apparso su LaCroce Quotidiano del 21 e 22 aprile 2015
C’entra
sempre l’amore, è tutto qui. C’entra l’amore come strada per vincere la morte.
Ma di quale amore parliamo?
No,
non è che ho sbagliato e ho copia-incollato l’inizio dell’articolo della scorsa
settimana. È che ci ho pensato a lungo, grazie anche ai commenti che mi sono
arrivati da amici e meno amici.
E da (dis-) e –avventure varie capitate in rete, sui social media in questi giorni.
E da (dis-) e –avventure varie capitate in rete, sui social media in questi giorni.
Tutto
ruota intorno a questo, intorno alla comprensione di che cosa sia l’amore e che
cosa comporti. E di come si faccia ad amare, innanzitutto se stessi. Questo
però non deve essere il centro, ma il motore. E la cosa è molto diversa: ama il
prossimo tuo COME te stesso e non, come mi ha fatto notare una cara amica per
mostrarmi dove si è arrivati oggi, ama il prossimo tuo DOPO te stesso. Un DOPO che non arriva mai, di solito.
Perché
è sempre dall’amore che nascono i falsi miti, i quali, anche quando non sono
manipolati da persone senza scrupoli che distruggono coscienze e vite per i loro
interessi economici, politici e di potere -sempre ideologici comunque- sono lo
specchio più o meno inconsapevole di un egoismo profondo che cerca l’amore che
non conosce.
Perché
senza amore non si vive.
Everybody
need somebody to love…. E soprattutto di essere amato da qualcuno.
Dicevo
già la scorsa settimana che chiunque, anche nella più profonda perversione
egoistica, ha il desiderio profondo di essere dalla parte della ragione:
nessuno vuole sbagliare, nel senso di fare male o addirittura di fare IL male.
Per
questo si vogliono elevare i capricci a possibilità, libera scelta, addirittura
unico bene. Perché anche se la società consente ogni esercizio della propria
libertà, se questo non viene “amato” cioè riconosciuto appunto come un bene,
inquina il cuore. Noi cerchiamo approvazione. Non vogliamo essere esclusi.
Il
coniuge traditore ricerca giustificazioni, anzi di più: non gli/le basta la
comprensione, che è sempre comunque illuminata dalla pietà, vuole
l’approvazione che esalta invece di compatire. “Hai fatto bene, era la cosa
migliore da fare” vuol sentirsi dire per affogare i sensi di colpa che invece
stanno sempre alla superficie.
Lo
studente che bulleggia il compagno vuole l’approvazione, derubrica –complice la
famiglia- a scherzo la violenza, perché la satira è sempre ammessa: siamo tutti
charlie, vero?
I
violenti volgari bolognesi che mettono in scena una blasfema parodia, non si
scusano: hanno agito bene loro, hanno reagito all’inquinamento della Chiesa, quindi semmai la
colpa è di quest’ultima, non loro.
Leggo
sui social “se Dio esiste e ha creato tanti gay significa che sono sue creature
naturali e che devono fare l'amore come due etero”.
Questa
frase contiene un numero impressionate di errori, a partire dal fatto che
nell’originale Dio era scritto con la minuscola. Confonde la creazione con la
libertà dell’uomo, la natura con i comportamenti. Potremmo argomentare allora
così: “se Dio esiste e ha creato tanti assassini, significa che sono sue creature
naturali e che possono sparare a chi vogliono”.
O
peggio così “se Dio esiste, e ha creato tanti carnivori, significa che sono sue
creature naturali e che devono mangiare come vogliono”.
O
ancora: “se Dio esiste, e ha creato tanti cacciatori, significa che sono sue
creature naturali, e che devono ammazzare tutti gli animali, di qualunque
specie, come piace a loro”.
Non
mi interessa proseguire su questa linea ma sottolineare il senso che ci leggo
dentro, tra le righe: il bisogno di sentirsi naturali, di sentirsi amati, di
sentirsi approvati.
Ora
l’amore, chi crede in Cristo, non lo negherà mai nessuno a nessuno. Non dico
che sia facile, non dico che sia alla portata di tutti, ma per lo meno una cosa
noi che ci riteniamo credenti abbiamo chiaro in modo inequivocabile: saremo
giudicati sull’amore, e ogni mancanza d’amore verso chiunque -verso ogni
peccatore quindi, perché tutti lo siamo- ci verrà addebitata come
responsabilità grave.
Saremo
giudicati secondo come giudicheremo.
Per
cui se non sappiamo amare anche la peggiore persona al mondo, chi ci ha fatto
più male, ce ne verrà chiesto conto. Mica facile, ma è così.
Nel
mentre però ci viene chiesto, proprio perché non siamo noi a dover giudicare,
di non manipolare neppure il… codice giuridico, che è stato stabilito da
Dio. Non possiamo fare leggi a nostro
uso e consumo.
Dobbiamo
fare la verità nella carità.
Che
cosa ha a che fare tutto questo con i falsi miti di progresso?
Per
spiegarlo metto sul tavolo un ulteriore elemento: la misericordia e l’anno
santo che le è intitolato che inizierà a dicembre.
Sì,
un anno santo che è Grazia, perché abbiamo tutti bisogno di una misericordia
infinita, e il compito di noi credenti, in questo ospedale da campo, oggi, qui,
adesso, ad ogni persona che incontriamo, sta proprio nel ricordare questo, che
Dio ama il peccatore.
Non
quindi “ricordati che devi morire” o “pentiti e credi al Vangelo”, ma oggi è il
tempo di “Dio ti ama e ti perdona ogni cosa”.
E
qui casca l’asino; e qui si fa difficile per noi. Perché Gesù ci ricorda che
c’è un solo peccato che non verrà mai perdonato: "Qualunque peccato o
bestemmia verrà perdonata agli uomini, ma la bestemmia contro lo Spirito non
verrà perdonata" (Matteo 12,31). Sarà mica proprio quell’atteggiamento che
fa pensare all’uomo di non avere colpa alcuna? Di non avere bisogno di Dio? Di
potersi dare il perdono da sé? Di non essere bisognoso di misericordia perché
non esiste l’oggetto necessario? Di voler essere amato da Dio come giusto? Un
po’ come quei giudei –che avevano creduto in Lui!- che si ritenevano liberi per
definizione, per eredità: «Noi siamo discendenti di Abramo e non siamo mai
stati schiavi di nessuno. Come puoi dire: “Diventerete liberi”?» (Giovanni
8,33).
Ecco
il falso mito: voglio che tu mi ami perché io sono quello buono, non ho colpa,
la colpa –hai un demonio!- ce l’hai tu che insisti nel dire che sbaglio.
E
qui si svela un altro effetto collaterale devastante dei falsi miti: si può
amare solo il giusto; chi sbaglia non va amato, va disprezzato, va distrutto.
Fateci
caso: le categorie che vengono sostenute dai profeti dei falsi miti sono tutte
idealizzate, non c’è macchia in loro. Non riescono ad affermare che al loro
interno ci sono ladri ed assassini, colpevoli e approfittatori. Non possono!
Perché vorrebbe dire ritornare al piano della responsabilità individuale e del
confronto con la verità. E questo distruggerebbe il falso mito.
Questi
profeti di una falsa libertà possono amare solo i perfetti, i puri, chi è nel
peccato è da togliere dalla faccia della terra. Sono figli dei farisei dei
tempi di Cristo: “Sei nato tutto nei peccati e vuoi insegnare a noi?” E lo
cacciarono fuori (Giovanni 9,34).
Non
capiscono come si possa distinguere l’errore dall’errante, proprio perché non
sanno amare: non riescono ad ammettere che ci siano persone che amano la
persona anche se detestano il suo errore.
Esula
dai loro schemi, dalle loro categorie di ragionamento.
Come
si fa a condurre alla misericordia chi, sulla branda dell’ospedale da campo,
rifiuta il medico perché pretende di non avere ferite?
Mi
faccio aiutare a cercare il bandolo da un inaspettato suggeritore, Roberto
Vecchioni, che alle sue canzoni ha affidato una saggezza più profonda di quanto
non possa sembrare al primo ascolto.
Tre
sono le canzoni che prendo a prestito per gettare luce sulla vicenda, sempre
che poi io riesca a cogliere il riflesso –ma qui cado in piedi perché conto
sull’aiuto dei lettori!- e tirare fuori un piano d’azione utile.
La
prima è L’estraneo (infiniti ritorni) che disvela come divellere questa
resistenza ideologica: in una sera di Gerusalemme il primo incontro con Dio
produce fastidio, irritazione:
“Ho
visto un Dio che mi veniva incontro
e
ho provato tutto per scappare,
ma
lui insisteva: "Dài, fatti salvare,
ho
tanto amore, amore, amore...".
Dio
insiste, con tale coraggio da sembrare folle in questa volontà di salvare
tutti:
“E
in un cortile di Gerusalemme
che aveva scelto lui da chissà quanto
mi abbracciò e baciò e stava delirando,
e aver capito tutto in un istante
fu come morir le morti tutte quante
e non volere essere più niente, niente, niente...” .
che aveva scelto lui da chissà quanto
mi abbracciò e baciò e stava delirando,
e aver capito tutto in un istante
fu come morir le morti tutte quante
e non volere essere più niente, niente, niente...” .
E’
la morte che dà senso alla vita, come dicevamo tempo fa. Ma il processo di conversione, di
abbandono dell’io, non è lineare, non è semplice. Si torna indietro perché
lasciare la zavorra dei propri piaceri è difficile, è come un elastico fissato
alla schiena: ti lascia crede di
esserti liberato dalla gabbia e poi ti tira di nuovo a sé con un abbraccio
ancora più violento.
Così
incontri di nuovo Dio in treno e di nuovo lui vuole aiutarti, e parte dalla
realtà a raccontarti il mondo, ma tu non ci stai, vuoi vivere la vita come ti
pare:
“Lasciami
questo sogno disperato
di esser uomo,
lasciami
quest'orgoglio smisurato
di esser solo un uomo:
perdonami, Signore,
ma io scendo qua,
alla stazione di Zima.
questo sogno disperato
di esser uomo,
lasciami
quest'orgoglio smisurato
di esser solo un uomo:
perdonami, Signore,
ma io scendo qua,
alla stazione di Zima.
Con
te, Signore
è tutto così grande,
così spaventosamente grande,
che non è mio, non fa per me”
è tutto così grande,
così spaventosamente grande,
che non è mio, non fa per me”
Questo
è il punto chiave: la misericordia si effonde su tutti, ma resta solo su coloro
che la accolgono. E per accoglierla bisogna sentirsi peccatori, o anche solo
desiderosi di una vita “spaventosamente grande”. Finché te ne vuoi stare chiuso
dentro alla tua piccolezza –o meschinità?- finché resti alla stazione di Zima,
il perdono non potrà abbracciarti, perché Dio non può salvarti senza di te,
senza il tuo consenso.
Questo
è il mondo di oggi. Il mondo che rifiuta Dio perché non vuole sentirsi per
nulla in colpa, il mondo in cui nessuno vuole essere colpevole e quindi abroga
la legge e distorce la natura.
E
come fai a dialogare con gente così? Come è possibile un dialogo con chi ha già
deciso che tu sbagli perché hai una verità, perché la verità non esiste, anzi
tutti ne hanno una, tutti sono charlie, tutti tranne tu che ritieni di avere
una verità vera, perché allora dai fastidio, allora sei intollerante? Vale la
pena dialogare con questa gente? O non è un dare loro un palcoscenico per
confondere i semplici? Stiamo aiutando il demonio illudendoci di dialogare?
Eh
sì, è vero: sono intollerante, come ha scritto in poche righe da premio
Pulitzer, da premio Benedetto XVI ancora meglio, don Fabio Bartoli qui sabato
scorso.
Sono
intollerante perché amo e non voglio dare ragione solo per una falsa cortesia,
per dimostrare -soprattutto a me stesso e quelli della mia parte- che ti
sopporto (perché questo vuol dire tollerare, implica una dimensione superiore,
una spocchia appena celata, una sufficienza annoiata). Invece io voglio capire
che cosa sei e in che cosa credi, per amarti come sei, e proprio perché ti amo
raccontarti la verità, mostrarti la piaga, aiutarti a curarla.
Come
fai ad amarli questi qui che ti sputano in faccia appena indichi la piaga? Che
ti danno del pazzo perché dici di vederla, toccarla quell’ulcera, di conoscerne
le conseguenze?
Come
si ama in un ospedale da campo?
Ecco
come risponde Vecchioni, tre versi da tre canzoni:
Pazienza,
ci vuole pazienza e attesa del momento giusto
“E
il mio vecchio che sa la verità
guarda il tramonto dalla collina:
da qualche punto lontano
suo figlio tornerà.”
guarda il tramonto dalla collina:
da qualche punto lontano
suo figlio tornerà.”
Ma
non basta: bisogna andare incontro con questa pazienza
“Guardami,
io so amare soltanto
come un uomo:
guardami,
a malapena ti sento,
e tu sai dove sono...
ti aspetto qui, Signore,
quando ti va, alla stazione di Zima.”
io so amare soltanto
come un uomo:
guardami,
a malapena ti sento,
e tu sai dove sono...
ti aspetto qui, Signore,
quando ti va, alla stazione di Zima.”
Certo
ci vuole un cuore che aspetti, che Lo aspetti, e allora per prepararlo questo
cuore bisogna saper amare in molti modi
“Forse
non lo sai ma pure questo è amore”
canta il professore in Stranamore.
E
se vai a vedere bene in tutti (beh quasi tutti diciamo) i quadretti di questa
delicata canzone del 1978 l’amore è gratuità, è donazione, è coraggio, è
qualche cosa di più grande di me, che va oltre l’egoismo, ben oltre: che si
tratti di avere a cuore un ideale o una persona, una figlia o un coniuge, c’è
questa dimensione di sacrificio, che non è se non rendere sacra una relazione
che conta. Ben altro che il “love is love” con cui i falsi miti oggi sdoganano
ogni capriccio e voglia.
Il
punto però non è l’annuncio della verità, non solo: la sfida che ci viene
chiesta è la sintesi, come i tre ultimi Papi, che in questa tempesta devono
governare non solo la barca di Pietro ma quella dell’umanità, la sintesi di fare la verità nella
carità.
Come
sappiamo amare noi tutti questi fratelli imbevuti dei falsi miti, accecati dai
profeti di sventura, illusi che quello che non è se non l’applicazione del loro
egoismo sia una forma nuova di amore, trascinanti da profeti che fanno credere
loro che quella roba lì sia amore?
Non
lo so. Non lo so perché sono anche io qui a lottare con il mio egoismo, con la
voglia di lasciargliela lì come fosse un gioco questa vita, e rintanarmi nel mio
buco come i ramarri che ritirano la testa quando è buio, quanto è tardi, quando
è freddo, quando tutto sembra caderti addosso. E chi me lo fa fare di amare?
Invece Lui insiste, la carità di Cristo ci spinge, ci trascina, ci chiama
fuori, ci impone –un dovere d’amore- di metterci la faccia. Come non lo so, so
che devo amare.
E
se qualcuno mi aiuta, ci aiuta, a capire come, prometto che lo abbraccio.