Non so se avrò la forza di spedirti questa lettera Ismaele
perché non è che ci siamo lasciati proprio bene bene. E confesso –lo faccio
tutte le volte- il rancore non s’è mai quietato e ogni tanto, come tentazione
morde. Perché un po’ di quella malattia che t’ha rovinato ce l’ho pure io, ed è
solo per grazia che in me è sotto controllo, sempre pronta ad esplodere sì, ma
tenuta alla catena se prendo i farmaci giusti. Che nella circostanza sono
grandi dosi di umiltà. L’orgoglio t’ha corroso e mi prende spesso -anche a me-
alla gola per salire su e impiantare nella mente, che pensa ad altro, che
guarda come sono bravo e come sono migliore e come sono sottovalutato e come
dovrei avere più successo, rilievo, fama, soldi e poi arriva la preghiera a
Maria a scacciarla e solo sotto il Suo mantello trovo rifugio, come un bambino
nell’abbraccio della mamma da un cane che ringhia e mostra i denti.
Che questo è forse il peccato peggiore, e non a caso è uno
dei tre che stanno alla radice di tutti, quella superbia vitae che è stato
probabilmente il rifiuto di Lucifero. Ci dorme dentro, sorniona, pronta ad
intrufolarsi ad ogni minimo spiraglio che le offriamo o a tentarci con frasi
delicate e morbide, mai rudi, mai ingiuste, anzi rivestite di quella giustizia
che ci assilla, quasi una urgenza, una scorciatoia. È difficile da domare la
presunzione, e mai da soli ci si riesce perché s’attacca proprio là dove
dovresti fare leva per sconfiggerla, nella volontà, e non la dissolve, anzi,
semplicemente ne sposta la mira -di poco non di tanto- ma quel che basta per
mancare l’approdo e perderti nel mare di fuoco. La sento sempre che mi alita
sul collo, anche ora, ed è un formidabile gioco di specchi e di rimandi, di
preghiere e di sussurri che l’ottimo Tolkien magistralmente descrisse con la
malattia di Theoden provocata da Vermilinguo.
Tu invece, Ismaele, non so come, te ne sei fatto dominare e
alla fine non è rimasto che quello: orgoglio, vanità, presunzione chiamalo come
vuoi, necessità di performance a manovrare quello che dal di fuori sembrava il
tuo corpo ma in realtà non lo era più, tuo intendo, ma di quel demonio che ti
strappa Dio dai pensieri per lasciarci solo un io nudo e banalmente fragile.
I segnali di questa lotta si vedevano già, quando mescolavi
menzogne alla verità, pur di apparire sempre il migliore, non però quello che sgomita, ma quello
che fingendo di sedersi in fondo viene chiamato ai primi posti. Che così ti
piaceva essere: riverito e onorato, che così potevi schernirti e quindi
conquistare ancora più onori e stima in un crescendo che ti portava ad essere
sempre più alto e ammirato.
Poi l’inganno ha preso il sopravvento e ti ha trascinato in
un mondo falso che ingannava te stesso per primo (o forse te solo), e hai
cominciato a vivere inseguendo l’ultima bugia, sommando violenza a violenza:
che tutto diventa violenza quando si fugge lontano dalla verità. Fu allora che
me ne andai, finendo per ritagliarmi addosso il ruolo di Giuda, di quello che
scappa, tradisce, abbandona. In realtà eri tu che stavi scappando, che ci avevi
già abbandonato da tempo, un po’ come quell’anima che –racconta Dante- sta già
all’inferno mentre il corpo su è marionetta. Non così si intende, perché tempo
per sgaiattolare via da quella prigione del cuore ne hai ancora e so già che
sei su quella strada.
Ma allora era l’insania a guidarti e a vedere le tue gesta
da lontano mi faceva male e bene: feriva il peccatore, e lo induceva ad almeno
tre dei peccati capitali, e bene al penitente che combattendoli si rafforzava.
Non perché io sia migliore di te: solo a pensarlo lo negherei, venendo travolto
e deriso dalla vanità stessa che evoco.
Ma per qualche speciale dono del cielo, forse l’aiuto e le
preghiere di mia moglie, dei miei figli, dei miei amici. Già perché in questo
eravamo diversi: tu avevi ammiratori, ma non amici. Li fuggivi, perché
avrebbero visto dietro alla facciata e questo tu non lo volevi.
È stata una lezione salutare, perché la lontananza mi ha
costretto a smettere i panni del numero due: comodi se non hai troppi trilli
per la testa. E sei un codardo come io in fondo un po’ sono. Così, tolto il
coperchio, ho dovuto combattere in prima fila tutte le battaglie, e questo mi
ha fatto crescere e lo devo al tuo sacrificio.
Certo non avrei immaginato che questa tua possessione ti
conducesse fin dove sei ora, a scontare una condanna per omicidio. C’era
bisogno di sangue per svegliarti? Per aiutarti? Non lo so. Non oso nemmeno
chiedere, e ho paura di intuire la risposta.
Non so se verrò mai a trovarti, né se avrò la forza di
spedirti questa mia, perché non so se ne sono pronto, se riesco a guardarmi
dentro con quel coraggio che mi permette di vedere fino in fondo quello che
sono, e sono diventato, che ogni volta che provo a farlo è il terrore che mi
coglie e tu sei una luce che rivelerebbe anche gli angoli più nascosti.
Non so mai se ti recapiterò questa lettera Ismaele perché, e
il nome lo dice, non so neppure se esisti o se sei un prodotto letterario, la
somma di immagini crudeli che voglio dimenticare e per questo scrivo e metto
agli atti. Che quello che qui è riassunto su carta è un po’ di me e un po’ di
tanti, molta immaginazione e tanta coscienza.
Ma sappi che, se ci sei e sei qualcuno in carne ed ossa,
adesso finalmente ce la faccio a pregare per te.