La passione è una bestia che si
controlla facilmente, non fosse che per orgoglio: il sentimento no.
Con la passione ci giochi,
l’accarezzi in coda al semaforo quando ti diverti a fissare e sorridere dentro
le macchine dove un’affascinante ragazza accetta e ricambia la sfida dei tuoi
occhi. Felici entrambi che tutto svanirà pochi secondi dopo, quando il rosso
della passione si dissolverà nel verde del semaforo. Forse la insegui, giocando
più con te stesso, e lei sembra accettare fino a quando un (im)provvido autista
ti sbarra il passo e ti riapre le porte del tuo universo. Il sentimento ti
scardina: come un vento, che sorge gentile per trasformarsi in tempesta, ti
piomba addosso proprio quando gli vai incontro allegro e presuntuoso e ti
rovescia come un guanto. Perché si appoggia sul tuo orgoglio.
Ti è successo: proprio quando
credevi che non sarebbe mai potuto accadere: ti sei innamorato di un’altra
donna. Ma non è una questione di carne, di quegli ardori che entrano dagli
occhi e, grassi, scivolano giù oltre lo stomaco per fermarsi tra la gambe e
scuotere. No: questo ti si è fermato nel cuore, come la piuma bianca di Forrest
Gump, e non sembra volersene andare via. Sta lì, quasi nascosto, timido, ti
sgrana gli occhi contro, stupito e svagato, come un bambino infreddolito che ti
si ripara addosso e teme solo che tu lo voglia scacciare via, nel cuore
dell’inverno. E come si fa a mandarlo via, nel gelo? Nella tormenta? Com’è
facile crearsi degli alibi quando non vuoi guardare in faccia la realtà?
Che farai? Ti guardi addosso
smarrito e non trovi una soluzione. Una sola soluzione esiste: è proprio quella
che escludi in partenza. Perché credi di averne il coraggio.
E’ successo per caso: come
avrebbe potuto altrimenti?
Non te l’aspettavi: tu così
imbolsito nella tua sicurezza, nella tua spocchiosa certezza di non commettere
errori, né tanto meno di aprire la strada a debolezze che annidandosi nella tua
vita potrebbero mettere in forse il castello di moralità che ti sei costruito
intorno. Eppure è successo: un granello di sabbia nell’ingranaggio, una
concessione alla vanità, o forse soltanto la trascuratezza, e quel vento ha
trovato lo spiraglio attraverso il quale insinuarsi. Come serpe nelle fessure
del muro.
Una battuta lasciata cadere forse
più per riempire un fastidioso vuoto che per comunicare una notizia importante:
“la prossima settimana sono a Firenze per lavoro”. “Allora la invito a cena”.
Un brivido. Hai lasciato cadere le cose, ma queste sono rimaste in piedi. Hai
avuto l’impressione che lei insistesse e un primo sorriso, diverso dal solito,
non dunque di serenità, ma quasi di vittoria, ha leggermente piegato le tue
labbra. Non ce l’hai fatta a tirarti più indietro. Perché? Per vanità? Per il
desiderio di sentirti desiderato, tu, proprio adesso che senti il tuo corpo
disfarsi con dolcezza non sotto i colpi di un’età che scappa, non puoi pensare
questo quando i quarant’anni sono ancora una frontiera lontana, ma per il
leggero picchiettare del lavoro, come di quelle attività che senti così tue,
che ti lavorano l’addome e i polmoni, depositando nel primo quello che
sottraggono ai secondi. Desiderato poi? Per che cosa? Per chi? Che cosa è
stato? Che cosa ti ha fatto abbassare quella tua guardia di cui sei così
orgoglioso? Forse un orgoglio più grande? La pretesa di ricostruire? Di essere
importante per qualcun altro, anzi, diciamolo con chiarezza, per un’altra
donna?
Ecco sì, me ne accorgo cogliendo
quel gesto, quasi impercettibile, di fastidio che ha preceduto il tuo sorriso:
una venatura di tollerante ironia, come per allontanare -da chi: da me? Da te?-
il sospetto. La vanità sa scegliere strade impervie e difficili per perforare
l’anima e riemergere ammantata di sentimenti innocui: è quella macchia da
sempre impressa nelle profondità dell’intimo, che spinge te, come ogni altro
uomo, a cercare un’affermazione. Di più: l’affermazione. Un continuo,
inarrestabile cammino che ha bisogno sempre di nuovo consenso, perché quello
rinnovato non basta più. E’ questo che ti è sembrato di vedere? La caccia?
Banale! Proprio per questa desiderata! Essere di nuovo dio per qualcuno?
Di certo, da quel momento è
cambiato qualcosa. Hai atteso il giorno della partenza con la stessa ansia con
la quale da bambino aspettavi la mattina di Natale. In macchina giocavi con la
radio. Fermo all’autogrill, le briciole del panino ancora sulla barba, il
respiro infastidito dalla puzza di fumo che inondava il locale, hai avuto una
esitazione. Ti sei fermato con il telefono in mano, il numero già composto sul
visore, il dito pronto a premere il tasto. Che cosa hai visto? Qualunque cosa
fosse, non è stata più forte della tua agitazione. Hai pigiato, la telefonata è
partita, lei ha risposto. Un po’ fredda per la verità, quasi distaccata. Hai
avuto l’impressione che si fosse pentita di ciò che ti aveva detto solo pochi
giorni prima. Hai avuto paura: non tanto di aver perduto qualche cosa che
ancora non avevi, quanto di aver sprecato la tua sicurezza in un sogno che non
aveva radici. Ti sei preoccupato più per il tuo orgoglio che per la tua tranquillità.
Ti sei visto trascinato e deriso dalla tua vanità, gettato in mezzo alla
piazza, umiliato, beffeggiato. Hai avuto paura.
La sua voce si è raddrizzata,
ammorbidita, forse era solo la tua medesima tensione, la fatica della
costruzione, un momento poco adatto. Avete combinato per la sera dopo. Ancora
una giornata di attesa. E’ stato lì che hai cominciato a crearti alibi, a
ingannarti con l’innocenza e la semplicità di una cena con una cliente,
affermazione peraltro incontestabile. Un’angoscia di segno inverso ti ha allora
assalito costringendoti a sedere. Un pensiero martellante che ha cominciato a
combatterti ti ha persino tolto la voglia di mangiare. Te ne sei andato di
filato nella tua camera d’albergo e ti sei buttato sul letto, la televisione
accesa, fingendo di sfogliare libri e appunti di lavoro, come per prepararti
alla giornata seguente. La cui sera è calata di schianto. Una mano che scuote i
capelli. L’altra che chiude la porta della stanza. Il cielo strina di colori:
brucia e sanguina al contempo. Come te. Un vente leggero si porta via il tuo
onore. Bastava così poco: l’avresti creduto?
Hai preso l’auto, acceso la radio
prima ancora di mettere in moto, e tutto ha cambiato velocità. La strada è
volata via fino al parcheggio dove vi sareste incontrati. La musica è più
galeotta dei libri: non so se avessi scelto apposta la voce di Michael Pfeiffer
o se è stato tutto un caso, ma mentre attendevi, seduto in macchina, anche
impaurito, guardando ogni vettura che ti si affiancava per riconoscere lei, quella
My funny Valentine ti ha confuso ancora più le idee al punto che hai
finito per lasciarle da parte e affidarti al cuore, che non sa spesso dove va.
Finalmente lei è arrivata.
Sorride. Vi date del lei. State
lontani. Sali sulla sua macchina. Cominci a parlare: lento, distaccato,
professionale. Non sai che cosa vuoi. Neppure lei probabilmente. Arrivati.
Parcheggio. Due passi. Il ristorante. Ordinate. Parlate di vicende ai margini;
poi il cerchio si stringe: la tua vita, la sua vita, i ricordi, il passato, il
presente. La voce ha cambiato tono. Uscite. E’ ancora presto. Si fa due passi
per le stradine del centro. La temperatura è morbida. Lei ti cammina vicino, ti
verrebbe quasi voglia di prenderla sottobraccio. Resisti. Vorresti fosse lei a
farlo. Non lo fa. Ti dispiace. Ridete. Ti riporta alla macchina. Le avevi
preannunciato un regalo, nulla di personale, solo un libro del quale avevate
già parlato e che è collegato in qualche modo alle sue vicende passate. Glielo
dai. Vi salutate. Lei si sporge e ti bacia sulle guance. “Ci rivediamo?” , ti
chiede. “Se le fa piacere”, abbozzi ed aggiungi come per difenderti, “sarò qui
di nuovo tra quindici giorni, se è libera e lo desidera mi chiami”. “Senza
dubbio”, risponde e invece il dubbio comincia già a morderti.
E’ già tutto finito. Eppure
quell’attimo nel buio, illuminati di taglio dall’insegna dell’albergo, mentre
siete rimasti vicini, ti ha lasciato una ferita profonda. Come nei film avresti
voluto fermare il suo movimento. Sporgerti piano anche tu in avanti e con
delicatezza baciarla. Quell’attimo congelato in cui gli occhi si guardano
interrogandosi e scorgendo gli uni negli altri angoscia e desiderio, ma di
nuovo non una sensazione forte, carnale, quando una tenerezza infinita. Ecco,
quell’attimo che non può che accadere una volta tra un uomo ed una donna perché
poi tutto sarà differente, qualunque sia la direzione che le vicende
prenderanno. E’ questo che desideri? Vivere una scena che ti è stata rubata nel
passato? Essere protagonista di una nuova storia d’amore? Non lo sai neppure
tu: ti affascina la sequenza di fotogrammi. E dimmi: che cosa sarebbe accaduto
dopo? Non ammetti che puoi pensarci. L’amore oggi è merce al dettaglio e tu non
vuoi comperare. La dolcezza è padrona più crudele della vigliacca passione:
quest’ultima molla la presa quando la scuoti al mattino, la prima non morde
neppure, scivola dentro. Non ti era mai successo. Accenderti sì, è la natura
che si agita e ti vantavi di metterla a tacere, di saper voltare lo sguardo, a
volte con un secondo di ritardo, al punto che l’immagine ti rimaneva addosso,
non per molto però. Adesso invece guidi piano nella notte toscana, risali lungo
l’autostrada declivi secchi e crudi mentre rientri in albergo. Ascolti una
musica che tormenta: l’hai scelta tu questa volta. La stessa voce della stessa
Michelle Pfiffer che canta ancora My funny Valentine: lo stesso struggimento,
no anzi: diverso. Profondo, rosso e rumoroso. E tu non sai spegnere quella
melodia così come non riesci a tagliare una vicenda che non è che all’aurora
eppure scalda come se fosse a mezzogiorno. La colpa ti macera dentro, la
ricacci cercando di annegarla con un fiume freddo di giustificazioni. In realtà
aspetti come un bambino che l’incontro si ripeta, che quel piccolo amore
cresca. Il sonno ti sorprende come un ladro, più per pietà sua che per tua
scelta. Ma puoi ancora scegliere ormai?
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