Quando i cinquant’anni sono stati raggiunti e superati con la velocità del suono di una sirena arrabbiata, tre sono le possibilità che rimangono all’uomo che non vuole rimanere ad attendere l’impatto indifeso e inconsapevole: farsi l’amante, farsi una macchina rossa, scrivere un blog. Dato che mi state leggendo (davvero? Mi state davvero leggendo?) avete compreso che ho scartato le prime due ipotesi. E per scelta volontaria e creduta, non certo forzata.

Ma che cosa e perché scrivere? Condividere, o l’illusione di farlo, aiuta spesso a sentirsi in compagnia di fronte alla piccole battaglie della vita: quelle grandi, si sa, le si può affrontare solo in compagnia di se stessi, senza nessuno scudiero o cavaliere al proprio fianco.

La prima delle sfide e quella che affettuosamente potremmo definire di san Giuseppe, che di fatto nomino mio speciale e personale protettore confidando sulla sua ironia e bonomia. In che cosa consiste questa sindrome? Nel sentirsi ovviamente il più imperfetto della famiglia dovendone invece apparire la guida salda. Non che con questo voglia affidarmi a una melliflua umiltà fasulla, l’autocompiacimento di sentirsi negare la denigrazione e gustare così una vanitosa ricompensa per la propria maliziosa modestia. Affatto. Lauto compiacimento può derivare solo dalla concretezza. Non che non sia vanitoso, tutt’altro: la vanità è sempre in agguato, come ben sa il diavolo impersonato da Al Pacino nel mondo degli avvocati.
Gli è che essendo proprio vanitoso e anche intelligente, so bene che l’ambizioso deve attingere a piene mani all’umiltà: per crescere, ambizione che può essere anche nobile e saggia, bisogna capire dove migliorare. E per capirlo non c’è che l’umiltà.
L’ambizioso vanesio e superbo farà una brutta e rapida fine.

Quindi qui sto: con una moglie tendente alla perfezione, pur con difetti marginali che provocano in me tanto irritazioni quanto ammirazione per la loro trascurabile banalità; con tre figli che, come recitano brutti film, hanno preso maggiormente da me i difetti, e quindi non posso accusarli di una eredità che ho trasmesso loro; con un lavoro che amo e che ogni mese mi sfida sempre di più, aiutandomi a non fare mai mia la sicurezza.
Di che scrivere dunque?

Della precarietà, della inadeguatezza che mi rende comico a me stesso, specchio delle cose che ho appreso e che rivedo, con squarciante veridicità, nel mio quotidiano.

martedì 15 aprile 2025

 


Tutti lì. Erano tutti lì soltanto da unire. E non li ho visti.

Non so spiegarmi cosa sia stato possibile. Anzi lo so ma ho paura a dirmelo. C’è che quando hai una idea in testa, magari perché te ce l’hanno messa, è con quel filtro che vedi ogni cosa. E distorci il mondo secondo la tua visione. Si chiama talvolta ideologia. Colpisce spesso, duro, con frequenza.

Perché era lì in bella evidenza che è solo una questione di amore. Non di regole. Non di leggi. Non di adempienza. Eppure. Eppure non l’ho visto, l’ho messo da parte. 


Dopo quasi 50 anni ho ripreso in mano Ipotesi su Gesù di Messori. E anche lì c’era l’indicazione chiara. Al centro c’è la misericordia. L’infinito amore di un Padre che fa tutto per la felicità dei propri figli. 


Ora possiamo discutere sul concetto di felicità, e su come poterla raggiungere. E per farlo dovremmo capire innanzitutto che cosa è la persona e cosa la rende realmente se stessa. Oggi si fa un gran discutere di questa realizzazione, del divenire il vero sé, pienamente sé. A volte a sproposito. Se non definisci prima che cosa è il sé, che cosa sia la persona, come fai a capire come diventare quello che devi diventare? E quindi come essere felice?


Mettiamolo per un istante da parte e riflettiamo su un punto spinoso e spesso controverso: ma se basta amare per fare ciò che vuoi, l’ha detto sant’Agostino, allora perché tutte queste regole, precetti, peccati?


Come conciliare queste norme con l’amore?


Beh se ami vuoi davvero il bene dell’altro, e se ne sai più di lui, cerchi di aiutarlo a trovare la felicità indirizzandolo. Se sai la strada per arrivarci, dai indicazioni. Se l’altro non le segue alla destinazione non ci arriva o ci arriva tardi. Sbaglia strada, sbaglia mira. Letteralmente pecca, cioè sbaglia mira. E per ritrovare la strada deve chiedere nuove indicazioni, dopo aver ammesso di aver sbagliato strada.


Se vuoi suonare bene uno strumento ti devi allenare, ci sono regole da seguire, hai bisogno di conoscerle e di imparare da chi suona già quello strumento: i sacramenti sono il tuo sostegno e le virtù l’allenamento, i santi l’esempio da seguire.


Ogni sport ha delle regole, che servono ad esaltare il gioco, a divertirsi di più, a rispettarsi. Se le infrangi l’arbitro fischia e sanziona. Il genitore educa dicendo dei no e dando indicazioni. 


Quindi tutto è finalizzato alla felicità che è alla fine amare tutto e tutti senza riserva, trovando sostegno, alimento, energia, indicazioni in ciò che ci viene trasmesso e insegnato.


Era tutto chiaro, tutto lì. E non lo vedevo.


venerdì 8 settembre 2017

Shampoo: il libro che spiega la coppia alla coppia


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Il libro che svela tutti i retroscena della famiglia Pugni, la versione non autorizzata eppure vera, può essere tua.
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Dopo l'anteprima video il link per poter mettere le mani su questo documento. Fai presto! Prima che se ne accorgano e lo facciano sparire!



sabato 22 aprile 2017

L’amore senza inganno



L’amore senza inganno
di Paolo Pugni

C’entra sempre l’amore, è tutto qui. C’entra l’amore come strada per vincere la morte. Ma di quale amore parliamo?
No, non è che ho sbagliato e ho copia-incollato l’inizio dell’articolo della scorsa settimana. È che ci ho pensato a lungo, grazie anche ai commenti che mi sono arrivati da amici e meno amici.
E da (dis-) e –avventure varie capitate in rete, sui social media in questi giorni.
Tutto ruota intorno a questo, intorno alla comprensione di che cosa sia l’amore e che cosa comporti. E di come si faccia ad amare, innanzitutto se stessi. Questo però non deve essere il centro, ma il motore. E la cosa è molto diversa: ama il prossimo tuo COME te stesso e non, come mi ha fatto notare una cara amica per mostrarmi dove si è arrivati oggi, ama il prossimo tuo DOPO te stesso.  Un DOPO che non arriva mai, di solito.
Perché è sempre dall’amore che nascono i falsi miti, i quali, anche quando non sono manipolati da persone senza scrupoli che distruggono coscienze e vite per i loro interessi economici, politici e di potere -sempre ideologici comunque- sono lo specchio più o meno inconsapevole di un egoismo profondo che cerca l’amore che non conosce.
Perché senza amore non si vive.
Everybody need somebody to love…. E soprattutto di essere amato da qualcuno.
Dicevo già la scorsa settimana che chiunque, anche nella più profonda perversione egoistica, ha il desiderio profondo di essere dalla parte della ragione: nessuno vuole sbagliare, nel senso di fare male o addirittura di fare IL male.
Per questo si vogliono elevare i capricci a possibilità, libera scelta, addirittura unico bene. Perché anche se la società consente ogni esercizio della propria libertà, se questo non viene “amato” cioè riconosciuto appunto come un bene, inquina il cuore. Noi cerchiamo approvazione. Non vogliamo essere esclusi.
Il coniuge traditore ricerca giustificazioni, anzi di più: non gli/le basta la comprensione, che è sempre comunque illuminata dalla pietà, vuole l’approvazione che esalta invece di compatire. “Hai fatto bene, era la cosa migliore da fare” vuol sentirsi dire per affogare i sensi di colpa che invece stanno sempre alla superficie.
Lo studente che bulleggia il compagno vuole l’approvazione, derubrica –complice la famiglia- a scherzo la violenza, perché la satira è sempre ammessa: siamo tutti charlie, vero?
I violenti volgari bolognesi che mettono in scena una blasfema parodia, non si scusano: hanno agito bene loro,  hanno reagito all’inquinamento della Chiesa, quindi semmai la colpa è di quest’ultima, non loro.

Leggo sui social “se Dio esiste e ha creato tanti gay significa che sono sue creature naturali e che devono fare l'amore come due etero”.
Questa frase contiene un numero impressionate di errori, a partire dal fatto che nell’originale Dio era scritto con la minuscola. Confonde la creazione con la libertà dell’uomo, la natura con i comportamenti. Potremmo argomentare allora così: “se Dio esiste e ha creato tanti assassini, significa che sono sue creature naturali e che possono sparare a chi vogliono”.
O peggio così “se Dio esiste, e ha creato tanti carnivori, significa che sono sue creature naturali e che devono mangiare come vogliono”.
O ancora: “se Dio esiste, e ha creato tanti cacciatori, significa che sono sue creature naturali, e che devono ammazzare tutti gli animali, di qualunque specie, come piace a loro”.
Non mi interessa proseguire su questa linea ma sottolineare il senso che ci leggo dentro, tra le righe: il bisogno di sentirsi naturali, di sentirsi amati, di sentirsi approvati.
Ora l’amore, chi crede in Cristo, non lo negherà mai nessuno a nessuno. Non dico che sia facile, non dico che sia alla portata di tutti, ma per lo meno una cosa noi che ci riteniamo credenti abbiamo chiaro in modo inequivocabile: saremo giudicati sull’amore, e ogni mancanza d’amore verso chiunque -verso ogni peccatore quindi, perché tutti lo siamo- ci verrà addebitata come responsabilità grave.
Saremo giudicati secondo come giudicheremo.
Per cui se non sappiamo amare anche la peggiore persona al mondo, chi ci ha fatto più male, ce ne verrà chiesto conto. Mica facile, ma è così.
Nel mentre però ci viene chiesto, proprio perché non siamo noi a dover giudicare, di non manipolare neppure il… codice giuridico, che è stato stabilito da Dio.  Non possiamo fare leggi a nostro uso e consumo.

Dobbiamo fare la verità nella carità.

Che cosa ha a che fare tutto questo con i falsi miti di progresso?

Per spiegarlo metto sul tavolo un ulteriore elemento: la misericordia e l’anno santo che le è intitolato che inizierà a dicembre.
Sì, un anno santo che è Grazia, perché abbiamo tutti bisogno di una misericordia infinita, e il compito di noi credenti, in questo ospedale da campo, oggi, qui, adesso, ad ogni persona che incontriamo, sta proprio nel ricordare questo, che Dio ama il peccatore.
Non quindi “ricordati che devi morire” o “pentiti e credi al Vangelo”, ma oggi è il tempo di “Dio ti ama e ti perdona ogni cosa”.
E qui casca l’asino; e qui si fa difficile per noi. Perché Gesù ci ricorda che c’è un solo peccato che non verrà mai perdonato: "Qualunque peccato o bestemmia verrà perdonata agli uomini, ma la bestemmia contro lo Spirito non verrà perdonata" (Matteo 12,31). Sarà mica proprio quell’atteggiamento che fa pensare all’uomo di non avere colpa alcuna? Di non avere bisogno di Dio? Di potersi dare il perdono da sé? Di non essere bisognoso di misericordia perché non esiste l’oggetto necessario? Di voler essere amato da Dio come giusto? Un po’ come quei giudei –che avevano creduto in Lui!- che si ritenevano liberi per definizione, per eredità: «Noi siamo discendenti di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno. Come puoi dire: “Diventerete liberi”?» (Giovanni 8,33).
Ecco il falso mito: voglio che tu mi ami perché io sono quello buono, non ho colpa, la colpa –hai un demonio!- ce l’hai tu che insisti nel dire che sbaglio.
E qui si svela un altro effetto collaterale devastante dei falsi miti: si può amare solo il giusto; chi sbaglia non va amato, va disprezzato, va distrutto.
Fateci caso: le categorie che vengono sostenute dai profeti dei falsi miti sono tutte idealizzate, non c’è macchia in loro. Non riescono ad affermare che al loro interno ci sono ladri ed assassini, colpevoli e approfittatori. Non possono! Perché vorrebbe dire ritornare al piano della responsabilità individuale e del confronto con la verità. E questo distruggerebbe il falso mito.
Questi profeti di una falsa libertà possono amare solo i perfetti, i puri, chi è nel peccato è da togliere dalla faccia della terra. Sono figli dei farisei dei tempi di Cristo: “Sei nato tutto nei peccati e vuoi insegnare a noi?” E lo cacciarono fuori (Giovanni 9,34).
Non capiscono come si possa distinguere l’errore dall’errante, proprio perché non sanno amare: non riescono ad ammettere che ci siano persone che amano la persona anche se detestano il suo errore.
Esula dai loro schemi, dalle loro categorie di ragionamento.
Come si fa a condurre alla misericordia chi, sulla branda dell’ospedale da campo, rifiuta il medico perché pretende di non avere ferite?
Mi faccio aiutare a cercare il bandolo da un inaspettato suggeritore, Roberto Vecchioni, che alle sue canzoni ha affidato una saggezza più profonda di quanto non possa sembrare al primo ascolto.
Tre sono le canzoni che prendo a prestito per gettare luce sulla vicenda, sempre che poi io riesca a cogliere il riflesso –ma qui cado in piedi perché conto sull’aiuto dei lettori!- e tirare fuori un piano d’azione utile.

La prima è L’estraneo (infiniti ritorni) che disvela come divellere questa resistenza ideologica: in una sera di Gerusalemme il primo incontro con Dio produce fastidio, irritazione:

“Ho visto un Dio che mi veniva incontro
e ho provato tutto per scappare,
ma lui insisteva: "Dài, fatti salvare,
ho tanto amore, amore, amore...". 

Dio insiste, con tale coraggio da sembrare folle in questa volontà di salvare tutti:

“E in un cortile di Gerusalemme
che aveva scelto lui da chissà quanto
mi abbracciò e baciò e stava delirando,
e aver capito tutto in un istante
fu come morir le morti tutte quante
e non volere essere più niente, niente, niente...” .

E’ la morte che dà senso alla vita, come dicevamo tempo fa.  Ma il processo di conversione, di abbandono dell’io, non è lineare, non è semplice. Si torna indietro perché lasciare la zavorra dei propri piaceri è difficile, è come un elastico fissato alla schiena:  ti lascia crede di esserti liberato dalla gabbia e poi ti tira di nuovo a sé con un abbraccio ancora più violento.
Così incontri di nuovo Dio in treno e di nuovo lui vuole aiutarti, e parte dalla realtà a raccontarti il mondo, ma tu non ci stai, vuoi vivere la vita come ti pare:

“Lasciami
questo sogno disperato
di esser uomo,
lasciami
quest'orgoglio smisurato
di esser solo un uomo:
perdonami, Signore,
ma io scendo qua,
alla stazione di Zima. 

Con te, Signore
è tutto così grande,
così spaventosamente grande,
che non è mio, non fa per me” 

Questo è il punto chiave: la misericordia si effonde su tutti, ma resta solo su coloro che la accolgono. E per accoglierla bisogna sentirsi peccatori, o anche solo desiderosi di una vita “spaventosamente grande”. Finché te ne vuoi stare chiuso dentro alla tua piccolezza –o meschinità?- finché resti alla stazione di Zima, il perdono non potrà abbracciarti, perché Dio non può salvarti senza di te, senza il tuo consenso.
Questo è il mondo di oggi. Il mondo che rifiuta Dio perché non vuole sentirsi per nulla in colpa, il mondo in cui nessuno vuole essere colpevole e quindi abroga la legge e distorce la natura.
E come fai a dialogare con gente così? Come è possibile un dialogo con chi ha già deciso che tu sbagli perché hai una verità, perché la verità non esiste, anzi tutti ne hanno una, tutti sono charlie, tutti tranne tu che ritieni di avere una verità vera, perché allora dai fastidio, allora sei intollerante? Vale la pena dialogare con questa gente? O non è un dare loro un palcoscenico per confondere i semplici? Stiamo aiutando il demonio illudendoci di dialogare?
Eh sì, è vero: sono intollerante, come ha scritto in poche righe da premio Pulitzer, da premio Benedetto XVI ancora meglio, don Fabio Bartoli qui sabato scorso.
Sono intollerante perché amo e non voglio dare ragione solo per una falsa cortesia, per dimostrare -soprattutto a me stesso e quelli della mia parte- che ti sopporto (perché questo vuol dire tollerare, implica una dimensione superiore, una spocchia appena celata, una sufficienza annoiata). Invece io voglio capire che cosa sei e in che cosa credi, per amarti come sei, e proprio perché ti amo raccontarti la verità, mostrarti la piaga, aiutarti a curarla.
Come fai ad amarli questi qui che ti sputano in faccia appena indichi la piaga? Che ti danno del pazzo perché dici di vederla, toccarla quell’ulcera, di conoscerne le conseguenze?
Come si ama in un ospedale da campo?
Ecco come risponde Vecchioni, tre versi da tre canzoni:

Pazienza, ci vuole pazienza e attesa del momento giusto

“E il mio vecchio che sa la verità
guarda il tramonto dalla collina:
da qualche punto lontano
suo figlio tornerà.”

Ma non basta: bisogna andare incontro con questa pazienza

“Guardami,
io so amare soltanto
come un uomo:
guardami,
a malapena ti sento,
e tu sai dove sono...
ti aspetto qui, Signore,
quando ti va, alla stazione di Zima.”

Certo ci vuole un cuore che aspetti, che Lo aspetti, e allora per prepararlo questo cuore bisogna saper amare in molti modi

“Forse non lo sai ma pure questo è amore”  canta il professore in Stranamore.
E se vai a vedere bene in tutti (beh quasi tutti diciamo) i quadretti di questa delicata canzone del 1978 l’amore è gratuità, è donazione, è coraggio, è qualche cosa di più grande di me, che va oltre l’egoismo, ben oltre: che si tratti di avere a cuore un ideale o una persona, una figlia o un coniuge, c’è questa dimensione di sacrificio, che non è se non rendere sacra una relazione che conta. Ben altro che il “love is love” con cui i falsi miti oggi sdoganano ogni capriccio e voglia.

Il punto però non è l’annuncio della verità, non solo: la sfida che ci viene chiesta è la sintesi, come i tre ultimi Papi, che in questa tempesta devono governare non solo la barca di Pietro ma quella dell’umanità,  la sintesi di fare la verità nella carità.

Come sappiamo amare noi tutti questi fratelli imbevuti dei falsi miti, accecati dai profeti di sventura, illusi che quello che non è se non l’applicazione del loro egoismo sia una forma nuova di amore, trascinanti da profeti che fanno credere loro che quella roba lì sia amore?

Non lo so. Non lo so perché sono anche io qui a lottare con il mio egoismo, con la voglia di lasciargliela lì come fosse un gioco questa vita, e rintanarmi nel mio buco come i ramarri che ritirano la testa quando è buio, quanto è tardi, quando è freddo, quando tutto sembra caderti addosso. E chi me lo fa fare di amare? Invece Lui insiste, la carità di Cristo ci spinge, ci trascina, ci chiama fuori, ci impone –un dovere d’amore- di metterci la faccia. Come non lo so, so che devo amare.

E se qualcuno mi aiuta, ci aiuta, a capire come, prometto che lo abbraccio.

giovedì 24 marzo 2016

Per una politica che parte dalla famiglia


Le prime due puntate le trovi qui:


Bisogna avere il pacco. No, non voglio buttarla sul volgare. Volevo citare Jannacci. Che uno dice Janancci e tutti rispondono “vengo anche io!”. Infatti. Perché vogliamo vedere tutti l’effetto che fa. Ma L’Enzone, mica l’enzino, era anche quello del “dovevi dirmelo prima che avevi bisogna adesso!” e appunto quello che per fare certe cose ci vuole il pacco, e anche l’orecchio.
Così capita che, come un telegrafista qualsiasi (altra citazione, vediamo chi la ricorda), alla giovane età di 55 anni going on 56 (e dai con le citazioni, perché qui siamo tutti insieme appassionatamente), mi si spalanca davanti la potenza della politica. C’è da dire quella sociale, quella che viene dal basso, quella in cui ti sporchi la faccia e le mani, perché vuoi veramente dare una mano. La vedo così, altrimenti non mi sforzerei di trovarle spazio in una agenda così fitta da sembrare uno stadio al derby.
E ragiono a voce alta, per capire che cosa voglia dire questa cosa qui in un movimento che si vuole popolo, e della famiglia, e nell’anno della Misericordia.
Perché le cose non capitano mai a caso e se capitano è perché c’è un filo che le lega e le prolunga e aspetta che ci sia tu a mettere in moto il tutto.
Allora provo a dire cosa significhi questo per me e spero di avere chi mi risponda per darmi qualche scossone o spintone, e mi aiuti a vedere chiaro.
E penso a Milano, che è la mia città, che per me vuol dire molto e vuol dire futuro e storia e ricordi: perché quando ogni angolo che incontri, quando ti metti a girarla, ti riporta alla memoria una vicenda, un dolore, una gioia, allora vuol proprio dire che la tua città t’è entrata nella vita.

Da dove cominciare allora? Che cosa vuol dire mettere la famiglia al centro di un progetto politico per elezioni amministrative?

Parto da una bellissima affermazione della professoressa Elisabetta Sorci che definisce la peculiarità della famiglia come  lo sguardo che parte dal buio verso la bellezza di un panorama promettente e tutto da scoprire e condividere”. 

In effetti è così: la famiglia, che esiste prima –in senso logico e cronologico- della società è il punto di partenza che tutto ti fa scoprire, e di ogni cosa ti fa cogliere splendore, significato e manipolazione. Questo è lo sguardo politico che ci vuole oggi.

Io penso  dunque che il primo forte richiamo che, dalla famiglia si debba imparare ed estrarre, sia il senso della città: che è comunione di famiglie, luogo sorto per aiutare la famiglia. Famiglia di famiglie.

E quindi ci deve essere un forte richiamo al valore del bene comune, una finalità che offa a tutti il senso della loro esistenza, che è quello della ricerca della propria felicità dentro alla verità ontologica della persona. 

Che è unica ed irripetibile, segnata dall’essere femmina o maschio, e portata ad agire con responsabilità, e libertà, ma una libertà che prenda in conto i propri atti e le conseguenze, e a gestire le facoltà che la qualificano e differenziano: razionalità, volontà, sfera emotiva e sfera delle passioni.

Partire dalla famiglia vuol dire dunque educare e lavorare per la solidarietà, ma quella che nasce dal reciproco rispetto e dal volere il bene degli altri oltre che il proprio, perché capisce che non è possibile perseguire un bene egoista.

Il senso civico alla fine è questo: è capire chi è più debole, e perché; e sapere che in una famiglia si dà non in modo uguale, ad ognuno la stessa cosa, ma in modo giusto: ad ognuno quello che serve
E nessuno protesta perché sa che questo è il bene. E lo vive con generosità e responsabilità. E si impegna per il bene comune. Insegnare come si vive questo speciale affetto in famiglia credo sia compito di chi vuole il bene comune di una città.
Avendo misericordia per chi non capisce subito, per chi non vuole comprendere, senza però togliere nulla alla giustizia e al bene.  E nell’anno della misericordia questo elemento va sottolineato fortemente: nessuno è contro, tutti a favore. Del vero bene. E dentro la misericordia e dentro al bene c’è anche la verità, che non è mazza da brandire, ma sentiero da seguire. 
Non è misericordia lasciare nell’errore,  né lo è cedere al male perché fa comodo, o per codardia. Il bene comune va perseguito, ma non è mai compromesso sulla sua essenza propria, semmai sul percorso per raggiungerlo, quando è opinabile.

Costruire una società a misura di famiglia vuol dire per me, partendo da queste premesse, creare una città in cui le famiglie stiano bene. E per famiglia intendo tutta la sua estensione nello spazio e nel tempo, lo spazio della vita delle persone che la famiglia compongono, dalla quale vengono: dal concepimento alla morte.

Che cosa vuol dire questo? 


  • Che la città che sogno deve aiutare le giovani coppie a trovare casa e a prendere decisioni per il loro futuro,  favorire le loro scelte professionali e famigliari senza che le une penalizzino le altre, permettendo –e vorrei dire incentivando- la generazione della vita. 
  • Aiutare le famiglie a prendersi cura dei figli fin dalla tenera età garantendo a questi ciò che solo i genitori possono dare, senza chiedere eccessivi sacrifici a madri e padri.
  • Vuol dire assicurare una eccellente offerta scolastica, sia stata sia pubblica non statale, per permettere a tutti di accedere all’insegnamento secondo le proprie scelte di valori. 
  • Vuol dire garantire la sicurezza per poter mandare in giro i figli da soli e aiutarli a crescere in responsabilità.
  • Vuol dire affiancare i genitori nel compito educativo, che è decisamente loro responsabilità, ma nel quale hanno, oggi più che mai, bisogno di affiancamento e di guida, senza volere né negare né soffocare la loro priorità. Non ci si può sostituire alla famiglia nel decidere come educare, se non in casi gravissimi e comprovati, ma è utile sostenere la famiglia in questo compito.
  • Vuol dire permettere ai giovani di studiare grazie ad una offerta eccellente come nelle migliori città del mondo. Vuol dire offrire occasioni di lavoro senza svilire le competenze in mansioni riduttive o offrendo stipendi da burla. 
  • Vuol dire avere spazi per trascorrere i momenti di riposo e svago con serenità e tranquillità. Ho in mente il bellissimo parco lungo il Tamigi a Londra, o lungo il mare a Barcellona, o molte altre zone di grandi città nelle quali è possibile passeggiare, incontrarsi, correre, giocare senza paura.
  • Vuol dire aiutare le famiglie a prendersi cura dei propri anziani con quell’affetto che è loro dovuto, senza penalizzare il presente e senza costringere all’egoismo.
  • Vuol dire una città che guarda al futuro come lo fa un padre, come lo fa una madre, quando guarda ai propri figli che crescono: con solidità, senza ideologie, senza paure. Senza voler escludere la fatica che produce la gioia, i sacrifici fertili.
  • Vuol dire favorire la comunicazione tra generazioni, mettere in contatto i nonni e la loro saggezza con i (pro)nipoti, perché questa saggezza non vada sprecata.
  • Vuol dire creare un clima di cultura che spieghi, nel senso letterale di togliere le pieghe, per aiutare a fare proprio il significato della vita e della persona e non restare in balia delle emozioni passeggere, delle mode: cultura vuol dire sconfiggere la manipolazione.
Una città a misura di famiglia non può essere senza arte, musei, mostre, teatri, sport, gioco, eventi: senza eccessi, con limiti tratteggiati, con il coraggio di cercare ciò che è vero, buono, bello. Per aiutare a crearsi una propria opinione, e non cedere alle tendenze che sono come vento furioso nella vita.

E per fare tutto questo è bene non rinnegare il passato: non c’è amministrazione precedente, quale sia il suo colore, che non abbia fatto cose buone, che non abbia aiutato la città a crescere. Così, bisogna estrarre dal tesoro ciò che ha funzionato e rilanciarlo, e prolungarlo perché quello che conta è il bene, il bene comune, da dovunque venga. E chiunque ci aiuti a promuoverlo.

Credo che una politica a misura di famiglia debba essere aperta a tutti, accettare tutto, vagliare, e prendere il bene, ma soprattutto accettare e apprezzare ogni persona, non sempre tutte le sue idee o azioni, ma ogni persona sì. Con quello sguardo che ha una madre che accoglie in casa gli amici dei figlie e non tutto approva, non tutto asseconda, ma non rifiuta mai nessuno. Anzi, semmai cerca di aiutare.

Altrimenti come potremmo dire di essere il popolo della famiglia?


E voi che cosa ne dite?

mercoledì 23 marzo 2016

Diritti... all'inferno



Che se Dio non esistesse tutto sarebbe possibile l’aveva già scritto Dostoevskij. Forse non pensava che la sua provocazione sarebbe diventa banalità.
Lo ripete lo psicoterapeuta Claudio Risé parlando della mattanza di Roma, dove la ricerca della violenza efferata si mescola alla sua insensatezza, più ancora in basso nella scala degli aggettivi di “banale”.  Una violenza ricercata per “vedere l’effetto che fa”. E con questo anche Jannacci si rivolta nella tomba.
E visto che siamo in tema di citazioni, richiamiamo alla memoria anche il famoso grido del cardinal Biffi che ammoniva una società ormai sazia e disperata.
Di questo parla ancora Risè in un recente articolo apparso su il Giornale:
Questa sazietà mortale è riconducibile proprio a questo contesto. L'eliminazione di Dio e la perdita dei propri confini che inducono ad avanzare in territori mortiferi. È questo l'esito di un modello di cultura che non sottopone più le azioni a una verifica morale. Ciò che è in nostro potere, si fa. Ciò porta alla follia e alla morte”.
Già, stiamo correndo proprio in questo baratro. C’è però da chiedersi attraverso quali ponti stiamo finendo per precipitare nell’abisso?
La strada principale e quella segnata dalla proliferazione dei diritti, o per meglio dire, come ho già avuto modo di scrivere su questo stesso quotidiano, attraverso i capricci spacciati per diritti in virtù di una totalmente falsa e manipolata percezione non solo della realtà nella sua complessità, ma soprattutto della persona. E dell’ambito naturale nel quale la persona impara a conoscere la realtà: la famiglia.
Riprendo ancora in mano, citandolo nuovamente Di nuovo sottolineando l’importanza fondamentale di questa ultima fatica di Pier Giorgio Liverani (Diritti distorti, edizioni Ares), Per ripercorrere il cammino che c’è condotti alla soglia della caduta nella disgregazione della società.  È importante capire qual è la strada che ci porterà diritti all’inferno per capire quali sono le battaglie da compiere, perché non è più vero che ci salverà il buon senso, non è più vero che basta aspettare perché le cose tornino ad avere senso. Non è più possibile contare solo sul buon senso delle persone, perché sappiamo benissimo quanto sia potente forte la manipolazione delle idee.
E soprattutto sappiamo benissimo, E se qualcuno non se lo ricorda bene che faccio mente locale, quanto le leggi plasmano i comportamenti. Non sono solo le leggi ovviamente a plasmare i comportamenti. Ci sono anche le variazioni tecnologiche. Basta vedere come ci è cambiata la vita in seguito all’introduzione nella nostra vita di due strumenti quali il telefono cellulare, poi evoluto dello smartphone ancora più capace di modificare i nostri comportamenti, e la posta elettronica.
Sarebbe da folli, da ingenui E folli, ritenere che cambiamenti imposte delle novità tecnologiche e dalle leggi non abbiano influsso sul nostro modo di ragionare e di concepire il senso della vita.  Le leggi in particolare plasmano in maniera inequivocabile i comportamenti, avendo come metro decenni cosa che rende ovviamente non osservabile il fenomeno fino a quando oramai e inarrestabile e distruttivo.
L’assurdo delitto di Roma parla una visione demoniaca, e uso questo termine con profondità di senso: faccio particolare riferimento al desiderio di distruggere l’uomo.
Parla una parola diversa,
Liverani spiega molto bene che i diritti dell’uomo sono quelli che lo precedono sono quelli che “gli appartengono sin dal suo concepimento e proprio per questo costituiscono le fondamenta della società umana e –per quanto possibile e almeno in teoria- garantiscono agli uomini E alle loro relazioni la sicurezza, la tranquillità e la pace”.
È solo pretendendo che questi diritti discendono dall’uomo e non lo precedono, diventano cioè espressione della sua volontà di potenza, che tutto si disperde. Perché nel momento in cui è l’uomo, la singola persona, a decidere quale sia il suo diritto, questo diritto è soltanto l’espressione di una volontà, di una maggioranza, di un particolare momento dello spazio del tempo. Non siamo molto lontani dal vero se finiamo per ritenere che allora I diritti imposti dal regime nazista hitleriano avessero la medesima dignità, oltretutto fondata su un parlamento regolarmente eletto.
Si può obiettare che i diritti di quella follia –attenzione: in nessun modo sto affermando che quei diritti fossero giusti e legittimi!-  fossero immorali perché contrari ai diritti di altre persone.  La risposta è facile: la porto non è forse la negazione dei diritti del bambino? E le pretese della Cirinnà,  che oramai arriva a derubricare padre e madre  a pregiudizio e stereotipo,  proseguendo sulla strada che vuole essere la madre soltanto un concetto antropologico, non sono una violazione palese dei diritti della madre e soprattutto del figlio?
Persino il notissimo giurista angloamericano ateo Ronald Dworkin, ricorda Liverani nel suo libro, constata che “diritto e morale non sono universi separati ma, al contrario, esiste tra essi un legame imprescindibile” e questo perché esistono, e si possono identificare e riconoscere, “Valori comuni a tutti, in cui i credenti e non credenti si riconoscano, a prescindere da dogmi e testi sacri, scavalcando le barriere che un po’ dovunque i fondamentalisti cercano di innalzare”.
Qui c’è in gioco il senso dell’uomo oltre che la sua sorte.
C’è in gioco il futuro dei nostri figli, I nostri nipoti, dei nostri pronipoti. La battaglia iniziata per difendere i nostri figli riguarda tutti noi, pensare di negarla per difendere presunti diritti di altri, in particolare secondo la folle idea che questo vorrebbe dire andare loro incontro cristianamente,  deve essere portata avanti in tutti i piani, anche quello politico, perché non ci venga chiesto conto di ciò che abbiamo fatto E soprattutto di ciò che NON abbiamo fatto.

Il nostro dovere spiegare che questi non sono diritti ed essere in grado di argomentare perché.

lunedì 21 marzo 2016

La politica della famiglia (1) prendere consapevolezza



Perché l’azione politica

C’è sempre da imparare. Sempre. Perché il momento in cui smetti di imparare dalle situazioni sei finito.
C’è sempre da imparare soprattutto se analizzi la concorrenza.
Ritengo di aver appreso molto avendo avuto l’opportunità di assistere ho un incontro, organizzato da un carissimo amico, con Corrado Passera candidato sindaco a Milano.
Ecco le cose che mi hanno molto colpito perché voglio condividere per avere una visione lucida su quello che è importante fare.
Innanzitutto la visione, una visione che è tutt’altro che politica, televisione di qualcuno che ha cuore quello che sta facendo.
È la visione tipica di un imprenditore: immaginare cioè quello che sarà la tua impresa E quale sarà il suo ruolo all’interno del mondo, non solo quello del business, ma proprio il mondo di suo.
Ricordo molto bene come alcuni anni fa allora grande capo di IBM, Sam Palmisano, indisse una conference call globale –almeno così dice la leggenda metropolitana- per porre a tutti dipendenti una sola e semplice domanda: “E se domani, per un colpo di bacchetta magica o di un genio maligno, IBM sparisse completamente dalla terra, senza lasciare nessuna traccia del suo passaggio, il mondo sarebbe diverse più povero oppure no?”.
Già, perché se sparita un’azienda come pm il mondo fosse uguale, che ci sarebbe stata fare fino allora? Quale sarebbe il valore  apportato alla società?
Questa la domanda che si deve fare che c’è in politica: senza la mia azione che mondo sarebbe uguale oppure no? La mia città sarebbe uguale oppure no?
È questo il concetto di Vision così come la declinano le aziende.
E la visione di Passera per Milano è straordinariamente affascinante: una città che compete in Europa con le principali metropoli –Parigi, Londra, Berlino, Barcellona- Per ottenere il ruolo di Città capace di attrarre lavoro, persone, cultura, studenti, capitali, turisti.
Certo che piacerebbe vivere una città così.
È un altro elemento molto importante che ho preso e questo: mentre la politica punta a fare colpo con LA  priorità, la COSA da fare subito, ignorando quelle che sono poi le conseguenze quello che invece l’ha fatto e avere una visione olistica, complessiva, capace di comprendere quali siano i legami tra una decisione per la sicurezza e quella per il traffico, tra la costruzione di un parco e la capacità di attrarre nuovi abitanti, tra la vivibilità di una città E la qualità delle sue università.
Bisogna quindi avere una visione ampia che non trascuri nulla: e da uomo d’azienda –tra parentesi, non c’è niente di male che chi si impegna in politica oggi abbia un’esperienza manageriale, anzi a mio parere potrebbe essere un elemento positivo che… lo vediamo dopo-
Da uomo d’azienda dicevo quali sono io questa visione mi affascina.
Certo però che al centro di questo progetto, di un progetto di sviluppo, deve stare che merita di stare al centro di ogni visione. Ecco dove il management ha bisogno della politica, o se volete della filosofia: comunque dell’etica.
Al centro di tutto questo ci deve stare la famiglia.
È su questo vedo bissare molto le posizioni quasi tutti politici.
Anche perché spesso intendono la famiglia come disagio, come intervento da fare per proteggere la società dalle situazioni di degrado della famiglia. Al massimo, volendo parlare di qualcosa di positivo, si parla di lavoro al femminile. Certo bisogna capire poi come.
Veniamo dunque a noi: passare all’azione politica dire immaginare una città la misura di famiglia, vuol dire capire quindi che cosa questo è una città come Milano. Fammi parere vuol dire capire di più sul ruolo dei genitori, sulle scuole, sulla vivibilità, non è però centrata sulle biciclette o sui cani, ma sui bambini ad esempio. Perché non vuol dire che dobbiamo mandare il cane al rogo e bucare  tutte le gomme delle biciclette! Vuol dire che la priorità Deve essere quella della famiglia dal concepimento alla morte.
Se dunque devo avere una visione globale di quello che mi aspetto per la mia città, se devo immaginare come sarà Milano –la uso come esempio perché la mia città- tra 10 anni, dopo due mandati in cui sia stato possibile lavorare come amministratori per la città, ecco io immagino che Milano sia tra dieci anni davvero una delle principali città europee capace di attrarre soprattutto le famiglie, perché le famiglie ci stanno bene. Perché le famiglie trovano qui le scuole che vogliono in linea con i loro criteri educativi, che trovano aiuti  nella loro fatica di genitori ed educatori dei propri figli, trovino aiuto per poter realizzare i propri sogni e le proprie propensioni professionali, trovino aiuto per non dimenticare e abbandonare i loro cari quando  si sta spegnendo la loro vita. Una città che sappia attirare I migliori professori e migliori intellettuali, che sia ricca di cultura, che sia capace di offrire possibilità di lavoro a tutti, che sia capace di permettere a tutti di muoversi rapidamente senza avere bisogno necessariamente della propria vettura. Una città in cui le periferie sono soltanto luogo geografico e non un disagio sociale. Una città in cui si respiri il senso della solidarietà della propria casa, dei propri vicini, dei propri amici.

Lo so che sto sognando, ma soltanto sognando così alto che potrei essere superato dalla realtà.

domenica 13 marzo 2016

La politica non è ricerca del compromesso



Ce la posso fare. Devo solo respirare forte. Alzarmi e fare due passi. Guardare fuori dalla finestra il cielo. E dopo, solo dopo, rispondere al Tweet. Che altrimenti il furore mi obnubila, il livore trascende. Sono irascibile, ed è una lotta che ormai da anni combatto quotidianamente uscendone spesso sconfitto.
Specie quando si parla di politica, e diritti.
Così a rovinare la mia domenica –beh daì, non siamo tragici, a complicarla, che poi l’Inter ha pure vinto e anche l’EA7!-  arriva un tweet che spiega, con piglio da maestrina della penna rossa, che no “non negoziabile” in politica proprio no va, che in politica conta la mediazione.
Anzi peggio, che la democrazia è fatta di compromessi e chi non lo capisce non è democratico.
Come?
Allora vuol dire che la democrazia non ha princìpi o valori?
Perché se tutto è negoziabile, allora non esistono valori sui quali costruire insieme.

Per ragionare insieme iniziamo a comprendere che cosa voglia dire negoziare, che mi pare che non sia un concetto così chiaro.
Negoziare non vuol dire cercare un compromesso, tutt’altro. Il compromesso è un errore grave. È una prova di forza. È la scelta dei deboli. È la sconfitta della verità. Perché compromesso è una doppia concessione. Tra due posizioni ognuna delle quali chi più chi meno, cede all’altra terreno. E si perde tutti e due.
Eli Goldratt, il padre fondatore dell’approccio manageriale noto come Teoria dei Vincoli (o TOC all’inglese Theory of Constraints) porta questo esempio: ammettiamo di chiedere a due scienziati di misurare l’altezza di un palazzo. Ad uno chiediamo di fare facendo calare un filo a piombo dal tetto, all’altro di usare le leggi della trigonometria e delle ombre.
Il primo torna dicendo che l’altezza del palazzo è 70 metri, il secondo dice che è 80 metri. Che cosa fa uno scienziato? Controlla le procedure e cerca di capire chi ha sbagliato, perché il palazzo non può essere contemporaneamente alto 70 e 80 metri. Non è la verità.
Che cosa si fa in politica, o in azienda? Diciamo 75? O 73 o 78 a seconda di chi urla di più o di chi ha più peso. È la verità? No. È un compromesso? Sì, ma falso.

Negoziare vuol dire cercare la strada migliore per arrivare ad un bene comune, il bene che si intende perseguire.
Questo mi aspetto dalla politica.

Ma per farlo bisogna partire da valori veri, solidi, dimostrati. E quindi per definizione non negoziabili.
Coloro che affermano che la democrazia non può includere valori non negoziabili negozierebbero sul dovere di non uccidere? Sul rispetto della vita? Sulla protezione contro la schiavitù? Contro la violenza fisica?
No?
Allora vuol dire che questi sono principi non negoziabili.

Allora perché affermano che nulla deve essere escluso dalla negoziazione? Perché in realtà quello che vogliono è distruggere coloro che proclamano valori che a loro non piacciono. Provate a chiedere se sono disposti a trovare una mediazione sul divorzio, a ridiscuterlo, o sull’aborto. Ti urleranno in faccia che quelli sono diritti acquisiti che non possono essere messi in discussione perché sarebbe oscurantismo.

Ah sì? Quindi basta trasformare valore in diritto che tutto cambia? Il diritto esce dal tavolo negoziale. E che cosa ci resta? Le cose in cui crediamo. La famiglia ad esempio.

E abbiamo già visto che chi avrebbe dovuto difenderla, mettendosi a negoziare, ha già iniziato a distruggerla. A cedere.
Perché?
Perché non è più in gioco il bene comune, ma quello personale.
Perché l’aggettivo nuovo non è petaloso, ma poltronoso.

Perché non sappiamo più raccontare il bene comune. E qui dobbiamo tutti fare scuola, imparare da chi sta andando da tempo in giro per le piazze a raccontare perché la famiglia sia la cellula prima della società. La base di ogni convivenza sociale. Perché viene prima in senso logico e cronologico.
Perché sia un valore non negoziabile.

I democratici pronti a negoziare tutto, in apparenza, parlano di una società che si disgrega, che per mediazione accoglie tutto, parlano di un mondo in cui gli elettori –se e quando votano- decidono cosa sia bene e cosa male. Quindi anche il nazismo –democraticamente eletto- era nel giusto avendo trovato al suo interno leggi frutto di compromessi politici? Secondo questo principio sì.
La realtà ci dice che non è vero. Che i valori ci sono e bisogna combattere per essi.

Sapete come è finito lo scambio di tweet? Confesso: ho bloccato i democratici perché alla fine prevale il livore e non è corretto, né per loro né per me.
Ma appena prima ero stato apostrofato come “sentinella in piedi”: eccololà! La democrazia che loro vogliono non ammette sentinelle in piedi, gente che sta, che testimonia che i diritti sono in realtà capricci.


Questa democrazia falsa non la vogliamo. Se tocca scendere in campo, facciamolo.