Udienze generali del mercoledì
Papa Francesco
La Famiglia
La Famiglia - 1. Nazaret
Cari fratelli e sorelle buongiorno!
Il Sinodo dei Vescovi sulla Famiglia,
appena celebrato, è stato la prima tappa di un cammino, che si concluderà
nell’ottobre prossimo con la celebrazione di un’altra Assemblea sul tema “Vocazione e
missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo”. La preghiera e la
riflessione che devono accompagnare questo cammino coinvolgono tutto il Popolo
di Dio. Vorrei che anche le consuete meditazioni delle udienze del mercoledì si
inserissero in questo cammino comune. Ho deciso perciò di riflettere con voi,
in questo anno, proprio sulla famiglia, su questo grande dono che il Signore ha
fatto al mondo fin dal principio, quando conferì ad Adamo ed Eva la missione di
moltiplicarsi e di riempire la terra (cfr Gen 1,28).
Quel dono che Gesù ha confermato e sigillato nel suo vangelo.
La
vicinanza del Natale accende su questo mistero una grande luce. L’incarnazione del
Figlio di Dio apre un nuovo inizio nella storia universale dell’uomo e della
donna. E questo nuovo inizio accade in seno ad una famiglia, a Nazaret. Gesù
nacque in una famiglia. Lui poteva venire spettacolarmente, o come un
guerriero, un imperatore… No, no: viene come un figlio di famiglia, in una
famiglia. Questo è importante: guardare nel presepio questa scena tanto bella.
Dio ha
scelto di nascere in una famiglia umana, che ha formato Lui stesso. L’ha
formata in uno sperduto villaggio della periferia dell’Impero Romano. Non a
Roma, che era la capitale dell’Impero, non in una grande città, ma in una
periferia quasi invisibile, anzi, piuttosto malfamata. Lo ricordano anche i
Vangeli, quasi come un modo di dire: «Da Nazaret può mai venire qualcosa di buono?»
(Gv 1,46). Forse, in molte parti del mondo, noi stessi parliamo ancora così,
quando sentiamo il nome di qualche luogo periferico di una grande città.
Ebbene, proprio da lì, da quella periferia del grande Impero, è iniziata la
storia più santa e più buona, quella di Gesù tra gli uomini! E lì si trovava
questa famiglia.
Gesù è
rimasto in quella periferia per trent’anni. L’evangelista Luca riassume questo
periodo così: Gesù «era loro sottomesso [cioè a Maria e Giuseppe]. E uno
potrebbe dire: “Ma questo Dio che viene a salvarci, ha perso trent’anni lì, in
quella periferia malfamata?” Ha perso trent’anni! Lui ha voluto questo. Il
cammino di Gesù era in quella famiglia. « La madre custodiva nel suo cuore
tutte queste cose, e Gesù cresceva in sapienza, in età e in grazia davanti a
Dio e davanti agli uomini» (2,51-52). Non si parla di miracoli o guarigioni, di
predicazioni - non ne ha fatta nessuna in quel tempo - di folle che accorrono;
a Nazaret tutto sembra accadere “normalmente”, secondo le consuetudini di una
pia e operosa famiglia israelita: si lavorava, la mamma cucinava, faceva tutte
le cose della casa, stirava le camice… tutte le cose da mamma. Il papà,
falegname, lavorava, insegnava al figlio a lavorare. Trent’anni. “Ma che
spreco, Padre!”. Le vie di Dio sono misteriose. Ma ciò che era importante lì
era la famiglia! E questo non era uno spreco! Erano grandi santi: Maria, la
donna più santa, immacolata, e Giuseppe, l’uomo più giusto… La famiglia.
Saremmo
certamente inteneriti dal racconto di come Gesù adolescente affrontava gli
appuntamenti della comunità religiosa e i doveri della vita sociale; nel
conoscere come, da giovane operaio, lavorava con Giuseppe; e poi il suo modo di
partecipare all’ascolto delle Scritture, alla preghiera dei salmi e in tante altre
consuetudini della vita quotidiana. I Vangeli, nella loro sobrietà, non
riferiscono nulla circa l’adolescenza di Gesù e lasciano questo compito alla
nostra affettuosa meditazione. L’arte, la letteratura, la musica hanno percorso
questa via dell’immaginazione. Di certo, non ci è difficile immaginare quanto
le mamme potrebbero apprendere dalle premure di Maria per quel Figlio! E quanto
i papà potrebbero ricavare dall’esempio di Giuseppe, uomo giusto, che dedicò la
sua vita a sostenere e a difendere il bambino e la sposa – la sua famiglia –
nei passaggi difficili! Per non dire di quanto i ragazzi potrebbero essere
incoraggiati da Gesù adolescente a comprendere la necessità e la bellezza di
coltivare la loro vocazione più profonda, e di sognare in grande! E Gesù ha
coltivato in quei trent’anni la sua vocazione per la quale il Padre lo ha
inviato. E Gesù mai, in quel tempo, si è scoraggiato, ma è cresciuto in
coraggio per andare avanti con la sua missione.
Ciascuna
famiglia cristiana – come fecero Maria e Giuseppe – può anzitutto accogliere
Gesù, ascoltarlo, parlare con Lui, custodirlo, proteggerlo, crescere con Lui; e
così migliorare il mondo. Facciamo spazio nel nostro cuore e nelle nostre
giornate al Signore. Così fecero anche Maria e Giuseppe, e non fu facile:
quante difficoltà dovettero superare! Non era una famiglia finta, non era una
famiglia irreale. La famiglia di Nazaret ci impegna a riscoprire la vocazione e
la missione della famiglia, di ogni famiglia. E, come accadde in quei
trent’anni a Nazaret, così può accadere anche per noi: far diventare normale
l’amore e non l’odio, far diventare comune l’aiuto vicendevole, non
l’indifferenza o l’inimicizia. Non è un caso, allora, che “Nazaret” significhi “Colei che custodisce”, come
Maria, che – dice il Vangelo – «custodiva nel suo cuore tutte queste cose» (cfr Lc 2,19.51). Da allora, ogni volta che c’è
una famiglia che custodisce questo mistero, fosse anche alla periferia del
mondo, il mistero del Figlio di Dio, il mistero di Gesù che viene a salvarci, è
all’opera. E viene per salvare il mondo. E questa è la grande missione della
famiglia: fare posto a Gesù che viene, accogliere Gesù nella famiglia, nella
persona dei figli, del marito, della moglie, dei nonni… Gesù è lì. Accoglierlo
lì, perché cresca spiritualmente in quella famiglia. Che il Signore ci dia
questa grazia in questi ultimi giorni prima del Natale. Grazie.
La Famiglia - 2. Madre
Cari fratelli e sorelle, buongiorno. Oggi continuiamo con
le catechesi sulla Chiesa e faremo una riflessione sulla Chiesa madre. La
Chiesa è madre. La nostra Santa madre Chiesa.
In questi giorni la liturgia della Chiesa ha posto dinanzi
ai nostri occhi l’icona della Vergine Maria Madre di Dio. Il primo giorno
dell’anno è la festa della Madre di Dio, a cui segue l’Epifania, con il ricordo
della visita dei Magi. Scrive l’evangelista Matteo: «Entrati nella casa, videro
il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono» (Mt 2,11).
E’ la Madre che, dopo averlo generato, presenta il Figlio al mondo. Lei ci dà
Gesù, lei ci mostra Gesù, lei ci fa vedere Gesù.
Continuiamo con le catechesi sulla famiglia e nella
famiglia c’è la madre. Ogni persona umana deve la vita a una madre, e quasi
sempre deve a lei molto della propria esistenza successiva, della formazione
umana e spirituale. La madre, però, pur essendo molto esaltata dal punto di
vista simbolico, - tante poesie, tante cose belle che si dicono poeticamente della
madre - viene poco ascoltata e poco aiutata nella vita quotidiana, poco
considerata nel suo ruolo centrale nella società. Anzi, spesso si approfitta
della disponibilità delle madri a sacrificarsi per i figli per “risparmiare”
sulle spese sociali.
Accade che anche nella comunità cristiana la madre non sia
sempre tenuta nel giusto conto, che sia poco ascoltata. Eppure al centro della
vita della Chiesa c’è la Madre di Gesù. Forse le madri, pronte a tanti
sacrifici per i propri figli, e non di rado anche per quelli altrui, dovrebbero
trovare più ascolto. Bisognerebbe comprendere di più la loro lotta quotidiana
per essere efficienti al lavoro e attente e affettuose in famiglia;
bisognerebbe capire meglio a che cosa esse aspirano per esprimere i frutti migliori
e autentici della loro emancipazione. Una madre con i figli ha sempre problemi,
sempre lavoro. Io ricordo a casa, eravamo cinque figli e mentre uno ne faceva
una, l’altro pensava di farne un’altra, e la povera mamma andava da una parte
all’altra, ma era felice. Ci ha dato tanto.
Le madri sono l’antidoto più forte al dilagare
dell’individualismo egoistico. “Individuo” vuol dire “che non si può dividere”.
Le madri invece si “dividono”, a partire da quando ospitano un figlio per darlo
al mondo e farlo crescere. Sono esse, le madri, a odiare maggiormente la
guerra, che uccide i loro figli. Tante volte ho pensato a quelle mamme quando
hanno ricevuto la lettera: “Le dico che suo figlio è caduto in difesa della
patria…”. Povere donne! Come soffre una madre! Sono esse a testimoniare la
bellezza della vita. L’arcivescovo Oscar Arnulfo Romero diceva che le mamme
vivono un “martirio materno”. Nell’omelia per il funerale di un prete
assassinato dagli squadroni della morte, egli disse, riecheggiando il Concilio Vaticano II: «Tutti dobbiamo essere
disposti a morire per la nostra fede, anche se il Signore non ci concede questo
onore… Dare la vita non significa solo essere uccisi; dare la vita, avere
spirito di martirio, è dare nel dovere, nel silenzio, nella preghiera, nel
compimento onesto del dovere; in quel silenzio della vita quotidiana; dare la
vita a poco a poco? Sì, come la dà una madre, che senza timore, con la
semplicità del martirio materno, concepisce nel suo seno un figlio, lo dà alla
luce, lo allatta, lo fa crescere e accudisce con affetto. E’ dare la vita. E’
martirio». Fino a qui la citazione. Sì, essere madre non significa solo mettere
al mondo un figlio, ma è anche una scelta di vita. Cosa sceglie una madre, qual
è la scelta di vita di una madre? La scelta di vita di una madre è la scelta di
dare la vita. E questo è grande, questo è bello.
Una società senza madri sarebbe una società disumana,
perché le madri sanno testimoniare sempre, anche nei momenti peggiori, la
tenerezza, la dedizione, la forza morale. Le madri trasmettono spesso anche il
senso più profondo della pratica religiosa: nelle prime preghiere, nei primi
gesti di devozione che un bambino impara, è inscritto il valore della fede
nella vita di un essere umano. E’ un messaggio che le madri credenti sanno
trasmettere senza tante spiegazioni: queste arriveranno dopo, ma il germe della
fede sta in quei primi, preziosissimi momenti. Senza le madri, non solo non ci
sarebbero nuovi fedeli, ma la fede perderebbe buona parte del suo calore
semplice e profondo. E la Chiesa è madre, con tutto questo, è nostra madre! Noi
non siamo orfani, abbiamo una madre! La Madonna, la madre Chiesa, e la nostra
mamma. Non siamo orfani, siamo figli della Chiesa, siamo figli della Madonna, e
siamo figli delle nostre madri.
Carissime mamme, grazie, grazie per ciò che siete nella
famiglia e per ciò che date alla Chiesa e al mondo. E a te, amata Chiesa,
grazie, grazie per essere madre. E a te, Maria, madre di Dio, grazie per farci
vedere Gesù. E grazie a tutte le mamme qui presenti: le salutiamo con un
applauso!
La Famiglia - 3. Padre
Cari fratelli e
sorelle, buongiorno!
Riprendiamo il cammino di catechesi sulla famiglia. Oggi ci
lasciamo guidare dalla parola “padre”. Una parola più di ogni altra cara a noi
cristiani, perché è il nome con il quale Gesù ci ha insegnato a chiamare Dio:
padre. Il senso di questo nome ha ricevuto una nuova profondità proprio a
partire dal modo in cui Gesù lo usava per rivolgersi a Dio e manifestare il suo
speciale rapporto con Lui. Il mistero benedetto dell’intimità di Dio, Padre,
Figlio e Spirito, rivelato da Gesù, è il cuore della nostra fede cristiana.
“Padre” è una parola nota a tutti, una parola universale.
Essa indica una relazione fondamentale la cui realtà è antica quanto la storia
dell’uomo. Oggi, tuttavia, si è arrivati ad affermare che la nostra sarebbe una
“società senza padri”. In altri termini, in particolare nella cultura
occidentale, la figura del padre sarebbe simbolicamente assente, svanita,
rimossa. In un primo momento, la cosa è stata percepita come una liberazione:
liberazione dal padre-padrone, dal padre come rappresentante della legge che si
impone dall’esterno, dal padre come censore della felicità dei figli e ostacolo
all’emancipazione e all’autonomia dei giovani. Talvolta in alcune case regnava
in passato l’autoritarismo, in certi casi addirittura la sopraffazione:
genitori che trattavano i figli come servi, non rispettando le esigenze
personali della loro crescita; padri che non li aiutavano a intraprendere la
loro strada con libertà - ma non è facile educare un figlio in libertà -; padri
che non li aiutavano ad assumere le proprie responsabilità per costruire il
loro futuro e quello della società.
Questo, certamente, è un atteggiamento non buono; però come
spesso avviene, si passa da un estremo all’altro. Il problema dei nostri giorni
non sembra essere più tanto la presenza invadente dei padri, quanto piuttosto
la loro assenza, la loro latitanza. I padri sono talora così concentrati su se
stessi e sul proprio lavoro e alle volte sulle proprie realizzazioni
individuali, da dimenticare anche la famiglia. E lasciano soli i piccoli e i
giovani. Già da vescovo di Buenos Aires avvertivo il senso di orfanezza che
vivono oggi i ragazzi; e spesso domandavo ai papà se giocavano con i loro
figli, se avevano il coraggio e l’amore di perdere tempo con i figli. E la
risposta era brutta, nella maggioranza dei casi: “Mah, non posso, perché ho
tanto lavoro…”. E il padre era assente da quel figliolo che cresceva, non
giocava con lui, no, non perdeva tempo con lui.
Ora, in questo cammino comune di riflessione sulla
famiglia, vorrei dire a tutte le comunità cristiane che dobbiamo essere più
attenti: l’assenza della figura paterna nella vita dei piccoli e dei giovani
produce lacune e ferite che possono essere anche molto gravi. E in effetti le
devianze dei bambini e degli adolescenti si possono in buona parte ricondurre a
questa mancanza, alla carenza di esempi e di guide autorevoli nella loro vita
di ogni giorno, alla carenza di vicinanza, alla carenza di amore da parte dei
padri. E’ più profondo di quel che pensiamo il senso di orfanezza che vivono
tanti giovani.
Sono orfani in famiglia, perché i papà sono spesso assenti,
anche fisicamente, da casa, ma soprattutto perché, quando ci sono, non si
comportano da padri, non dialogano con i loro figli, non adempiono il loro
compito educativo, non danno ai figli, con il loro esempio accompagnato dalle
parole, quei principi, quei valori, quelle regole di vita di cui hanno bisogno
come del pane. La qualità educativa della presenza paterna è tanto più necessaria
quanto più il papà è costretto dal lavoro a stare lontano da casa. A volte
sembra che i papà non sappiano bene quale posto occupare in famiglia e come
educare i figli. E allora, nel dubbio, si astengono, si ritirano e trascurano
le loro responsabilità, magari rifugiandosi in un improbabile rapporto “alla
pari” con i figli. E’ vero che tu devi essere “compagno” di tuo figlio, ma
senza dimenticare che tu sei il padre! Se tu ti comporti soltanto come un
compagno alla pari del figlio, questo non farà bene al ragazzo.
E questo problema lo vediamo anche nella comunità civile.
La comunità civile con le sue istituzioni, ha una certa responsabilità –
possiamo dire paterna - verso i giovani, una responsabilità che a volte
trascura o esercita male. Anch’essa spesso li lascia orfani e non propone loro
una verità di prospettiva. I giovani rimangono, così, orfani di strade sicure
da percorrere, orfani di maestri di cui fidarsi, orfani di ideali che
riscaldino il cuore, orfani di valori e di speranze che li sostengano quotidianamente.
Vengono riempiti magari di idoli ma si ruba loro il cuore; sono spinti a
sognare divertimenti e piaceri, ma non si dà loro il lavoro; vengono illusi col
dio denaro, e negate loro le vere ricchezze.
E allora farà bene a tutti, ai padri e ai figli,
riascoltare la promessa che Gesù ha fatto ai suoi discepoli: «Non vi lascerò
orfani» (Gv 14,18). E’ Lui, infatti, la Via da percorrere, il Maestro da
ascoltare, la Speranza che il mondo può cambiare, che l’amore vince l’odio, che
può esserci un futuro di fraternità e di pace per tutti. Qualcuno di voi potrà
dirmi: “Ma Padre, oggi Lei è stato troppo negativo. Ha parlato soltanto
dell’assenza dei padri, cosa accade quando i padri non sono vicini ai figli… È
vero, ho voluto sottolineare questo, perché mercoledì prossimo proseguirò
questa catechesi mettendo in luce la bellezza della paternità. Per questo ho
scelto di cominciare dal buio per arrivare alla luce. Che il Signore ci aiuti a
capire bene queste cose. Grazie.
La Famiglia - 3Bis
Padre (II)
Cari fratelli e sorelle,
buongiorno!
Oggi vorrei svolgere la seconda parte della riflessione sulla figura del
padre nella famiglia. La volta scorsa ho parlato del pericolo
dei padri “assenti”, oggi voglio guardare piuttosto all’aspetto positivo. Anche
san Giuseppe fu tentato di lasciare Maria, quando scoprì che era incinta; ma
intervenne l’angelo del Signore che gli rivelò il disegno di Dio e la sua
missione di padre putativo; e Giuseppe, uomo giusto, «prese con sé la sua
sposa» (Mt 1,24) e divenne il
padre della famiglia di Nazaret.
Ogni famiglia ha bisogno del padre. Oggi ci soffermiamo sul valore del suo
ruolo, e vorrei partire da alcune espressioni che si trovano nel Libro dei
Proverbi, parole che un padre rivolge al proprio figlio, e dice così: «Figlio
mio, se il tuo cuore sarà saggio, anche il mio sarà colmo di gioia. Esulterò
dentro di me, quando le tue labbra diranno parole rette» (Pr 23,15-16). Non si potrebbe esprimere meglio l’orgoglio
e la commozione di un padre che riconosce di avere trasmesso al figlio quel che
conta davvero nella vita, ossia un cuore saggio. Questo padre non dice: “Sono
fiero di te perché sei proprio uguale a me, perché ripeti le cose che dico e
che faccio io”. No, non gli dice semplicemente qualcosa. Gli dice
qualcosa di ben più importante, che potremmo interpretare così: “Sarò felice
ogni volta che ti vedrò agire con saggezza, e sarò commosso ogni volta che ti
sentirò parlare con rettitudine. Questo è ciò che ho voluto lasciarti, perché
diventasse una cosa tua: l’attitudine a sentire e agire, a parlare e giudicare
con saggezza e rettitudine. E perché tu potessi essere così, ti ho insegnato
cose che non sapevi, ho corretto errori che non vedevi. Ti ho fatto sentire un
affetto profondo e insieme discreto, che forse non hai riconosciuto pienamente quando
eri giovane e incerto. Ti ho dato una testimonianza di rigore e di fermezza che
forse non capivi, quando avresti voluto soltanto complicità e protezione. Ho
dovuto io stesso, per primo, mettermi alla prova della saggezza del cuore, e
vigilare sugli eccessi del sentimento e del risentimento, per portare il peso
delle inevitabili incomprensioni e trovare le parole giuste per farmi capire.
Adesso – continua il padre -, quando vedo che tu cerchi di essere così con i
tuoi figli, e con tutti, mi commuovo. Sono felice di essere tuo padre”. È così
ciò che dice un padre saggio, un padre maturo.
Un padre sa bene quanto costa trasmettere questa eredità: quanta vicinanza,
quanta dolcezza e quanta fermezza. Però, quale consolazione e quale ricompensa
si riceve, quando i figli rendono onore a questa eredità! E’ una gioia che
riscatta ogni fatica, che supera ogni incomprensione e guarisce ogni ferita.
La prima necessità, dunque, è proprio questa: che il padre sia presente nella famiglia. Che sia vicino alla moglie, per
condividere tutto, gioie e dolori, fatiche e speranze. E che sia vicino ai
figli nella loro crescita: quando giocano e quando si impegnano, quando sono
spensierati e quando sono angosciati, quando si esprimono e quando sono
taciturni, quando osano e quando hanno paura, quando fanno un passo sbagliato e
quando ritrovano la strada; padre presente, sempre. Dire presente non è lo
stesso che dire controllore! Perché i padri troppo controllori annullano i
figli, non li lasciano crescere.
Il Vangelo ci parla dell’esemplarità del Padre che sta nei cieli – il solo,
dice Gesù, che può essere chiamato veramente “Padre buono” (cfr Mc 10,18). Tutti conoscono quella straordinaria parabola chiamata del “figlio
prodigo”, o meglio del “padre misericordioso”, che si trova nel Vangelo di Luca
al capitolo 15 (cfr 15,11-32). Quanta dignità e quanta tenerezza nell’attesa di
quel padre che sta sulla porta di casa aspettando che il figlio ritorni! I
padri devono essere pazienti. Tante volte non c’è altra cosa da fare che
aspettare; pregare e aspettare con pazienza, dolcezza, magnanimità,
misericordia.
Un buon padre sa attendere e sa perdonare, dal profondo del cuore. Certo, sa anche correggere con fermezza: non è un
padre debole, arrendevole, sentimentale. Il padre che sa correggere senza avvilire è lo stesso che sa
proteggere senza risparmiarsi. Una volta ho sentito in una riunione di
matrimonio un papà dire: “Io alcune volte devo picchiare un po’ i figli … ma
mai in faccia per non avvilirli”. Che bello! Ha senso della dignità. Deve
punire, lo fa in modo giusto, e va avanti.
Se dunque c’è qualcuno che può spiegare fino in fondo la preghiera del
“Padre nostro”, insegnata da Gesù, questi è proprio chi vive in prima persona
la paternità. Senza la grazia che viene dal Padre che sta nei cieli, i padri
perdono coraggio, e abbandonano il campo. Ma i figli hanno bisogno di trovare
un padre che li aspetta quando ritornano dai loro fallimenti. Faranno di tutto
per non ammetterlo, per non darlo a vedere, ma ne hanno bisogno; e il non
trovarlo apre in loro ferite difficili da rimarginare.
La Chiesa, nostra madre, è impegnata a sostenere con tutte le sue forze la
presenza buona e generosa dei padri nelle famiglie, perché essi sono per le
nuove generazioni custodi e mediatori insostituibili della fede nella bontà,
della fede nella giustizia e nella protezione di Dio, come san Giuseppe.
La Famiglia - 4. I
Figli
Cari fratelli e
sorelle, buongiorno!
Dopo aver riflettuto sulle figure della madre e del padre,
in questa catechesi sulla famiglia vorrei parlare del figlio o, meglio, dei
figli. Prendo spunto da una bella immagine di Isaia. Scrive il profeta: «I tuoi
figli si sono radunati, vengono a te. I tuoi figli vengono da lontano, le tue
figlie sono portate in braccio. Allora guarderai e sarai raggiante, palpiterà e
si dilaterà il tuo cuore» (60,4-5a). E’ una splendida immagine, un’immagine
della felicità che si realizza nel ricongiungimento tra i genitori e i figli,
che camminano insieme verso un futuro di libertà e di pace, dopo un lungo tempo
di privazioni e di separazione, quando il popolo ebraico si trovava lontano
dalla patria.
In effetti, c’è uno stretto legame fra la speranza di un
popolo e l’armonia fra le generazioni. Questo dobbiamo pensarlo bene. C’è un
legame stretto fra la speranza di un popolo e l’armonia fra le generazioni. La
gioia dei figli fa palpitare i cuori dei genitori e riapre il futuro. I figli
sono la gioia della famiglia e della società. Non sono un problema di biologia
riproduttiva, né uno dei tanti modi di realizzarsi. E tanto meno sono un
possesso dei genitori… No. I figli sono un dono, sono un regalo: capito? I
figli sono un dono. Ciascuno è unico e irripetibile; e al tempo stesso
inconfondibilmente legato alle sue radici. Essere figlio e figlia, infatti,
secondo il disegno di Dio, significa portare in sé la memoria e la speranza di
un amore che ha realizzato se stesso proprio accendendo la vita di un altro
essere umano, originale e nuovo. E per i genitori ogni figlio è se stesso, è
differente, è diverso. Permettetemi un ricordo di famiglia. Io ricordo mia
mamma, diceva di noi – eravamo cinque -: “Ma io ho cinque figli”. Quando le
chiedevano: ”Qual è il tuo preferito, lei rispondeva: “Io ho cinque figli, come
cinque dita. [Mostra le dita della mano] Se mi picchiano questo, mi fa male; se
mi picchiano quest’altro, mi fa male. Mi fanno male tutti e cinque. Tutti sono
figli miei, ma tutti differenti come le dita di una mano”. E così è la
famiglia! I figli sono differenti, ma tutti figli.
Un figlio lo si ama perché è figlio: non perché bello, o
perché è così o cosà; no, perché è figlio! Non perché la pensa come me, o
incarna i miei desideri. Un figlio è un figlio: una vita generata da noi ma
destinata a lui, al suo bene, al bene della famiglia, della società,
dell’umanità intera.
Di qui viene anche la profondità dell’esperienza umana
dell’essere figlio e figlia, che ci permette di scoprire la dimensione più
gratuita dell’amore, che non finisce mai di stupirci. E’ la bellezza di essere
amati prima: i figli sono amati prima che arrivino. Quante volte trovo le mamme
in piazza che mi fanno vedere la pancia e mi chiedono la benedizione … questi
bimbi sono amati prima di venire al mondo. E questa è gratuità, questo è amore;
sono amati prima della nascita, come l’amore di Dio che ci ama sempre prima.
Sono amati prima di aver fatto qualsiasi cosa per meritarlo, prima di saper
parlare o pensare, addirittura prima di venire al mondo! Essere figli è la
condizione fondamentale per conoscere l’amore di Dio, che è la fonte ultima di
questo autentico miracolo. Nell’anima di ogni figlio, per quanto vulnerabile,
Dio pone il sigillo di questo amore, che è alla base della sua dignità
personale, una dignità che niente e nessuno potrà distruggere.
Oggi sembra più difficile per i figli immaginare il loro
futuro. I padri – lo accennavo nelle precedenti catechesi – hanno forse fatto
un passo indietro e i figli sono diventati più incerti nel fare i loro passi
avanti. Possiamo imparare il buon rapporto fra le generazioni dal nostro Padre
celeste, che lascia libero ciascuno di noi ma non ci lascia mai soli. E se
sbagliamo, Lui continua a seguirci con pazienza senza diminuire il suo amore
per noi. Il Padre celeste non fa passi indietro nel suo amore per noi, mai! Va
sempre avanti e se non può andare avanti ci aspetta, ma non va mai indietro;
vuole che i suoi figli siano coraggiosi e facciano i loro passi avanti.
I figli, da parte loro, non devono aver paura dell’impegno
di costruire un mondo nuovo: è giusto per loro desiderare che sia migliore di
quello che hanno ricevuto! Ma questo va fatto senza arroganza, senza
presunzione. Dei figli bisogna saper riconoscere il valore, e ai genitori si
deve sempre rendere onore.
Il quarto comandamento chiede ai figli – e tutti lo siamo!
– di onorare il padre e la madre (cfr Es 20,12).
Questo comandamento viene subito dopo quelli che riguardano Dio stesso. Infatti
contiene qualcosa di sacro, qualcosa di divino, qualcosa che sta alla radice di
ogni altro genere di rispetto fra gli uomini. E nella formulazione biblica del
quarto comandamento si aggiunge: «perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese
che il Signore tuo Dio ti dà». Il legame virtuoso tra le generazioni è garanzia
di futuro, ed è garanzia di una storia davvero umana. Una società di figli che
non onorano i genitori è una società senza onore; quando non si onorano i
genitori si perde il proprio onore! È una società destinata a riempirsi di
giovani aridi e avidi. Però, anche una società avara di generazione, che non
ama circondarsi di figli, che li considera soprattutto una preoccupazione, un
peso, un rischio, è una società depressa. Pensiamo a tante società che
conosciamo qui in Europa: sono società depresse, perché non vogliono i figli,
non hanno i figli, il livello di nascita non arriva all’uno percento.
Perché? Ognuno di noi pensi e risponda. Se una famiglia generosa di figli viene
guardata come se fosse un peso, c’è qualcosa che non va! La generazione dei
figli dev’essere responsabile, come insegna anche l’Enciclica Humanae vitae del beato Papa Paolo
VI, ma avere più figli non può diventare automaticamente una scelta
irresponsabile. Non avere figli è una scelta egoistica. La vita ringiovanisce e
acquista energie moltiplicandosi: si arricchisce, non si impoverisce! I figli
imparano a farsi carico della loro famiglia, maturano nella condivisione dei
suoi sacrifici, crescono nell’apprezzamento dei suoi doni. L’esperienza lieta
della fraternità anima il rispetto e la cura dei genitori, ai quali è dovuta la
nostra riconoscenza. Tanti di voi qui presenti hanno figli e tutti siamo figli.
Facciamo una cosa, un minuto di silenzio. Ognuno di noi pensi nel suo cuore ai
propri figli – se ne ha -; pensi in silenzio. E tutti noi pensiamo ai
nostri genitori e ringraziamo Dio per il dono della vita. In silenzio, quelli
che hanno figli pensino a loro, e tutti pensiamo ai nostri genitori.
(Silenzio). Il Signore benedica i nostri genitori e benedica i vostri figli.
Gesù, il Figlio eterno, reso figlio nel tempo, ci aiuti a
trovare la strada di una nuova irradiazione di questa esperienza umana così
semplice e così grande che è l’essere figli. Nel moltiplicarsi della
generazione c’è un mistero di arricchimento della vita di tutti, che viene da
Dio stesso. Dobbiamo riscoprirlo, sfidando il pregiudizio; e viverlo, nella
fede, in perfetta letizia. E vi dico: quanto è bello quando io passo in mezzo a
voi e vedo i papà e le mamme che alzano i loro figli per essere benedetti;
questo è un gesto quasi divino. Grazie perché lo fate!
La Famiglia - 5. I
Fratelli
Cari fratelli e sorelle,
buongiorno.
Nel nostro cammino di catechesi sulla famiglia, dopo aver
considerato il ruolo della madre, del padre, dei figli, oggi è la volta deifratelli. “Fratello” e “sorella” sono
parole che il cristianesimo ama molto. E, grazie all’esperienza familiare, sono
parole che tutte le culture e tutte le epoche comprendono.
Il legame fraterno ha un posto speciale nella
storia del popolo di Dio, che riceve la sua
rivelazione nel vivo dell’esperienza umana. Il salmista canta la bellezza del
legame fraterno: «Ecco, com’è bello e com’è dolce che i fratelli vivano
insieme!» (Sal 132,1). E questo è vero, la
fratellanza è bella! Gesù Cristo ha portato alla sua pienezza anche questa
esperienza umana dell’essere fratelli e sorelle, assumendola nell’amore
trinitario e potenziandola così che vada ben oltre i legami di parentela e
possa superare ogni muro di estraneità.
Sappiamo che quando il rapporto fraterno si rovina,
quando si rovina il rapporto tra fratelli, si apre la strada ad esperienze
dolorose di conflitto, di tradimento, di odio. Il racconto biblico di Caino
e Abele costituisce l’esempio
di questo esito negativo. Dopo l’uccisione di Abele, Dio domanda a Caino:
«Dov’è Abele, tuo fratello?» (Gen 4,9a). E’ una domanda che il Signore
continua a ripetere in ogni generazione. E purtroppo, in ogni generazione, non
cessa di ripetersi anche la drammatica risposta di Caino: «Non lo so. Sono
forse io il custode di mio fratello?» (Gen 4,9b). La rottura del legame tra
fratelli è una cosa brutta e cattiva per l’umanità. Anche in famiglia, quanti
fratelli litigano per piccole cose, o per un’eredità, e poi non si parlano più,
non si salutano più. Questo è brutto! La fratellanza è una cosa grande, quando
si pensa che tutti i fratelli hanno abitato il grembo della stessa mamma
durante nove mesi, vengono dalla carne della mamma! E non si può rompere la
fratellanza. Pensiamo un po’: tutti conosciamo famiglie che hanno i fratelli
divisi, che hanno litigato; chiediamo al Signore per queste famiglie - forse
nella nostra famiglia ci sono alcuni casi - che le aiuti a riunire i fratelli,
a ricostituire la famiglia. La fratellanza non si deve rompere e quando si
rompe succede quanto è accaduto con Caino e Abele. Quando il Signore domanda a
Caino dov’era suo fratello, egli risponde: “Ma, io non so, a me non importa di
mio fratello”. Questo è brutto, è una cosa molto, molto dolorosa da sentire.
Nelle nostre preghiere sempre preghiamo per i fratelli che si sono divisi.
Il legame di fraternità che si forma in famiglia tra i figli, se avviene in un clima di
educazione all’apertura agli altri, è la grande scuola di libertà e di pace. In
famiglia, tra fratelli si impara la convivenza umana, come si deve convivere in
società. Forse non sempre ne siamo consapevoli, ma è proprio la famiglia che
introduce la fraternità nel mondo! A partire da questa prima esperienza di
fraternità, nutrita dagli affetti e dall’educazione familiare, lo stile della
fraternità si irradia come una promessa sull’intera società e sui rapporti tra
i popoli.
La benedizione che Dio, in Gesù Cristo, riversa su questo legame
di fraternità lo dilata in un modo inimmaginabile, rendendolo
capace di oltrepassare ogni differenza di nazione, di lingua, di cultura e
persino di religione.
Pensate che cosa diventa il legame fra gli uomini, anche
diversissimi fra loro, quando possono dire di un altro: “Questo è proprio come
un fratello, questa è proprio come una sorella per me”! E’ bello questo! La
storia ha mostrato a sufficienza, del resto, che anche la libertà e
l’uguaglianza, senza la fraternità, possono riempirsi di individualismo e di
conformismo, anche di interesse personale.
La fraternità in famiglia risplende in modo speciale quando
vediamo la premura, la pazienza, l’affetto di cui vengono circondati il
fratellino o la sorellina più deboli, malati, o portatori di handicap. I
fratelli e le sorelle che fanno questo sono moltissimi, in tutto il mondo, e
forse non apprezziamo abbastanza la loro generosità. E quando i fratelli sono
tanti in famiglia - oggi, ho salutato una famiglia, che ha nove figli?: il più
grande, o la più grande, aiuta il papà, la mamma, a curare i più piccoli. Ed è
bello questo lavoro di aiuto tra i fratelli.
Avere un fratello, una sorella che ti vuole bene è
un’esperienza forte, impagabile, insostituibile. Nello stesso modo accade per
lafraternità cristiana. I più
piccoli, i più deboli, i più poveri debbono intenerirci: hanno “diritto” di prenderci
l’anima e il cuore. Sì, essi sono nostri fratelli e come tali dobbiamo amarli e
trattarli. Quando questo accade, quando i poveri sono come di casa, la nostra
stessa fraternità cristiana riprende vita. I cristiani, infatti, vanno incontro
ai poveri e deboli non per obbedire ad un programma ideologico, ma perché la
parola e l’esempio del Signore ci dicono che tutti siamo fratelli. Questo è il
principio dell’amore di Dio e di ogni giustizia fra gli uomini. Vi suggerisco
una cosa: prima di finire, mi mancano poche righe, in silenzio ognuno di noi,
pensiamo ai nostri fratelli, alle nostre sorelle, e in silenzio dal cuore
preghiamo per loro. Un istante di silenzio.
Ecco, con questa preghiera li abbiamo portati tutti,
fratelli e sorelle, con il pensiero, con il cuore, qui in piazza per ricevere
la benedizione.
Oggi più che mai è necessario riportare la fraternità al
centro della nostra società tecnocratica e burocratica: allora anche la libertà
e l’uguaglianza prenderanno la loro giusta intonazione. Perciò, non priviamo a
cuor leggero le nostre famiglie, per soggezione o per paura, della bellezza di
un’ampia esperienza fraterna di figli e figlie. E non perdiamo la nostra
fiducia nell’ampiezza di orizzonte che la fede è capace di trarre da questa
esperienza, illuminata dalla benedizione di Dio.
http://w2.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2015/documents/papa-francesco_20150218_udienza-generale.html
La Famiglia - 6. I
Nonni (I)
Cari fratelli e
sorelle, buongiorno.
La catechesi di oggi e quella di mercoledì prossimo sono
dedicate agli anziani, che, nell’ambito della famiglia, sono i
nonni, gli zii. Oggi riflettiamo sulla problematica condizione attuale
degli anziani, e la prossima volta, cioè il prossimo mercoledì, più in
positivo, sulla vocazione contenuta in questa età della vita.
Grazie ai progressi della medicina la vita si è allungata:
ma la società non si è “allargata” alla vita! Il
numero degli anziani si è moltiplicato, ma le nostre società non si sono
organizzate abbastanza per fare posto a loro, con giusto rispetto e concreta
considerazione per la loro fragilità e la loro dignità. Finché siamo giovani,
siamo indotti a ignorare la vecchiaia, come se fosse una malattia da tenere
lontana; quando poi diventiamo anziani, specialmente se siamo poveri, se siamo
malati soli, sperimentiamo le lacune di una società programmata
sull’efficienza, che conseguentemente ignora gli anziani. E gli anziani sono
una ricchezza, non si possono ignorare.
Benedetto XVI, visitando una casa per anziani, usò parole
chiare e profetiche, diceva così: «La qualità di una società, vorrei dire di
una civiltà, si giudica anche da come gli anziani sono trattati e dal posto
loro riservato nel vivere comune» (12 novembre 2012). E’ vero, l’attenzione agli
anziani fa la differenza di una civiltà. In una civiltà c’è attenzione
all’anziano? C’è posto per l’anziano? Questa civiltà andrà avanti se saprà
rispettare la saggezza, la sapienza degli anziani. In una civiltà in cui non
c’è posto per gli anziani o sono scartati perché creano problemi, questa
società porta con sé il virus della morte.
In Occidente, gli studiosi presentano il secolo attuale
come il secolo dell’invecchiamento: i figli diminuiscono, i vecchi
aumentano. Questo sbilanciamento ci interpella, anzi, è una grande sfida per la
società contemporanea. Eppure una cultura del profitto insiste nel far apparire
i vecchi come un peso, una “zavorra”. Non solo non producono, pensa questa
cultura, ma sono un onere: insomma, qual è il risultato di pensare così? Vanno
scartati. E’ brutto vedere gli anziani scartati, è una cosa brutta, è peccato!
Non si osa dirlo apertamente, ma lo si fa! C’è qualcosa di vile in questa assuefazione
alla cultura dello scarto. Ma noi siamo abituati a scartare gente. Vogliamo
rimuovere la nostra accresciuta paura della debolezza e della vulnerabilità; ma
così facendo aumentiamo negli anziani l’angoscia di essere mal sopportati e
abbandonati.
Già nel mio ministero a Buenos Aires ho toccato con mano
questa realtà con i suoi problemi: «Gli anziani sono abbandonati, e non solo
nella precarietà materiale. Sono abbandonati nella egoistica incapacità di
accettare i loro limiti che riflettono i nostri limiti, nelle numerose
difficoltà che oggi debbono superare per sopravvivere in una civiltà che non
permette loro di partecipare, di dire la propria, né di essere referenti
secondo il modello consumistico del “soltanto i giovani possono essere utili e
possono godere”. Questi anziani dovrebbero invece essere, per tutta la società,
la riserva sapienziale del nostro popolo. Gli anziani sono la riserva
sapienziale del nostro popolo! Con quanta facilità si mette a dormire la
coscienza quando non c’è amore!» (Solo
l’amore ci può salvare, Città del Vaticano 2013, p. 83). E così succede. Io
ricordo, quando visitavo le case di riposo, parlavo con ognuno e tante volte ho
sentito questo: “Come sta lei? E i suoi figli? - Bene, bene - Quanti ne ha? –
Tanti. - E vengono a visitarla? - Sì, sì, sempre, sì, vengono. – Quando sono
venuti l’ultima volta?”. Ricordo un’anziana che mi diceva: “Mah, per Natale”.
Eravamo in agosto! Otto mesi senza essere visitati dai figli, otto mesi
abbandonata! Questo si chiama peccato mortale, capito? Una volta da bambino, la
nonna ci raccontava una storia di un nonno anziano che nel mangiare si sporcava
perché non poteva portare bene il cucchiaio con la minestra alla bocca. E il
figlio, ossia il papà della famiglia, aveva deciso di spostarlo dalla tavola
comune e ha fatto un tavolino in cucina, dove non si vedeva, perché mangiasse
da solo. E così non avrebbe fatto una brutta figura quando venivano gli amici a
pranzo o a cena. Pochi giorni dopo, arrivò a casa e trovò il suo figlio più
piccolo che giocava con il legno e il martello e i chiodi, faceva qualcosa lì,
disse: “Ma cosa fai? – Faccio un tavolo, papà. – Un tavolo, perché? – Per
averlo quando tu diventi anziano, così tu puoi mangiare lì”. I bambini hanno
più coscienza di noi!
Nella tradizione della Chiesa vi è un bagaglio
di sapienza che ha sempre
sostenuto una cultura di vicinanza agli anziani, una disposizione
all’accompagnamento affettuoso e solidale in questa parte finale della vita.
Tale tradizione è radicata nella Sacra Scrittura, come attestano ad esempio
queste espressioni del Libro del Siracide: «Non trascurare i discorsi dei
vecchi, perché anch’essi hanno imparato dai loro padri; da loro imparerai il
discernimento e come rispondere nel momento del bisogno» (Sir 8,9).
La Chiesa non può e non vuole conformarsi ad una mentalità
di insofferenza, e tanto meno di indifferenza e di disprezzo, nei confronti
della vecchiaia. Dobbiamo risvegliare il senso collettivo di gratitudine, di
apprezzamento, di ospitalità, che facciano sentire l’anziano parte viva della
sua comunità.
Gli anziani sono uomini e donne, padri e madri che sono
stati prima di noi sulla nostra stessa strada, nella nostra stessa casa, nella
nostra quotidiana battaglia per una vita degna. Sono uomini e donne dai quali
abbiamo ricevuto molto. L’anziano non è un alieno. L’anziano siamo noi: fra
poco, fra molto, inevitabilmente comunque, anche se non ci pensiamo. E se noi
non impariamo a trattare bene gli anziani, così tratteranno a noi.
Fragili siamo un po’ tutti, i vecchi. Alcuni, però, sono particolarmente
deboli, molti sono soli, e segnati dalla malattia. Alcuni dipendono da cure
indispensabili e dall’attenzione degli altri. Faremo per questo un passo
indietro?, li abbandoneremo al loro destino? Una società senza prossimità,
dove la gratuità e l’affetto
senza contropartita – anche fra estranei – vanno scomparendo, è una società
perversa. La Chiesa, fedele alla Parola di Dio, non può tollerare queste
degenerazioni. Una comunità cristiana in cui prossimità e gratuità non fossero
più considerate indispensabili, perderebbe con esse la sua anima. Dove non c’è
onore per gli anziani, non c’è futuro per i giovani.
INCONTRO DEL PAPA CON GLI ANZIANI
DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Piazza San Pietro
Domenica, 28 settembre 2014
Cari fratelli e sorelle,
buongiorno!
Vi ringrazio di essere venuti così numerosi! E grazie della festosa
accoglienza: oggi è la vostra festa, la nostra festa! Ringrazio Mons. Paglia e
tutti quelli che l’hanno preparata. Ringrazio specialmente il Papa Emerito
Benedetto XVI per la sua la presenza. Io ho detto tante volte che mi piaceva
tanto che lui abitasse qui in Vaticano, perché era come avere il nonno saggio a
casa. Grazie!
Ho ascoltato le testimonianze di alcuni di voi, che presentano esperienze
comuni a tanti anziani e nonni. Ma una era diversa: quella dei fratelli venuti
da Qaraqosh, scappati da una violenta persecuzione. A loro tutti insieme
diciamo un “grazie” speciale! E’ molto bello che siate venuti qui oggi: è un
dono per la Chiesa. E noi vi offriamo la nostra vicinanza, la nostra preghiera
e l’aiuto concreto. La violenza sugli anziani è disumana, come quella sui
bambini. Ma Dio non vi abbandona, è con voi! Con il suo aiuto voi siete e
continuerete ad essere memoria per il vostro popolo; e anche per noi, per la
grande famiglia della Chiesa. Grazie!
Questi fratelli ci testimoniano che anche nelle prove più difficili, gli
anziani che hanno fede sono come alberi che continuano a portare frutto. E
questo vale anche nelle situazioni più ordinarie, dove però ci possono essere
altre tentazioni, e altre forme di discriminazione. Ne abbiamo sentite alcune
dalle altre testimonianze.
La vecchiaia, in modo particolare, è un tempo di grazia, nel quale il
Signore ci rinnova la sua chiamata: ci chiama a custodire e trasmettere la
fede, ci chiama a pregare, specialmente a intercedere; ci chiama ad essere
vicino a chi ha bisogno… Gli anziani, i nonni hanno una capacità di capire le
situazioni più difficili: una grande capacità! E quando pregano per queste
situazioni, la loro preghiera è forte, è potente!
Ai nonni, che hanno ricevuto la benedizione di vedere i figli dei figli
(cfr Sal 128,6), è affidato un compito grande: trasmettere
l’esperienza della vita, la storia di una famiglia, di una comunità, di un
popolo; condividere con semplicità una saggezza, e la stessa fede: l’eredità
più preziosa! Beate quelle famiglie cha hanno i nonni vicini! Il nonno è padre
due volte e la nonna è madre due volte. In quei Paesi dove la persecuzione
religiosa è stata crudele, penso, per esempio, all’Albania, dove mi sono recato
domenica scorsa, in quei Paesi sono stati i nonni a portare i bambini a essere
battezzati di nascosto, a dare loro la fede. Bravi! Sono stati bravi nella
persecuzione e hanno salvato la fede in quei Paesi!
Ma non sempre l’anziano, il nonno, la nonna, ha una famiglia che può
accoglierlo. E allora ben vengano le case per gli anziani… purché siano
veramente case, e non prigioni! E siano per gli anziani, e non per gli
interessi di qualcuno altro! Non ci devono essere istituti dove gli anziani
vivono dimenticati, come nascosti, trascurati. Mi sento vicino ai tanti anziani
che vivono in questi Istituti, e penso con gratitudine a quanti li vanno a
visitare e si prendono cura di loro. Le case per anziani dovrebbero essere dei
“polmoni” di umanità in un paese, in un quartiere, in una parrocchia;
dovrebbero essere dei “santuari” di umanità dove chi è vecchio e debole viene
curato e custodito come un fratello o una sorella maggiore. Fa tanto bene
andare a trovare un anziano! Guardate i nostri ragazzi: a volte li vediamo
svogliati e tristi; vanno a trovare un anziano, e diventano gioiosi!
Però esiste anche la realtà dell’abbandono degli anziani: quante volte si
scartano gli anziani con atteggiamenti di abbandono che sono una vera e propria
eutanasia nascosta! E’ l’effetto di quella cultura dello scarto che fa molto
male al nostro mondo. Si scartano i bambini, si scartano i giovani, perché non
hanno lavoro, e si scartano gli anziani con la pretesa di mantenere un sistema
economico “equilibrato”, al centro del quale non vi è la persona umana, ma il
denaro. Siamo tutti chiamati a contrastare questa velenosa cultura dello
scarto!
Noi cristiani, insieme a tutti gli uomini di buona volontà, siamo chiamati
a costruire con pazienza una società diversa, più accogliente, più umana, più
inclusiva, che non ha bisogno di scartare chi è debole nel corpo e nella mente,
anzi, una società che misura il proprio “passo” proprio su queste persone.
Come cristiani e come cittadini, siamo chiamati a immaginare, con fantasia
e sapienza, le strade per affrontare questa sfida. Un popolo che non custodisce
i nonni e non li tratta bene è un popolo che non ha futuro! Perché non ha
futuro? Perché perde la memoria, e si strappa dalle proprie radici. Ma attenzione:
voi avete la responsabilità di tenere vive queste radici in voi stessi! Con la
preghiera, la lettura del Vangelo, le opere di misericordia. Così rimaniamo
come alberi vivi, che anche nella vecchiaia non smettono di portare frutto. Una
delle cose più belle della vita di famiglia, della nostra vita umana di
famiglia, è accarezzare un bambino e lasciarsi accarezzare da un nonno e da una
nonna. Grazie!
https://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2014/september/documents/papa-francesco_20140928_incontro-anziani.html