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Carissimo
Valerio, ti ho visto sdrucito e sfarinato stamane quando mi sei apparso come un
riflesso per pochi istanti. Poi non ho più visto il tuo viso e ho iniziato a
pensarti. Come eri. E come sei diventato. E mi sono commosso.
Ho
visto quello che hai fatto e quello che hai distrutto in questi anni e non ho
potuto fare a meno di provare una fitta di dolore, caro, perché fai sicuramente
parte di quella generazione che ha dissipato ciò che i padri avevano
accumulato, di fatto rubando ai tuoi figli quello che non avevi ricevuto in
eredità ma, come si dice, in prestito. E l’hai fatto nella massima buona fede,
inseguendo i tuoi sogni prima e poi cercando di stare a galla in un mondo che
aveva distrutto le sue stesse fondamenta prima di accorgersi che il tetto gli
cascava addosso.
Che
tu poi per queste fondamenta ti sei sempre battuto. Poi, battuto… parliamone
carissimo, che la faccia ce l’hai messa spesso, ma quasi sempre dietro ad uno
schermo, ad una icona, che magari portava anche il tuo nome, ma sai caro, non è
che tu sia poi così conosciuto che tutti ti fermano per strada per ricordare
quella battuta arguta, quel commento tagliente, così intriso di ironia da lasciare
a bocca aperta. E infatti spesso a bocca aperta, mi dici, ci rimani tu che non
riesci ancora a capacitarti di come la gente non capisca, di come ogni volta
che tu indichi la luna loro si soffermino a guardarti il dito e magari il callo
o l’unghia o la pellicina che cresce fastidiosa. E ci rimani male perché in fin
dei conti non riesci a scrollarti di dosso proprio quella sensazione di avere
fallito che vorresti annegare in un tripudio di folla che urli innamorata il
tuo nome.
Mi
confidasti, una sera ai bordi di un falò su una spiaggia domestica, di un tuo
sogno ricorrente dei tempi del liceo -quando non eri neppure una comparsa,
neanche un nerd- di salire sul palcoscenico di quell’aula magna allora spazzata
solo da collettivi e comizi e compagni e interpretare una commedia di cui non
sapevi nulla se non la scena madre: tu che in piedi di fronte a lei seduta, la
guardavi inteso e stringendo un bicchiere all’estremità di un braccio teso,
volgevi lo sguardo al pubblico con occhi ora rossi e intinti nelle lacrime e
poi con un gesto secco e romantico spezzavi quel bicchiere, come se schiantassi
una vita, la tua vita, o un amore o un sogno. E veniva giù il teatro. Quanta
disperata vanità carissimo in questo banale –diciamolo: proprio uguale a quello
di tanti emarginati- desiderio di farti amare scegliendo la scorciatoia. Come?
Proprio tu che dici di credere in certi valori, che mi riempi la testa del
valore dell’umilità, stai poi a rincorrere questa sgangherata fama fatta di
urletti trepidanti e di immeritati ricordi? Ah già tu mi dici che era l’amore
che volevi accendere non il desiderio, ma ci credi davvero anche tu a questa
panzana? Che poi è sempre e solo tentazione.
Così
hai schiantato le tue speranze? Così vivi oggi tra un espediente e l’altro,
inseguendo l’ottimismo e il successo di amici che ti regalano le briciole della
loro stima, così impegnati ad inseguire risultati che non sono nemmeno più
compresi tra i pronostici della tua schedina?
Questa
è vita? Come fai la notte a dormire, sapendo che ogni giorno ti allontana di
più dalla sicurezza, da quella terra che i tuoi non ti avevano promesso, ma
affidato e che tu hai gettavo via e neppure per un frutto proibito, ma solo per
incapacità?
O
sì, hai voglia a dire che le circostanze, le crisi, la sfortuna, gli incontri,
gli amici che ti hanno tradito, quelli che ti hanno perduto. Sì. Posso anche
crederti: ma tu, dentro, che cosa hai fatto?
Ti
ho visto piangere una sera, di soppiatto e poi ti sei quasi gettato addosso a
me perché ti ascoltassi nel confessare quella fatica che fai, istante dopo
istante, mentre vedi dissolversi le tue energie, quella costanza capacità di
farcela sempre, e ti pare -mi dicevi singhiozzando- di venir prosciugato da
molti lati, come drenato della volontà, assalito da continue seduzioni di
“lasciargliela lì come fosse un gioco questa vita che non vale niente, ma non
vale poco”. Che ormai, mi confidavi, tutto sembra congiurare per farti perdere
tempo: per privarti della sobrietà necessaria per essere generosi nelle proprie
azioni, obbedendo per essere creativi e eseguendo comandi per difendere la
prorpia libertà. Hai finito per piangere quella sera e non è stata l’unica,
sostenevi, perché questo sentimento –o tentazione- che ti lacera l’anima e
svella il cuore mentre svela la tua pochezza, ti assale spesso e non solo
quando cala il sole e l’ora più che al disio volge al rimpianto, che tu sia
navigante o no, che poi tutti lo siamo nella vita.
Eppure
sorridi sempre e questo mi irrita al punto da ammirarti. Perché in quello
specchio in cui ormai io vedo un adulto ingrigito, scorgo una luce che come te
inseguo ogni giorno e che tu sembri avere indovinato. Mi dici che tutto
concorre al bene, e che questa certezza ti inietta dentro quelle vitamine che
ti fanno sorridere al giorno che viene, solo perché viene, perché è uno in più
e puoi amarlo, con tutti i tuoi limiti e le tue sconfitte. Che anzi queste
sconfitte sono un aiuto –ma sì, daì, non esagerare- perché tu ad ogni bivio
abbia qualche indicazione in più per prendere la strada giusta.
Non
so se sia vero, ma mi piace, mi piace credere a questa tua folle speranza che
come un colpo di spugna ogni giorno cancella una striscia di grigio per portare
alla luce il cielo azzurro. E mi sento allora sulla tua barricata, quella degli
sconfitti, quella dei perdenti per il mondo, quella dove tutto si sfalda perché
tutto si rifondi, dove l’incertezza e l’instabilità non sono maledette condanne
ma doni preziosi, a saperli scartare e leggere.
Perché
carissimo Valerio, posso confessartelo, credo proprio che il legame che ci
unisce sia il medesimo che univa i due leader politici in quella vecchissima
canzone del Professore.