Ma che cosa e perché scrivere? Condividere, o l’illusione di farlo, aiuta spesso a sentirsi in compagnia di fronte alla piccole battaglie della vita: quelle grandi, si sa, le si può affrontare solo in compagnia di se stessi, senza nessuno scudiero o cavaliere al proprio fianco.
Quando i cinquant’anni sono stati raggiunti e superati con la velocità del suono di una sirena arrabbiata, tre sono le possibilità che rimangono all’uomo che non vuole rimanere ad attendere l’impatto indifeso e inconsapevole: farsi l’amante, farsi una macchina rossa, scrivere un blog. Dato che mi state leggendo (davvero? Mi state davvero leggendo?) avete compreso che ho scartato le prime due ipotesi. E per scelta volontaria e creduta, non certo forzata.
Ma che cosa e perché scrivere? Condividere, o l’illusione di farlo, aiuta spesso a sentirsi in compagnia di fronte alla piccole battaglie della vita: quelle grandi, si sa, le si può affrontare solo in compagnia di se stessi, senza nessuno scudiero o cavaliere al proprio fianco.
La prima delle sfide e quella che affettuosamente potremmo definire di san Giuseppe, che di fatto nomino mio speciale e personale protettore confidando sulla sua ironia e bonomia. In che cosa consiste questa sindrome? Nel sentirsi ovviamente il più imperfetto della famiglia dovendone invece apparire la guida salda. Non che con questo voglia affidarmi a una melliflua umiltà fasulla, l’autocompiacimento di sentirsi negare la denigrazione e gustare così una vanitosa ricompensa per la propria maliziosa modestia. Affatto. Lauto compiacimento può derivare solo dalla concretezza. Non che non sia vanitoso, tutt’altro: la vanità è sempre in agguato, come ben sa il diavolo impersonato da Al Pacino nel mondo degli avvocati.
Gli è che essendo proprio vanitoso e anche intelligente, so bene che l’ambizioso deve attingere a piene mani all’umiltà: per crescere, ambizione che può essere anche nobile e saggia, bisogna capire dove migliorare. E per capirlo non c’è che l’umiltà.
L’ambizioso vanesio e superbo farà una brutta e rapida fine.
Quindi qui sto: con una moglie tendente alla perfezione, pur con difetti marginali che provocano in me tanto irritazioni quanto ammirazione per la loro trascurabile banalità; con tre figli che, come recitano brutti film, hanno preso maggiormente da me i difetti, e quindi non posso accusarli di una eredità che ho trasmesso loro; con un lavoro che amo e che ogni mese mi sfida sempre di più, aiutandomi a non fare mai mia la sicurezza.
Di che scrivere dunque?
Della precarietà, della inadeguatezza che mi rende comico a me stesso, specchio delle cose che ho appreso e che rivedo, con squarciante veridicità, nel mio quotidiano.
mercoledì 30 dicembre 2015
Il caffè del 2015: i finalisti
Siamo alla selezione ristretta.
Scegli il caffè che ti è piaciuto più più e potresti vincere... un caffè con Paolo!
Numero 34
Numero 50
Numero 68
Numero 98
Numero 115
Numero 125
Numero 130
Numero 131
Numero 132
Non te ne piace nessuno? Li vuoi rivedere tutti?
Ecco qua dove li trovi
La playlist completa
La serie delle "lezioni americane"
Conto su di te! Vota qua sotto!
Grazie
domenica 27 dicembre 2015
Scegli il caffè che ti è piaciuto di più
Qual è il caffè che ti è piaciuto di più?
Aiutami a scegliere il caffè del 2015 e potresti vincere... un caffè con Paolo!
Numero 7
Numero 19
Numero 34
Numero 41
Numero 50
Numero 68
Numero 81
Numero 98
Numero 101
Numero 108
Numero 115
Numero 125
Numero 129
Non te ne piace nessuno? Li vuoi rivedere tutti?
Ecco qua dove li trovi
La playlist completa
La serie delle "lezioni americane"
Conto su di te! Vota qua sotto!
Grazie
lunedì 7 dicembre 2015
Il racconto della domenica: madre
Madre, oh madre. Mi è vietato
dimenticarmi di te. Ogni volta che passo davanti all’ospizio dove sei morta, mi
assale un brivido che riesce a mescolare senso di colpa e di liberazione, come
se queste due dimensioni non potessero essere disgiunte neppure ora che non sei
più qui e che ti immagino in una pace senza fine, la pace che hai inseguito
sempre, travolgendo tutto e tutti in questa tua ricerca astiosa e irrequieta.
Anche me.
E questa ansia, la tua inquietudine, me
l’hai lasciata come un dono, come una eredità scomoda, ma saggia. Di quelle che
ti tengono desta l’anima, in un combattimento senza fine. Perché la pace può
essere figlia di due opposti: della stupida e dannata pacificazione, come una
pianura secca e deserta, sotto un cielo dilavato e piallato, senza vento;
oppure di una guerra senza fine, combattuta contro noi stessi, senza tregua e
senza prigionieri, senza notti in cui riposare, senza cieli da contemplare,
piena di vento, quello freddo, tagliente, che scende da Nord e non si arresta
se non alla giuntura tra anima e carne, e forse neppure lì, quella guerra che
lascia senza fiato, eppure felici come l’eroe che dà la vita per ciò in cui
crede.
Dicono che coloro ai quali viene
amputato un arto, chessò una gamba, per anni continuano a sentirlo ancora come
se fosse ancora lì, appeso a loro. Ecco, con te io provo la medesima cosa. Sei
sempre qui, aggrappata a me come lo eri in vita. Il tuo amore rabbioso e
violento mi soffocava: lo caricavi di tutte quelle risposte che non avevi avuto
dalla vita, non perché lei non te le avesse date, ma perché non ne eri mai
contenta. Eri tesa sì, ma non serena: sostenevi di avere un conto aperto con la
vita, e lo facevi pagare a tutti coloro che provavano ad amarti, come se per
contrappasso quell’amore dovesse torcersi in vendetta.
E’ strano, anche se la tua morte, da
sola –mi hai preso per sfinimento e questo io non me lo so perdonare, di averti
lasciato morire da sola, in coma d’accordo, ma senza nessuno che ti tenesse la
mano, nemmeno io, e questo mi ripugna, per pietà e per orgoglio: non poter dire
che io c’ero, che sana umiliazione, vedi in fin dei conti mi hai amato anche
morendo di notte per lasciarmi questa amarezza dolce che sana e sradica i miei
vizi- in quella stanza singola che finalmente avevi ottenuto, come ennesimo
capriccio, come se stesse lì tutto il bene dell’universo, anche se la tua morte
ha sedato il mio risentimento, e spalancato la porta ad un amore che sapevo di
avere per te, ma non di questa intensità, non ha sopito i ricordi oscuri, né li
ha ammantati di quella dolcezza che sembra l’assenza regali ad ogni memoria.
Tutt’altro. Li ha resi più vivi, lucidi, taglienti, anche se li ha privati di
quel veleno che, quand’eri in vita, mi annebbiava la vista e mi soffocava il
cuore spingendolo giù in un fango d’odio e di dipendenza nel quale mi sembrava
di sprofondare come in sabbie mobili maligne.
E così la prima immagine che vedo non è
il sorriso con il quale mi accoglievi da bambino, non ancora così tirato e
sciapo come da vecchia, né l’abbraccio con il quale mi ringraziavi di esserci.
Non è quello sguardo acceso d’amore che luccica ancora in una vecchia foto in
bianco e nero. Sei sullo sfondo, di sbieco, chinata, tieni quegli occhi
luminosi, come non ho mai più visto, su di me che poco più avanti, ma a fuoco,
in primo piano, muovo i primi passi e si vede che traballo, con quella bavaglina
di stoffa colorata che ricordo benissimo, per uno di quegli strani giochi della
memoria che si divertono a estrarre dalla nebbia particolari che ti dicono
quello che non riesci più a ricordare. Stai lì e mi guardi e la gioia sembra
colorare questa foto con i bordi bianchi frastagliati; e io non ti vedo, ma so
che ci sei, che sei pronta a sorreggermi. Mi fido. C’è tutta la nostra vita lì.
Anche papà, lontanissimo, nell’oscurità del corridoio, lui che se ne è andato
per primo e che ti ha aspettato con la medesima delicatezza celata con la quale
ti lasciava in primo piano, in piena luce, per scegliere sempre le tinte
pastello, gli spigoli dei minuti, le macchie d’ombra. Sono sempre convinto che
ti avesse dato uno schiaffo alla tuo ennesimo capriccio, avesse avuto il
coraggio, la vita di tutti sarebbe stata diversa. Presumo migliore.
No. Non è quel viso, quella luce che
ricordo quando chiudo gli occhi e ti penso.
Ma la brace della tua sigaretta che
cerca di contrastare l’oscurità nella quale ti chiudevi. La luce rossa
intermittente di quando mi portavi a dormire con te di pomeriggio, da bambino,
in due sul mio letto, testa a piedi, perché io dormendo non ti disturbassi il
riposo. E vedo quella luce accendersi e spegnersi alternata al rumore che
facevi per scrollare la cenere nel posacenere di rame sbalzato che ora fa
mostra di sé, come un reliquiario, tra gli oggetti che ho conservato. E la
stessa luce, nella cucina scura, tenevi sempre le tapparelle abbassate, mentre
severa mi giudichi –mi giudicavi sempre trovandomi sempre colpevole per potermi
donare la tua misericordia, cosa che ti faceva felice perché ti permetteva di
crederti magnanima- e stai in silenzio, fumando, toccandoti i capelli, torcendo
la bocca e gli occhi curvando al suolo, sospendendo il tempo, così da
prolungare la mia sofferenza e la tua soddisfazione.
Eppure mi amavi, tanto. E volevi tenermi
per te. Solo per te. E anch’io ti amavo, ti amo anche ora. Come potrei non
amare chi mi ha dato la vita. E che, tragicamente, per conservarmela felice, ha
spento dentro di sé quella di due fratelli che non ho mai avuto. Così come
spegnevi la sigaretta, con rabbia e rapidità. Sono un sopravvissuto, mamma. Un
figlio unicizzato. Un bambino bagnato nel sangue dei fratelli ed elevato a
divinità, con il compito di tenere insieme la famiglia perché tutto si fa per
lui. Tutto. Come un buco nero che attragga ogni cosa a sé, strappandola alla
sua esistenza, macinandola in un affetto che si macera nell’autocompiacimento.
Perché l’amore per me, me ne sono accorto presto, in realtà era un pretesto,
uno specchio: avevi così tanto bisogno di affetto che mi imprigionavi in
quell’abbraccio che assomigliava di più alla presa di un rapitore che alla
protezione di una madre.
Mamma, questo acido mi cola ancora in
cuore adesso che ti parlo, qui in piedi davanti a quel che rimane di te qui in
mezzo a noi, e non riesco a discernere il bene dal dolore, a tirare una riga
secca tra il tuo egoismo e il mio, tra la tua sofferenza e quella che provocavi
con una scienza quasi perfetta.
Perché soffrire hai sofferto, e spesso
per causa di altri, anche se negli ultimi anni i tuoi ricordi spesso venivano
annacquati dalla fantasia, da ciò che temevi, volevi, speravi. E la violenza
subita si confondeva con quella che desideravi aver ricevuto per poterti
vendicare e vantare. Ricordo gli ultimi giorni. Di agosto, sulla terrazza
abbruciata della casa protetta. Biascicavi parole, parlavi a sproposito,
criticavi, mi chiedevi, pretendevi. Niente di diverso. Eppure dovevo capire che
erano le ultime ore e restarne appeso come ad un ramo che ti salva dall’abisso.
E invece l’ho lasciato andare e invece di precipitare io, sono rimasto sospeso
e nella voragine sei caduta tu.
E mamma, mentre non riesco a rimuovere quella
rigatura d’odio che attraversa la nostra vita in comune -sapessi quanto ci hai
fatto soffrire, madre mia- adesso non posso che sentir crescere l’affetto
nuovo, purificato, rafforzato che nasce da una vicinanza nuova, separata solo
dal sottile velo del cielo.
venerdì 4 dicembre 2015
Tramonti di inciviltà
LaCroce 2 dicembre 2015
Farenheit 451
racconta un mondo che ripugna a tutti. Insomma non ci piace un futuro senza
cultura. Senza libri. Un mondo appiattito e dominato dalla televisione, che
quando Bradbury scrisse il romanzo, era l’emblema del Grande Fratello ovvero del controllo del pensiero (va bene essere
visionari, ma ad Internet l’autore dell’Illinois proprio non pensava).
Non c’è qualcuno che non provi sgomento e rifiuto per questo
mondo stretto nelle morse del potere.
Eppure è proprio lì che ci stanno conducendo esattamente
coloro che sdegnosamente rifiutano un futuro dominato dalla tirannia del
pensiero.
Perché alla radice del mondo di Farenheit 451 c’è la
politically correctness. Ma va? Riprendiamo un brano forse dimenticato che dipinge,
con crudele spettacolarità, la nostra epoca: "La vita diviene una cosa immediata, diretta, il posto è quello che
conta, in ufficio o in fabbrica, il piacere si annida ovunque dopo le ore
lavorative. <...> La vita diviene così un'immensa cicalata senza
costrutto, tutto diviene un'interiezione sonora e vuota. <...> Tutti sono
sempre più impazienti, più agitati e irrequieti. Le autostrade e le strade di
ogni genere sono affollate di gente che va un po' da per tutto, ovunque, ed è
come se non andasse in nessun posto. <...> Consideriamo ora le minoranze
in seno alla nostra civiltà. Più numerosa la popolazione, maggiori le
minoranza. Non pestate i piedi ai cinofili, ai maniaci dei gatti, ai medici,
agli avvocati, ai mercanti, ai pezzi grossi, ai mormoni, ai battisti, unitarii,
cinesi della seconda generazione, oriundi svedesi, italiani, tedeschi, nativi
del Texas, brooklyniani, irlandesi, oriundi dell'Oregon o del Messico.
<...> La gente di colore non ama Little Black Sambo. Diamolo alle fiamme.
Qualcuno ha scritto un libro sul tabacco e il cancro ai polmoni? I fabbricanti
di sigarette e i fumatori piangono? Alle fiamme il libro! Serenità. Pace. I
funerali sono dolorosi e pagani? Annulliamo anche i riti funebri». "Noi dobbiamo essere tutti uguali. Non è che ognuno nasca libero e
uguale, come dice la Costituzione, ma ognuno viene fatto uguale. Ogni essere umano a immagine e
somiglianza di ogni altro".
Drammaticamente attuale non vi pare?.
Guardiamo ad alcuni fatti della settimana, per dare
profondità a questo scenario: Monica Ricci Sargentini, giornalista del Corriere
della Sera di elevatissima onestà intellettuale, pubblica su la 27esimaora,
rubrica del CorSera online, un articolo riportando il parere di movimenti
femministi a proposito dell’utero in affitto che condannano questa pratica di
abuso della donna. Viene denunciata all’UNAR per omofobia. Se fosse in vigore
la legge Scalfarotto sarebbe passibile di carcere. Numerose giornaliste
intervengono a sostengo della collega: in un articolo apparso su Lezpop.it
tutte vengono bollate con l’etichetta di omofobe.
Non basta: si moltiplicano in Italia le iniziative di
inappropriati dirigenti scolastici che vietano canti, presepi, manifestazioni
natalizie che si rifacciano al senso stesso della festa: la nascita di Gesù.
Dacia Maraini, una di quelle firme alle quali non possono
dire di no i quotidiani radical chic anche se vorrebbero farlo, blatera di un
“savio e civile relativismo” che sarebbe foriero di una “umana e tollerante
convivenza” ovviamente da contrapporre alla “fedeltà ad un Dio antico,
dispotico e fermo nel tempo”: parla di Islam ma pensa, si capisce, anche al
cristianesimo.
Il laicismo si guarda allo specchio e pretende che
l’equidistanza, anzi l’equivicinanza come ebbe a dire una volta D’Alema, sia appunto
l’annullamento di ogni valore, la distruzione sistematica di radici culturali,
l’annichilimento della regione e della realtà a favore di un piattume che non
può reggersi in piedi, perché il vuoto che lascia è subito riempito dal più
forte. Che, fregandosene bellamente della spocchiosa tolleranza, spedisce i
suoi panzer –o terroristi- a conquistare i territori privati delle difese,
svuotati dall’interno.
A margine osservo come questo fenomeno succeda sempre, tutte
le volte che si pretenda di sostituire muri con ponti in modo arbitrario. Se
infatti è bene andare incontro, movimento che produce vita, è un errore grave
farlo iniziando dalla distruzione dei propri muri, costruiti non a difesa ma
per definizione, non per impedire l’uscita ma per descrivere il cuore.
Ogni volta che si presuma che per andare dall’altro bisogna
nascondere, quando non rimuovere, ciò che si è –paradossalmente lo afferma
anche Michele Serra dopo che lo ha gridato ai quattro venti Matteo Renzi,
interpretando un sentire comune (altrimenti non si sarebbe esposto)- si finisce
per farsi conquistare non dall’altro, ma dal nemico.
Nessuno può essere favorevole alla guerra, ma se il tuo
nemico ti attacca è bene difendersi come si deve.
Cosa fare per sconfiggere questo cancro del pensiero, che
attacca la lingua per attaccare i valori?
Iniziare da noi, perché la politically correctness ha radici
nel nostro egoismo. Lo afferma magistralmente Bradbury, lo abbiamo sentito: Tutti sono
sempre più impazienti, più agitati e irrequieti.
Quando iniziamo a ragionare partendo dal nostro ombelico,
quando è il nostro punto di vista quello che determina la realtà, allora tutto
si sfarina ed esplode in una nuvola di silenzio. Finisce l’eco stessa del
pensiero.
Non posso più usare le parole perché qualcuno si offende:
pensiamo all’inquietante reato di georazzismo per cui gli sfottò locali sono
denunciati come crimini contro i localismi. Il che vuol dire che eccelsi esempi
di ironia, come lo striscione dei tifosi viola “voi comaschi noi co’ le
femmine” oggi sarebbe considerati doppio reato: lariofobia e omofobia. Ma lo
stesso Dante Alighieri, a cui si devono epiche invettive (ahi Pisa vituperio
delle genti!) oggi sarebbe denunciato alla UNAR.
Oggi non si possono più fare iperboli o parabole, non si può
più giocare sulla violenza di alcune espressione, le barzellette stesse sono
considerate con sospetto perché tutto è sempre incline ad offendere qualcuno.
Che se la prende.
Navigando nei social capita così di incrociare insegnati,
genitori, professionisti pronti a caricare a testa bassa perché, partendo dalla
propria circostanziata realtà, si offendo se qualcuno parla male del mondo
dell’istruzione, delle Poste, dei portatori di qualche patologia (guai ad
utilizzare termini come autismo, dislessia, favismo, ipertiroidismo,
claudicanza come metafore di situazioni complesse!), del lavoro, ecco che
scendono in campo per difendere il mondo guardando solo la propria cucina e
affermando che poiché loro, da loro, intorno a loro, quello non accade, allora
non può accadere!
In palese contraddizione logica, negano la possibilità di
generalizzare generalizzando loro ciò che osservano o praticano.
La battaglia contro la politicaly correctness, che è la
strada per distruggere i valori, si fa affermando la propria debolezza e
credendo nell’auto-ironia. Un mondo che non sa ridere di sé è destinato al
suicidio.
Solo offrendo il petto alle critiche, invece che chiuderci
nella difesa dall’ultima inventata qualcosofobia, riusciremo a difendere i
valori sulle mura lontane dal cuore. Possiamo fare qualche cosa di concreto
rinunciando a guardarci l’ombelico e a pensare di essere il mondo. Del resto è
ciò che una società senza padri, colui che appunto afferma che il mondo non sei
tu, fatica a fare.
Sono convinto che se non si ricomincia da qui, dal gusto
della contesa verbale onesta e sincera, dal gusto dell’iperbole e della
violenza del ragionamento, violenza intesa come forza capace di strappare la
maschera e liberare la verità che oggi viene sepolta dalla correttezza politica
che è solo ideologia, senza questa forza che strappa l’eccesso per rivelare la
vera forma nascosta, finiremo preda dell’ISIS del ragionamento, dei terroristi
del piacere, capaci di renderci schiavi in nome della libertà, quella dei loro
vizi, che alla fine, deridendoli, li metterà in catene e li getterà –ci
getterà?- nello stagno di zolfo e fiamme.
domenica 29 novembre 2015
Il racconto della domenica: guardami!
E guardami! E daì guardami! Tu che passi, chiunque tu sia.
Che ti costa! Anche solo per deridermi, per insultarmi, per scuotere la testa
in quel modo volgare e violento, che percola disgusto misto a disprezzo. Ma
almeno guardami. Non fare finta di nulla. Perché credi che mi sia ridotta così?
Perché pensi stia distruggendo la mia dignità così come la natura ha distrutto
il mio corpo se non per ottenere uno sguardo? Anche lascivo. Sebbene tema che
nessuno lo poserà più su di me con desiderio. Semmai con scherno. Mi
basterebbe. Sarei felice di non passare inosservata. Come mi è successo a lungo
nella vita. Perché nessuno ha mai posto su di me uno sguardo assetato. Una
sensazione dolorosa, che avvelena lentamente l’anima e la fa implodere in una
depressione spenta e arida. Camminare tra le strade della città, al mercato, e
accorgerti che non sei degna neppure di un movimento del capo. Perché invece li
vedo quando girano la testa e tutto il resto quando passa una di quelle, sì, di
quelle ragazzine che hanno tutto da mettere in mostra e non negano niente.
Mentre io invece. Fin da giovane. Fin da ragazza sono stata
condannata. Da un corpo goffo, sformato, gonfio. Non che non mangiassi, no. Ero
affamata di sensazioni, quindi anche di cibo. Ma non fu questo. No.
Mi cresceva addosso come un tumore, mi rovinava sopra questa
massa turgida e ruvida che mi ha nascosto al mondo. E io ne sono rimasta
prigioniera. Ma almeno allora, quand’ero ragazza, al paese, almeno allora c’era
chi mi inseguiva per insultarmi, per schernirmi. Mi sentivo viva, dolorosamente
presente al mondo. Poi, come una nebbia che s’alzi pallida e smorta, e via via
più coraggiosa, così sono scomparsa all’esistenza.
Il trasferimento in città. Gli studi. Inutili devo dire. Non
hanno aggiunto una goccia di felicità alla mia vita. Solo conoscenza. E con
quella semmai ho accresciuto il dolore. Poi un lavoro bieco, ripetitivo,
individuale, in un cubicolo che mi separava netto, come una roggia profonda,
dai colleghi che dilagavano al di là della paretina. Una voce al telefono. Poi
neppure quella. Poi la pensione anticipata. Anni di lavoro sciolti in un saluto formale e stropicciato,
condito di indifferenza e scherno. Neppure quel giorno sono riusciti a superare
la barriera del mio corpo per calarsi non dico nella profondità, ma almeno
sotto la superficie e cercare di capire. Che serve a loro capire? Che servivo
io? Che se non servi oggi, per qualunque cosa, sei finito: allontanato. Fine
del lavoro, fine dell’impegno.
E sempre la solitudine.
Che non sono vecchia. Non fuori almeno. Non all’anagrafe. Ma
dentro eccome. Perché a non sentirsi amati, si brucia. Non però di quel fuoco
che non consuma e arde perenne, come dicono sia l’amore, che io non ho mai
conosciuto, neppure da bambina. No. Non quello.
Io avvampo di quel calore trasparente e violento, quello dei
forni, che crema, che riduce in cenere, che lascia senza speranza. E la
speranza ormai io l’ho persa, non dico dell’amore, ma anche solo di un tepore
mite. Anche ipocrita. Mi starebbe bene. Mi farei truffare da un uomo, se per
spogliarmi dei miei beni, quelli che comunque ho accumulato in questi anni di silenzio
e di reclusione, mi rivestisse anche per un solo momento di un affetto
manieroso ed eccessivo, palesemente finto. Anche solo di sesso. Anche di quello
mi accontenterei.
E così mi sono ridotta ad essere questo pagliaccio, questa
prostituta dell’anima: a mettere fuori questa carne in decomposizione, che si
arrotola su se stessa confondendo inizio e fine. C’è pudore in tutto questo?
Sì, perché ormai in queste rovine non si distingue più nulla che possa bruciare
la mia intimità. Tutto è disgrazia. Deformità. Eppure sento di calpestare la
mia dignità. E non me ne frega niente. Perché chi si riempie la bocca con
questa parola probabilmente non ha mai sofferto il mio dolore, non è mai stato
solo. Io sì. Sempre. Rinchiusa dentro il carcere di un corpo esagerato che mi
ha impedito di essere scorta. Di vedere. Di capire.
Ma che cosa c’è da capire! In quest’epoca che esalta la
bellezza e la rincorre senza posa, in quest’età che magnifica il corpo e ne ha
paura, io scorgo il terrore sui loro occhi, il terrore di essere come me, di
finire come me, di venire calpestati, messi in un angolo. Io questo ho capito.
E solo adesso riesco a ribellarmi.
E guardami daì! Tu che passi adesso e volti il capo dalla
parte opposta con gesto affrettato e teatrale, come per istruirmi, per
condannarmi, per umiliarmi. Più di così? Potrei essere più umiliata di così?
Perché non capisci? Perché non esplori? Perché non ti sforzi di superare quella
sciapa barriera della tua superficialità, del tuo orizzonte così gretto e
chiuso, che non riesce ad accostarsi alla vita per quello che è: non un secco
fotogramma, ma una pellicola senza fine. Con solo l’inizio e mai titoli di
coda. E tu invece te ne stai lì, intrappolato nell’attimo che fugge, e non
capisci che invece resta, resta per sempre, e si estende, in tutte le
direzioni. Come la mia vita. Come la mia carne che scioglie la mia figura in
una storia di solitudine totale.
Guardami: rendimi un filo di stima, che la mia in me stessa
l’ho persa. Fammi pensare, anche per un solo istante, che posso lasciare una
tenue traccia su questa terra, che posso avere sfiorato per un battito d’ali il
cuore e la memoria di un’altra creatura. Che non è stato vano venire al mondo.
Che non sarà insulso andarsene.
No, non
funzionerà neppure questo. Non è servito a nulla scendere fino in fondo
al cratere del disonore. Fino al fango dell’esibizionismo. Neppure questo è
servito per trovare un filo di speranza, un rigagnolo di luce che sappia
restituire un po’ di futuro a questo ammasso di depressione. Forse non resta
che cercare l’ultimo sguardo, quello di terrore, quando scioglierò la mia vita
sopra un binario. O sotto un camion. Affermando il diritto di essere guardata
almeno mentre mi dissolvo.
La liquidità della ragione
C’è un gender che pervade l’Europa, e non è solo quello che
nega la natura della persona e la affossa in uno stormire di desiderio, che
confonde la realtà nelle proprie voglie.
Quale che siano e con quali presupposti.
C’è una liquidità che sale alla gola, che ha ormai gelato il
cuore e tende a strizzare nella sua morsa anche la ragione. Ed è la liquidità
del senso, la confusione della logica, la disgregazione del senso.
I miei primi articoli apparsi sul La Croce, che trovate
riportati qui in questo blog, mi ero proprio concentrato sul cancro della parola, che stravolgendo il senso
di alcuni vocaboli chiave, dissolve il ragionamento nello sforzo di disperdere
la realtà. Perché questo è il compito delle ideologie, che altro non sono se
non pretese di realtà, false interpretazioni, basate su idee sbagliate, del
mondo per renderlo schiavo ai propri desideri. Il mancato riconoscimento della
pari dignità di ogni persona vale quanto la follia che alcuni possano
determinare da sé ciò che sono, quasi rimescolando le proprie cellule e il
proprio DNA per plasmarlo secondo le proprie aspirazioni.
La medesima cosa capita con il ragionamento, la follia di
voler negare le contraddizioni si cela nelle pieghe di un linguaggio asservito
al potere dominante.
Così ti scontri con la violenza di chi ha già deciso quello
che deve essere e schiera in campo le sue truppe agitandole a colpi di slogan
che non fanno che dimostrare l’incapacità di molti di mettere sul tavolo gli
elementi e svolgere un pensiero logico completo.
Mi ha sempre incuriosito, ad esempio, come coloro i quali,
ogni volta che ci sono rumori di guerra, scendono in campo in campo sotto i
vessilli di “mai la guerra senza se e senza ma” siamo spesso i medesimi che
ogni 25 aprile inneggiano alla Resistenza e ai suoi valori, di fatto
contraddicendosi in modo feroce, dato che non risulta che i partigiani fossero
coloro che, puntando sull’aggregazione dei tedeschi moderati, mettessero fiori
nei cannoni propri e in quelli nazisti per scacciare il nemico. E dico questo
senza nessuna, e ripeto nessuna, voglia di scendere in guerra contro chi
chessia!
Trovo però un crescente livello di dissociazione, o se
preferite di liquidità razionale, per la quale ci si trova a sostenere una cosa
e il suo opposto in funzione di ciò che fa comodo –e qui ci sarebbe una
maliziosa e scorretta ragionevolezza- o, peggio, a seguito di una radicata
incapacità di seguire un filo logico, dominati dalla moda del momento, che fa
colorare il proprio profilo secondo le scelte di zio Zuck –almeno la
trasparenza tricolore ha scacciato quella arcobaleno- o secondo lo slogan da
gridare al momento.
Già più volte è stata svelata la follia di chi si sente
Charlie e poi vuole impedire alle Sentinelle di stare in piedi –aggressione
fascista è noto- o a opinionisti di dire la loro. Charlie sono io solo quando
mi dice cose che mi fanno comodo, mi piacciono, sono gradite ai manovratori
della società e ai padroni del vapore. Il pensiero invece diventa fascista
quando non mi dà ragione.
Quando però scopri nei social media persone che si
presentano come intrise di carità -e non voglio essere né polemico né offensivo:
lo scrivo in modo esplicito- e poi sparano a zero senza nessuna misericordia
per chi non la pensa come loro. Un po’ come quella famosa battuta “io questi
che amano la violenza, che non porgono l’altra guanci, che sono privi di alcuna
carità, io questi li ammazzerei a mani nude facendoli soffrire senza alcuna
pietà”.
Altri, liberi pensatori, amanti di ogni opinione, non
perdono occasione per deridere –pratica estrema di disprezzo- coloro che
mostrano di credere in una dimensione non-materiale. Libertà di pensiero sì, ma
di nuovo, solo per coloro che la pensano come me.
Alcuni politici penta stellati sono prontissimi a dialogare
con i terroristi di Isis, che sono poveracci che sbagliano, ma rifiutano di
incontrare chi dissente da loro a proposito di alcuni argomenti d’attualità,
come le modalità di ricerca. Sempre a proposito di dialogo, i terroristi sono
al top dei desideri di incontro, mentre personaggi meno aggressivi sono messi
all’indice: un esempio clamoroso per tutti la cancellazione della visita di
Benedetto XVI alla Sapienza nel 2007.
Colpisce come i terroristi che uccidono gridando il nome del
loro Dio, o i tifosi che fischiano il minuto di raccoglimento per le vittime di
questi inneggiando ai martiri e alla divinità, siano sedicenti musulmani,
mentre quando è un esponente di altra religione a commettere crimini in nome di
una distorta visione del suo credo, allora si tratta non di terroristi o
assassini, ma di estremisti o fondamentalisti. Così sono stati estremisti ebrei
a mandare a fuoco la chiesa cattolica di Cafarnao e sono integralisti cristiani
–tanto poi finisce che la colpa se la prendono i cattolici- che assaltano le
cliniche abortisti. E sono sempre fondamentalisti cattolici quelli che
manifestano contro quei disperati che vogliono amore libero e libera
genitorialità.
Parliamo poi anche delle piazze, che si allargano e
stringono secondo piacere: così quando vengono invase dal festoso popolo della
sinistra gli zeri aumentano, mentre se ci vanno le famiglie Crozza disserta di
densità e impenetrabilità dei corpi.
Se poi in piazza ci vanno i musulmani moderati, poche
centinaia, intanto si fanno le foto dal basso per negare i numeri, poi comunque
quello che conta è l’intenzione, mica altro; bastano 400 persone –si dice siano
questi i numeri di Roma, insomma neanche i sostenitori del Borgorosso- per
segnare un forte cambiamento, una chiara risposta, un messaggio duro e puro.
Non bastano invece un milione e passa di persone -quelle del 20 giugno- perché
si tratta di un ristretto numero di fondamentalisti.
A parte che non mi pare che gli alleati avrebbero fatto
molto, cercando di coinvolgere i moderati tedeschi per sconfiggere Hitler, a
parte che Gandhi ha potuto lanciare l’approccio della non-violenza perché di là
c’erano gli inglesi –e infatti dopo con i musulmani non gli è riuscita
altrettanto bene- direi che a me non mi piacerebbe essere etichettato come
moderato, che mi suona più come tiepido, cioè colui che verrà vomitato dalla
bocca di Dio, o ignavo per dirla con Dante, genti così prive di midollo da non
meritare neppure un posto dentro l’inferno.
Perché con le parole bisogna stare attenti: fondamentale è
ciò che tiene in piedi, senza il quale tutto crolla, e quindi chi si rifà alle
fondamenta della propria Chiesa, del proprio credo, è quello che si aggrappa a
ciò che sta in piedi. Quindi
moderato suona più come blando, disinteressato. Se vogliamo trovare un termine
cerchiamolo nella teologia per favore, non nella passione da stadio: lei tifa per la Roma? Sì, ma moderatamente.
Adelante Pedro, con juicio insomma, come disse il Cardinal Ferrer.
Ecco qui credo ci sia un’altra battaglia da fare, ma senza
scendere in piazza: basta lottare alla macchinetta del caffè, all’hashtag, alla
fermata della metro, in mensa, fuori da scuola. Ed è la battaglia della
coerenza logica. Colpire con roncolate di razionalità, mettendo uno accanto
all’altro i fatti per mostrare che si negano e ciò che resta è il vuoto
pneumatico di chi non sa se non ripetere senza costrutto ciò che gli altri
vogliono mettergli in bocca.
E no, proprio no, non si tratta di chi crede nella verità
rivelata, perché quelli sono condotti sulla strada della ragione con veemenza
dalla Chiesa tutta.
sabato 21 novembre 2015
Il racconto della domenica: che ne sapete voi dell'amore!
Ma che ne sapete voi dell’amore! Mica dove andare a cercarlo
nelle pieghe della vita. Vi vedo che mi guardate di nascosto, fingendo di
fotografare il panorama dall’altra parte della baia. Ma state guardando me che
ho il coraggio di mettermi in posa, qui su questo muretto. Dove inizia la mia
vita. Perché questa foto farà il giro del mondo. Mi disprezzate. Non cogliete
la mia bellezza. Non, non parlo di quella interiore. Quella non la conosco. Mi
sfugge. Non riesco a stringerla tra le mani neppure quando al mattino mi sporgo
dalla finestra per riuscire a vedere il mare giù dalla collina, nascosto dal
fitto intreccio di palazzi sporchi, e mentre assaporo la prima sigaretta del
giorno, cerco di non pensare altro che alla mia vita, ai miei sogni, e di
scendere in profondità dentro di me. L’ho letto su una rivista: calatevi nella
caverna della vostra anima, stanate il drago nascosto e ruggite alla vita. Io
ci provo, ma quando mi chino dentro trovo solo dolore, delusione, sporcizia:
insomma, la mia vita. E non riesco più a ritrovare il filo che conduce a me
stessa. Quando l’ebbrezza supera il limite che posso tollerare, e che riesco
ogni giorno a spostare più in là, quando la sigaretta sta finendo, quando sento
il fischio del caffè, quando riesco a ritrarmi da questo guazzabuglio nel quale
ho paura ad avanzare, volgo lo sguardo verso la mia casa e piango. Non tutte le
mattine. Spesso. Perché in questo minuscolo appartamento, scavato nella
presunzione di chiamarlo dimora, messo assieme con pezzi sghembi, diseguali,
assediato da un ordine maniacale per dare dignità alle quattro carabattole che
parlano di me, in questo ciarpame c’è la mia storia. E soprattutto il mio
futuro.
E’ della mia bellezza esteriore che sono orgogliosa. Quello
che mi lancerà verso un futuro dal quale vi sorriderà irridendovi e voi
proverete invidia e vergogna. Guardatemi. Non ho paura a sorridere
all’obiettivo. Tra un istante lo farò. E alzerò lo sguardo che ora tengo
accorto e pensoso. Mi fa paura. Ma posso farcela. Rizzare il capo in un gesto
di sfida al mondo, a San Francisco che sta alle mie spalle al di là del mare, e
sorridere a questa vita che mi si nasconde di continuo. No. Non sono stata
sfortunata. E’ un alibi che lascio alle sciantose che incrocio quando vado al
lavoro. Piagnucolano millantando insuccessi provocati dalle circostanze. Invece
io no, con orgoglio mi vanto di aver sbagliato tutto quello che potevo e che
questa vita insipida, inavvertita, banale, che scivola tra le ombre della
città, è il frutto della mia libertà. E dell’amore. Che non ho mai trovato
inseguendolo sempre nelle persone sbagliate. Al punto che ormai mi chiedo, nei
fugaci momento in cui scroscia dentro di me una consapevolezza morbida e
tiepida, se non sia io quella che ha sbagliato a capire che cosa l’amore sia
realmente. Eppure è così chiaro quando lo vedi in televisione. Entri in uno di
quei bar e ne esci con la felicità. L’ho fatto. Sembrava così semplice. Ho
scelto. Non mi sono mai fatta usare. Tutto ciò che ho trovato è un letto da
rifare. Lenzuola da lavare. Toccava a me. E ogni volta un gusto amaro che
nasceva piano, sommergendo quel senso di carne accesa e compiaciuta, e poi
montava come un’onda gagliarda per non sommergere, ma accarezzare ogni cosa e
avvolgerla e lascarle addosso una patina prima brillante poi via via sempre più
opaca fino a diventare grigia come caligine. Ecco questo è il colore della mia
vita: seppia. Come le foto che scolori artificialmente per fingerle vecchie. Io
sono vecchia. Ma dentro, non fuori, che ancora gli uomini mi inseguono. E i
vostri occhi. Spenti e giudici. Ve la farò vedere. L’ho deciso oggi, quando ho
raccattato questo slavato ometto per convincerlo a venire qui a farmi queste
foto, quelle grazie alle quali la mia vita cambierà. Gli sfuggirò dopo.
Rientrati in città, lo lascerò a bocca asciutta. Dopo che mi avrà restituito la
dignità regalandomi questi scatti.
Le stamperò, con cura. Nel corner del magazzino dove lavoro. Chiederò un
favore. Me lo concederanno. Poi la più bella la metterò in cornice. E
l’appenderò sul muro. E guardandola, ogni sera e ogni mattina, mi renderò conto
di quello che avrei potuto diventare. E troverò quel filo che forse potrà
condurmi via da qui.
giovedì 19 novembre 2015
Codesto solo oggi possiamo dirti: ciò che non vogliamo
Le liste di Fazio e Saviano.
8 anni di Obama
Il crocefisso nell'urina patrocinato dallo Stato
La festa dell'inverno per non turbare le coscienze
I ponti e i muri
La “lotta” per i matrimoni LGBT
L'utero in affitto
La rimozione delle radici cristiane d'Europa
La politically correctness
I radical chic
Se sei cattolico come puoi votare?
Mai la guerra senza se e senza ma. Evviva la lotta della
Resistenza contro il nazi-fascismo.
I #jesuis senza capire
Le connivenze cattoliche, quelle adulte.
Gli adulti con qualunque finta appartenenza
L’aborto e la soppressione degli embrioni malati
Il “la mia libertà finisce dove inizia la tua”
La società liquida senza contenitori
I “chi sono io per giudicare” manipolati
“Sono solo ragazzi”
Denunciare la maestra che rimprovera tuo figlio
Vietare la mostra di Van Gogh e Chagal per non turbare le
coscienze
La primavera araba
Esportare la democrazia
Il cattolico non ha diritto di esprimere le sue idee
politiche
Tirare la giacchetta alla misericordia
Il diritto al lusso
Va’ dove ti porta il cuore
Ho diritto.
I “Sarà di cattivo gusto, ma c’è la libertà di espressione”
a senso unico
Gli assalti alle Sentinelle in piedi
Saviano e Fazio. E la Litizzetto.
I talk show su La7
I prelati che sperperano denaro
“Con Isis dobbiamo dialogare”
La presidenta.
Il furore leghista.
I ROM sono da capire. No anzi da bruciare.
I funerali holywoodiani.
Era una persona onesta.
Scisc.
#Staisereno.
L’irrisione è sempre lecita, tranne quando è rivolta alla
parte che governa l’opinione.
Tutto ma non Salvini. Beh, neanche Belpietro. E Gasparri. E Razzi. Beh insomma tranne
quelli lì.
Uccidere un fascista non è reato.
I sacerdoti conniventi con chi dissolve la verità. Chi
dissolve la natura e la verità.
A me non risulta.
Da me non è mai successo!
Selvaggia Lucarelli. E Belen. E Morandi.
Selvaggia Lucarelli. E Belen. E Morandi.
Bisognerebbe metterli tutti al muro
NOI DOBBIAMO INTERVENIRE AVENDO IL CORAGGIO DI GRIDARE AI FRATELLI MUSULMANI NON SI UCCIDE IN NOME DI DIO!
NOI DOBBIAMO INTERVENIRE AVENDO IL CORAGGIO DI GRIDARE AI FRATELLI MUSULMANI NON SI UCCIDE IN NOME DI DIO!
Imagine. “immagina che non ci sia un paradiso e neppure una
religione”.
Oriana è una pazza. No è una profetessa!
Una manifestazione per fermare l’orrore
Tingiamo i nostri profili Facebook
Buon vento, che la terra ti sia leggera
Gli altari laici, le preghiere atee, i minuti di silenzio
Buon vento, che la terra ti sia leggera
Gli altari laici, le preghiere atee, i minuti di silenzio
"Io sostengo che la Tav vada sabotata
Sabotare è un verbo nobile, lo usava anche Gandhi"
Giletti è da perseguitare: non può esprimere il suo parere su Napoli!
Giletti è da perseguitare: non può esprimere il suo parere su Napoli!
"La lista degli edifici imbrattati datami da un #NoExpo Qui si spiega
perchè sono atti di protesta e di non vandalismo"
"e decapitazioni dei cristiani sono secondarie rispetto alla
sofferenza dei musulmani"
"Non credo che queste persone abbiano fatto
una discussione teologica a bordo"
"Mio figlio è solo un pirla".
Potrei continuare, le liste mi entusiasmano. È un modo molto
infantile di sentirsi apposto, di stare sula lavagna dei buoni. E scrivere qui
l’elenco dei cattivi.
Non che alcune di queste cose qui, che ho scritto con
estremo godimento, non stia –e non solo nel mio sentire- nella lista dei
cattivi, o per lo meno degli imbecilli. Meglio: dei cattivi maestri, delle
cause prossime della devastazione nella quale viviamo. Che sopportiamo. Che ci
schiaccia.
Non voglio negare che ci sia dentro un senso, una
razionalità.
Non voglio negare che mi irritano i comportamenti irrazionali
di chi segmenta il mondo fingendo di amarlo tutto. E la bella affermazione di
Marco Cobianchi svela ogni inganno “Con
molta, moltissima calma provate a spiegare (e a spiegare a voi stessi) perché
Charlie Hebdo è libero di scrivere e disegnare ciò che vuole e Belpietro no”.
E aggiungerei a Belpietro: le Sentinelle in Piedi…
Non rinnego la mia rabbia. La mia paura. La mia voglia di
vendetta. Ne prendo le distanze, ma non la nego. Non la riesco a spegnere.
Anzi, ci tengo ad affermare che le belle frasi ad effetto ed
eleganti che inneggiano alla pace monolaterale mi imbarazzano, perché mi paiono
così lontane dalla verità. Che ti viene da chiederti: ma questi, questi che
credono, che accendendo una candela, che colorando di tricolore il proprio
profilo Facebook, che fotografandosi tenendo in mano un cartello con un hashtag
di tendenza, questi che credono di sconfiggere i terroristi a colpi di tweet,
questi che la guerra mai senza se e senza ma, non sono gli stessi che ogni 25
aprile scendono in campo a urlare il valore della Resistenza contro i
nazifascisti? Perché non mi pare che i partigiani siano andati mettendo fiori
nei loro, e altrui, cannoni… mah.
Ha ragione Giovanni Scrofani, un ruvido opinionista dei
social media, che apprezzo per la capacità di scartavetrare le banalità, anche
se qualche volta va fuori strada, quando scrive: “Riassumendo le brillanti soluzioni rinvenute in rete oggi...
deportiamo tutti i mussulmani lontano dalle nostre città che i tedeschi negli
anni '40 hanno movimentato un sacco di gente e funziona... vogliamoci
tantissimo bene che poi ai terroristi gli passa la voglia di terrorizzarci...
qualcuno (non io) dovrebbe fare la guerra che pone fine a tutte le guerre e
ammazzare tutti e ferire seriamente i sopravvissuti... andiamo ai concerti e al
ristorante come se nulla fosse che poi ai terroristi gli passa la voglia di
terrorizzarci... mi chiudo in stanza a piangere... mandiamo Di Battista a
dialogare con l'ISIS (hahahahahaha)... mandiamo Di Battista a dialogare con
l'ISIS (serio)... c'aveva ragione Oriana c'aveva... c'aveva ragione Orietta
c'aveva... mi cambio l'immagine del profilo così il Califfo piange... Peccato
che durante la caduta dell'Impero Romano non c'erano i social sarei curioso di
vedere come l'avrebbero raccontata”.
Ora Montale è stato davvero profetico in due delle sue
poesie che amo di più. Tra le altre si intende.
C’era della lucidità auto-ironica nel suo Non chiederci la parola, che si conclude
con queste mirabili parole “Codesto solo
oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”.
Ecco, questo oggi sono io (beh questo lo diceva Alex Britti,
ma è tutta un’altra storia). Non so cosa voglio, so cosa non voglio.
Non voglio questo mondo sporco che strappa le speranze. Non
che ti fa rischiare la vita. No. Quella È
vita. Non lo scopriamo oggi. Oggi lo riscopriamo dopo l’ubriacatura che
aveva tenuto lontana la morte, facendoci credere invincibili e immortali.
Dovremmo tutti riascoltare Samarcanda. E non far cadere dalla bocca una
preghiera purtroppo smarrita “a morte
improvvisa libera nos Domine”. Liberaci dalla morte immediata, che poi vuol
dire “regalaci un letto di sofferenza”, guarda caso ciò che proprio il mondo
non vuole.
No. Non è la morte che spaventa, quella che ti aspetta fuori
casa e non ti lascia neanche il tempo di salutare. Perché finire sotto un
camion o sotto una raffica di mitragliatrice fa poca differenza. I tagliagole
c’erano anche nel passato perché la cavallina storna riporta colui che non
ritorna. Non è questo che fa paura, il sapere che esci da casa e non sai se ci
ritorni o se ci trovi chi hai salutato al mattino. Perché ci sarebbe da
ringraziare Dio solo per quetso.
È l’aver sottratto la speranza. Perché i muri strappati dai
crocefissi non servono a costruire ponti ma a scavare fosse e generare prigioni.
Perché se non ripartiamo da lì, dal senso dato alla vita, finiamo nella fossa
comune. Ma ben prima di essere morti.
Torniamo a Montale e a Maestrale, che si chiude con questa
verità “perché tutte le immagini portano
scritto:" più in là "!”. Certo, bisogna leggere in trasparenza la
realtà, guardare oltre con il capo alto. E riscoprire quello che san JoseMarìa
Escrivà de Balager scriveva nei primi anni Trenta: “Queste crisi mondiali sono crisi di santi” che non vuol dire che
bisogna spalancare ponti levatoi verso sponde che non solo non vogliono
accoglierli, ma sono pronti a usarli per invadere i benpensanti. Ma che è ai
santi che si deve chiedere la strada da seguire.
Diceva Giovanni Paolo II, santo appunto, che la soluzione ad
ogni problema si trova cercandola nelle scritture. E nella preghiera. Che
magari è quella che il beato Marco d’Aviano rivolge ai soldati prima della
battaglia di Vienna del 12 settembre 1683 (capito perché l’11 settembre è
avvenuto l’11 settembre?) o i rosari recitati nella flotta guidata da Don
Giovanni d’Austria il 7 ottobre 1571, poi diventata festa della Madonna del
Rosario.
Certo, ribadisco, non so cosa si debba fare. Non so cosa sia
giusto e cosa non giusto. Non voglio che sulla mia pelle ci sia scritto
#jesuisGiuda cioè l’apostolo traditore che si sentì tradito da un Dio che non
volle farsi Re, vendicare i “buoni” schiacciando i cattivi e i nemici nella
violenza. Non voglio questo. So cosa non voglio, ma non so cosa voglio.
E credo che con me, in questo limbo, siano in tanti. Un po’
come Giaro che, appreso della morte della figlia, si sente dire “non temere,
continua solo ad avere fede”.
Che non è la cosa più facile da fare, ma di sicuro l’unica
che abbia senso.
domenica 15 novembre 2015
Il racconto della domenica: per sommi capi
La passione è una bestia che si
controlla facilmente, non fosse che per orgoglio: il sentimento no.
Con la passione ci giochi,
l’accarezzi in coda al semaforo quando ti diverti a fissare e sorridere dentro
le macchine dove un’affascinante ragazza accetta e ricambia la sfida dei tuoi
occhi. Felici entrambi che tutto svanirà pochi secondi dopo, quando il rosso
della passione si dissolverà nel verde del semaforo. Forse la insegui, giocando
più con te stesso, e lei sembra accettare fino a quando un (im)provvido autista
ti sbarra il passo e ti riapre le porte del tuo universo. Il sentimento ti
scardina: come un vento, che sorge gentile per trasformarsi in tempesta, ti
piomba addosso proprio quando gli vai incontro allegro e presuntuoso e ti
rovescia come un guanto. Perché si appoggia sul tuo orgoglio.
Ti è successo: proprio quando
credevi che non sarebbe mai potuto accadere: ti sei innamorato di un’altra
donna. Ma non è una questione di carne, di quegli ardori che entrano dagli
occhi e, grassi, scivolano giù oltre lo stomaco per fermarsi tra la gambe e
scuotere. No: questo ti si è fermato nel cuore, come la piuma bianca di Forrest
Gump, e non sembra volersene andare via. Sta lì, quasi nascosto, timido, ti
sgrana gli occhi contro, stupito e svagato, come un bambino infreddolito che ti
si ripara addosso e teme solo che tu lo voglia scacciare via, nel cuore
dell’inverno. E come si fa a mandarlo via, nel gelo? Nella tormenta? Com’è
facile crearsi degli alibi quando non vuoi guardare in faccia la realtà?
Che farai? Ti guardi addosso
smarrito e non trovi una soluzione. Una sola soluzione esiste: è proprio quella
che escludi in partenza. Perché credi di averne il coraggio.
E’ successo per caso: come
avrebbe potuto altrimenti?
Non te l’aspettavi: tu così
imbolsito nella tua sicurezza, nella tua spocchiosa certezza di non commettere
errori, né tanto meno di aprire la strada a debolezze che annidandosi nella tua
vita potrebbero mettere in forse il castello di moralità che ti sei costruito
intorno. Eppure è successo: un granello di sabbia nell’ingranaggio, una
concessione alla vanità, o forse soltanto la trascuratezza, e quel vento ha
trovato lo spiraglio attraverso il quale insinuarsi. Come serpe nelle fessure
del muro.
Una battuta lasciata cadere forse
più per riempire un fastidioso vuoto che per comunicare una notizia importante:
“la prossima settimana sono a Firenze per lavoro”. “Allora la invito a cena”.
Un brivido. Hai lasciato cadere le cose, ma queste sono rimaste in piedi. Hai
avuto l’impressione che lei insistesse e un primo sorriso, diverso dal solito,
non dunque di serenità, ma quasi di vittoria, ha leggermente piegato le tue
labbra. Non ce l’hai fatta a tirarti più indietro. Perché? Per vanità? Per il
desiderio di sentirti desiderato, tu, proprio adesso che senti il tuo corpo
disfarsi con dolcezza non sotto i colpi di un’età che scappa, non puoi pensare
questo quando i quarant’anni sono ancora una frontiera lontana, ma per il
leggero picchiettare del lavoro, come di quelle attività che senti così tue,
che ti lavorano l’addome e i polmoni, depositando nel primo quello che
sottraggono ai secondi. Desiderato poi? Per che cosa? Per chi? Che cosa è
stato? Che cosa ti ha fatto abbassare quella tua guardia di cui sei così
orgoglioso? Forse un orgoglio più grande? La pretesa di ricostruire? Di essere
importante per qualcun altro, anzi, diciamolo con chiarezza, per un’altra
donna?
Ecco sì, me ne accorgo cogliendo
quel gesto, quasi impercettibile, di fastidio che ha preceduto il tuo sorriso:
una venatura di tollerante ironia, come per allontanare -da chi: da me? Da te?-
il sospetto. La vanità sa scegliere strade impervie e difficili per perforare
l’anima e riemergere ammantata di sentimenti innocui: è quella macchia da
sempre impressa nelle profondità dell’intimo, che spinge te, come ogni altro
uomo, a cercare un’affermazione. Di più: l’affermazione. Un continuo,
inarrestabile cammino che ha bisogno sempre di nuovo consenso, perché quello
rinnovato non basta più. E’ questo che ti è sembrato di vedere? La caccia?
Banale! Proprio per questa desiderata! Essere di nuovo dio per qualcuno?
Di certo, da quel momento è
cambiato qualcosa. Hai atteso il giorno della partenza con la stessa ansia con
la quale da bambino aspettavi la mattina di Natale. In macchina giocavi con la
radio. Fermo all’autogrill, le briciole del panino ancora sulla barba, il
respiro infastidito dalla puzza di fumo che inondava il locale, hai avuto una
esitazione. Ti sei fermato con il telefono in mano, il numero già composto sul
visore, il dito pronto a premere il tasto. Che cosa hai visto? Qualunque cosa
fosse, non è stata più forte della tua agitazione. Hai pigiato, la telefonata è
partita, lei ha risposto. Un po’ fredda per la verità, quasi distaccata. Hai
avuto l’impressione che si fosse pentita di ciò che ti aveva detto solo pochi
giorni prima. Hai avuto paura: non tanto di aver perduto qualche cosa che
ancora non avevi, quanto di aver sprecato la tua sicurezza in un sogno che non
aveva radici. Ti sei preoccupato più per il tuo orgoglio che per la tua tranquillità.
Ti sei visto trascinato e deriso dalla tua vanità, gettato in mezzo alla
piazza, umiliato, beffeggiato. Hai avuto paura.
La sua voce si è raddrizzata,
ammorbidita, forse era solo la tua medesima tensione, la fatica della
costruzione, un momento poco adatto. Avete combinato per la sera dopo. Ancora
una giornata di attesa. E’ stato lì che hai cominciato a crearti alibi, a
ingannarti con l’innocenza e la semplicità di una cena con una cliente,
affermazione peraltro incontestabile. Un’angoscia di segno inverso ti ha allora
assalito costringendoti a sedere. Un pensiero martellante che ha cominciato a
combatterti ti ha persino tolto la voglia di mangiare. Te ne sei andato di
filato nella tua camera d’albergo e ti sei buttato sul letto, la televisione
accesa, fingendo di sfogliare libri e appunti di lavoro, come per prepararti
alla giornata seguente. La cui sera è calata di schianto. Una mano che scuote i
capelli. L’altra che chiude la porta della stanza. Il cielo strina di colori:
brucia e sanguina al contempo. Come te. Un vente leggero si porta via il tuo
onore. Bastava così poco: l’avresti creduto?
Hai preso l’auto, acceso la radio
prima ancora di mettere in moto, e tutto ha cambiato velocità. La strada è
volata via fino al parcheggio dove vi sareste incontrati. La musica è più
galeotta dei libri: non so se avessi scelto apposta la voce di Michael Pfeiffer
o se è stato tutto un caso, ma mentre attendevi, seduto in macchina, anche
impaurito, guardando ogni vettura che ti si affiancava per riconoscere lei, quella
My funny Valentine ti ha confuso ancora più le idee al punto che hai
finito per lasciarle da parte e affidarti al cuore, che non sa spesso dove va.
Finalmente lei è arrivata.
Sorride. Vi date del lei. State
lontani. Sali sulla sua macchina. Cominci a parlare: lento, distaccato,
professionale. Non sai che cosa vuoi. Neppure lei probabilmente. Arrivati.
Parcheggio. Due passi. Il ristorante. Ordinate. Parlate di vicende ai margini;
poi il cerchio si stringe: la tua vita, la sua vita, i ricordi, il passato, il
presente. La voce ha cambiato tono. Uscite. E’ ancora presto. Si fa due passi
per le stradine del centro. La temperatura è morbida. Lei ti cammina vicino, ti
verrebbe quasi voglia di prenderla sottobraccio. Resisti. Vorresti fosse lei a
farlo. Non lo fa. Ti dispiace. Ridete. Ti riporta alla macchina. Le avevi
preannunciato un regalo, nulla di personale, solo un libro del quale avevate
già parlato e che è collegato in qualche modo alle sue vicende passate. Glielo
dai. Vi salutate. Lei si sporge e ti bacia sulle guance. “Ci rivediamo?” , ti
chiede. “Se le fa piacere”, abbozzi ed aggiungi come per difenderti, “sarò qui
di nuovo tra quindici giorni, se è libera e lo desidera mi chiami”. “Senza
dubbio”, risponde e invece il dubbio comincia già a morderti.
E’ già tutto finito. Eppure
quell’attimo nel buio, illuminati di taglio dall’insegna dell’albergo, mentre
siete rimasti vicini, ti ha lasciato una ferita profonda. Come nei film avresti
voluto fermare il suo movimento. Sporgerti piano anche tu in avanti e con
delicatezza baciarla. Quell’attimo congelato in cui gli occhi si guardano
interrogandosi e scorgendo gli uni negli altri angoscia e desiderio, ma di
nuovo non una sensazione forte, carnale, quando una tenerezza infinita. Ecco,
quell’attimo che non può che accadere una volta tra un uomo ed una donna perché
poi tutto sarà differente, qualunque sia la direzione che le vicende
prenderanno. E’ questo che desideri? Vivere una scena che ti è stata rubata nel
passato? Essere protagonista di una nuova storia d’amore? Non lo sai neppure
tu: ti affascina la sequenza di fotogrammi. E dimmi: che cosa sarebbe accaduto
dopo? Non ammetti che puoi pensarci. L’amore oggi è merce al dettaglio e tu non
vuoi comperare. La dolcezza è padrona più crudele della vigliacca passione:
quest’ultima molla la presa quando la scuoti al mattino, la prima non morde
neppure, scivola dentro. Non ti era mai successo. Accenderti sì, è la natura
che si agita e ti vantavi di metterla a tacere, di saper voltare lo sguardo, a
volte con un secondo di ritardo, al punto che l’immagine ti rimaneva addosso,
non per molto però. Adesso invece guidi piano nella notte toscana, risali lungo
l’autostrada declivi secchi e crudi mentre rientri in albergo. Ascolti una
musica che tormenta: l’hai scelta tu questa volta. La stessa voce della stessa
Michelle Pfiffer che canta ancora My funny Valentine: lo stesso struggimento,
no anzi: diverso. Profondo, rosso e rumoroso. E tu non sai spegnere quella
melodia così come non riesci a tagliare una vicenda che non è che all’aurora
eppure scalda come se fosse a mezzogiorno. La colpa ti macera dentro, la
ricacci cercando di annegarla con un fiume freddo di giustificazioni. In realtà
aspetti come un bambino che l’incontro si ripeta, che quel piccolo amore
cresca. Il sonno ti sorprende come un ladro, più per pietà sua che per tua
scelta. Ma puoi ancora scegliere ormai?
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