossimo post giovedì 3 maggio
No, non è quella di Arisa, e neppure quella di Cocciante. Piuttosto un modo di fare che oggi sta diventando antipatico, e non perché sferza i malvagi o castiga i costumi deridendoli.
Ora sembra che dire sempre quello che si pensa sia una dimostrazione di onesta totale e che trattenere il pensiero invece sia sintomo di ipocrisia, di malizia, di disonestà (intellettuale).
Ora sembra che dire sempre quello che si pensa sia una dimostrazione di onesta totale e che trattenere il pensiero invece sia sintomo di ipocrisia, di malizia, di disonestà (intellettuale).
Ad esempio potrei dire che ci sono rimasto male per le poche visite a questo post sugli incroci della vita a cui tenevo molto. ma è di ben peggio che parlo.
Così nei blog c’è sempre quello che entra a gamba tesa e poi sostiene che è la sua franchezza ad essere messa in discussione, perché dice proprio quello che pensa e nel preciso momento in cui lo pensa.
Ah sì? Spontaneo. Immediato.
Animale.
No, non nel senso di offesa, nel senso di appartenente al mondo della fauna. Che –e qui non vorrei scatenare una nuova rissa- è diverso da quello umano.
Noi c’abbiamo (ma sì, ridondiamo con il “ci” pleonastico) la ragione che deve mediate (quindi: nessuna immediatezza please) e cercare di connettere causa ed effetto.
E’ proprio necessario dire quello che penso adesso?
Non è che magari è meglio che cerchi di capire, che mi schiarisca le idee, che magari faccia qualche domanda per approfondire, per allineare la comprensione?
Che
se poi resto della mia idea e non devo chiedere scusa, cosa che il più delle
volte non faccio per non rimetterci la faccia, devo anche decide che cosa c’è
di buono nel dire quello che penso. E’ d’aiuto o è solo uno sfogo?
Perché se è solo uno sfogo…sarà forse onesto, ma è anche violento e maleducato. O no?
C’è che abbiamo un così grande senso di noi, una autostima così forte, un ego cos’ auto referenziato e centrico (ego-centrico) che crediamo che le nostre affermazioni meritino di essere ascoltate proprio perché nostre.
Punto.
Proprio come questo mio post.
Ops!
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