L'ESPERIMENTO DI SCHROEDINGER
"E' vivo oppure è morto?".
"Lo sai: sia
l'uno che l'altro".
"Non possiamo guardare?".
"Ma insomma
non ascoltate mai quando parlo? Dobbiamo lasciargli la sua libertà. Se
alzassimo il coperchio, tutto finirebbe".
"Quanto andrà avanti? Mi sono stufato di
aspettare".
"Non
possiamo barare. Avete scommesso".
"E se scendessimo a dare un'occhiata?"
"Resteremmo
anche noi imprigionati nella gabbia".
"Gabbia? Ma non avevi detto che erano liberi?"
"Certo che sono liberi: possono incatenarsi
solo alle loro illusioni".
"Esatto. Se
non riusciranno a superare la prima barriera, rimarrano confinati nello spazio
tridimensionale".
"Non sono stati forse programmati per superare
ogni ostacolo?".
"Certo.
Tutti gli ostacoli naturali possono essere superati".
* * *
La nebbia e i
suoni svanirono lentamente ed una enorme faccia rossa oscurò il suo orizzonte.
Una escrescenza tozza e deforme si agitava davanti ai suoi occhi mentre grida
spezzate ed indecifrabili saturavano il suo udito. Tutto si sdoppiò poi divenne
verde e i contorni si confusero in una macchia vivida. Si sentì sollevare da
due arti caldi ed umidi e l'azzurrò cancello ogni sensazione. Chiuse gli occhi
per paura di vedere con chiarezza cosa gli stesse accadendo. Si aspettava di
morire da un momento all'altro: il terrore era così forte da lasciarlo del
tutto indifferente. Il futuro era comunque orrore, qualunque cosa accadesse.
Non riusciva più a muovere le braccia e le gambe non esistevano più per i suoi
nervi. La testa ciondolava abbandonata e fu estremamente contento di poter
ancora controllare le palpebre e le labbra. Non provò a parlare, ma si limitò
ad aprire e chiudere più volte la bocca. Gli sembrava di nuotare in un liquido tiepido
e lieve, sul quale galleggiava con facilità. Cercò di sorridere, ma fu di nuovo
preso da quel bruciante dolore allo stomaco. Tutto ridivenne nero e freddo.
* * *
La luce invase la
stanza. Spontanamente strizzò gli occhi per difendersi da quell'invasione. Fu
molto sopreso nell'udire una voce di donna che lo chiamava:
"Capitano.
Capitano Schroeder. E' guarito. Può aprire gli occhi".
Dapprima
sfuocato, poi a mano a mano più nitido un viso gentile apparve nell'acciecante
distesa bianca. I capelli erano neri come gli occhi. Sì, erano proprio gli
occhi. Due. La Terra?
"Capitano.
E' tutto finito. E' a casa ora".
Casa. Esisteva
forse una casa per uno scienziato spaziale? E di chi era quella voce così bassa
e squamosa? Richiuse gli occhi e si azzardò a girare il capo verso la nuova
sorgente sonora.
"Non abbia
paura. Siamo noi", disse la medesima voce e Schroeder gli puntò di scatto
lo sguardo addosso. Era la Terra. Riconosceva la divisa, anche se al di sopra
di quella macchia marrone non riusciva a
distinguere i lineamenti dell'uomo.
"L'hanno
trovata in fin di vita, in pieno deserto. Ma ce l'ha fatta. La missione è
riuscita. Abbiamo le loro voci. Oh, capitano, è stato grande. Ora sappiamo
tutto. Siamo stati capaci di imprigionare il suono dei quark".
I quark. Si
riferiva agli alieni o alle particelle subatomiche? Per quale ragione tutti i
suoi uomini erano morti? C'era dunque un senso, uno scopo per quella missione
folle, che lui stesso aveva voluto? Respirava lentamente. Senza muovere la
testa si guardò le mani, che giacevano immobili sulle lenzuola accanto a lui.
Provò a muovere l'indice destro che si spostò con grande fatica. Poi il
mignolo. Poi il pollice dell'altra mano. Rispondevano. Deglutì. Gli parve di
sentire di nuovo quella strana conversazione.
"Gabbia? Ma non avevi detto che erano liberi?"
"Certo che sono liberi: possono incatenarsi
solo alle loro illusioni".
Tutto il vuoto
gli si riversò fuori dall'anima in una frazione di secondo e ricomiciò a
parlare.
"Che cosa è
successo?"
L'uomo sorrise.
L'infermiera si volse di scatto ed uscì in fretta dalla stanza.
"Ben tornato
tra noi, capitano".
"Che cosa è
successo?", chiese di nuovo, con un astio così tagliente che lui stesso ne
rimase stupito.
"Un guasto
al generatore. Siete rimasti intrappolati nel deserto, in una valletta così
stretta da sembrare una gabbia. La radio ha lanciato un solo segnale poi è
scoppiata, per via del grande caldo. Siamo arrivati prima che abbiamo potuto.
Lei era il solo sopravvissuto".
Non provò dolore,
neppure odio. Lo assalì invece un gusto strano in bocca che pian piano si
sciolse e si trasformò in qualcosa di simile alla compassione, non però acre o
angosciata, ma piuttosto serena.
"L'astronave
l'ha subito riportata qui, sulla Terra. L'asteroide è stato abbandonato
definitivamente".
"Che ne è
stato delle registrazioni?".
"Sono state
decodificate. E' stato un successo. La teoria di Borner si è rivelata esatta:
nel fruscio del Big Bang si possono sentire delle voci, tenui e allungate,
sembra un canto. Sono della medesima frequenza delle oscillazioni dei leptoni e
dei quark. Abbiamo catturato la voce della materia".
Schroeder si
voltò verso la finestra, la luce gli sembrava attenuata o forse erano solo i
suoi occhi che si erano abituati alla luminosità. Tutto oscilla, tutto può
accadere, nulla esiste di stabile: quando mai la scienza aveva definito con più
precisione la vita degli esseri umani? Si sentiva come un fotone, era ovunque
eppure in nessun luogo, perché la traiettoria della sua vita era stata all'improvviso
deviata da qualcosa che di sicuro non era umano. Che era successo
sull'asteroide, dopo che l'ultimo dei suoi uomini si era trasformato in pelle
secca e prima che l'unità di soccorso lo trovasse? Quale nuovo campo aveva
steso le sue leggi su di lui e lo aveva saturato donandogli una frazione di
verità? Non poteva parlarne con loro, non avrebbero mai capito.
"Devo
riposare", disse.
"Certo.
Verrò a trovarla regolarmente. Tutto è cambiato da quando lei ha fatto ritorno.
Il Presidente in persona è ansioso di incontrarla".
Schroeder fece
solo un cenno, poi con un sospiro chiuse gli occhi e si riaddormentò di colpo.
* * *
Si reggeva in
piedi già da alcuni giorni. Gli piaceva scendere lentamente le scale di pietra
fino al giardino. L'aria era tiepida e profumata, il sole non gli era più
ostile. Sedeva sulla poltrona di vimini proprio davanti alla grande quercia e
se ne stava lì a fissarla per ore come se fosse un'intricata funzione
matematica. Il Presidente era già stato da lui: si era congratulato, lo aveva
invitato a pranzo, non appena si fosse rimesso del tutto, gli aveva consegnato
una medaglia. Gli era apparso a dire il vero un po' a disagio, come se fosse
l'attore principale di una recita che non voleva. Tutta la cerimonia, per
quanto vi avesse preso parte molto distrattamente, come se anche lui fosse uno dei comprimari obbligati
e non l'eroe, gli era sembrata metallica, robotica, falsa in un certo senso.
Questo pensiero gli aveva attraversato la mente per una frazione di secondo.
Non ci aveva badato. Aveva cercato di rispondere a tono alle battute del
Presidente e quando questi l'aveva salutato di nuovo con calore, ma non quello
di una luce rossa, piuttosto di una sorgente blu, fredda, liscia, lui aveva
sorriso: la sua mente era altrove. Ora stava seduto, fissava con attenzione un
ramo della pianta secolare.
"La foglia,
che io ora sto guardando, proprio quella stessa foglia verde che si agita al
vento, e che ho visto anche ieri ed il giorno prima, questa foglia che sta appesa
al ramo e tramite il ramo fa parte di questa quercia, più vecchia non solo di
me, del Presidente, di questa villa, ma di tutto l'Impero, forse, questa stessa
foglia non esiste. Non può esistere: la materia non è altro che possibilità che
la natura vibratoria del campo collassi a seguito di una osservazione. Ma io
non ho mai osservato questa foglia prima di tre giorni fa. E di notte dormo. E
se dormo non la osservo. Non solo io. Nessun altro. Tutti dormono la notte.
Anche i guardiani. Fanno finta di stare svegli, ma chinano il capo sulla
superficie brunita del tavolo in finto legno, non si curano più dello schermo e
chiudono gli occhi. Dormono. Ma la foglia è qui. Il campo vibra, eppure la
foglia è qui. Le voci lo dicevano. Tutto è osservato. Noi siamo gli
Osservatori. Senza di noi non esiste l'essere. Le voci dei quark. Tutto vibra.
Una particella non esiste in se stessa, ma solo negli effetti che genera.
Questa è la scienza. Me l'hanno insegnato in quinta. Avevo dodici anni. Da
allora lo so. Nulla è cambiato da allora. La materia ci sfugge. Quando stai per
afferrarla, ti svanisce tra le mani diventando un'onda. La missione l'ha
confermato. La solidità è un'illusione. La menzogna di questa foglia contro le
certezze della scienza. Proprio io, io che volevo guidare questa missione più
di ogni cosa al mondo, io stesso, che trascorrevo le notti in laboratorio,
accanto ai visori ed ai pannelli digitali, ed sui pannelli digitali le cifre
scorrevano come pioggia per non fermarsi mai, e nel laboratorio non si udiva
nessun altro rumore se non il ronzio del condizionatore, io sono qui ad
osservare una foglia che, senza allegria, mi sta distruggendo. Quelle
registrazioni sono vere: non devo dar retta a quello che mi hanno detto. Le
loro conclusioni sono diametralmente opposte alle mie: quali voci dei quark,
quali vibrazioni del Big Bang. Sono doglie, sono le voci degli osservatori: le
onde cantano e non hanno bisogno di nulla, si sorreggono a vicenda, ci
sorreggono, eppure questa foglia si ostina a negarlo. Ed io so perché".
"E' lei il
famoso capitano Schroeder?".
La voce arrivava
da ore otto. Il capitano giudicò dall'inflessione che non valesse la pena di
voltarsi. L'altro gli girò attorno e restò in piedi davanti a lui. Schroeder
alzò appena gli occhi. Il vecchio gli sorrise, e ripetè la domanda:
"E' lei il
famoso capitano Schroeder?".
Lui annuì senza
entusiasmo. Il vecchio si sedette sulla poltrona accanto alla sua.
"Desideravo
molto conoscerla. Ho sempre seguito i suoi studi. Sono contento che sia
ritornato sulla Terra. Vivo. I risultati della sua missione sono
straordinari".
Schroeder non
interruppe il silenzio che seguì. Rimaneva immobile. L'altro si sporse verso di
lui come per continuare, poi scosse la testa, si riappoggiò allo schienale.
"Capisco il
suo atteggiamento. Rimasi anch'io così stordito la prima volta che sentii le
voci".
Il capitano si
volse di scatto.
"Le voci?
Lei sa che ho udito le voci? Anche lei? Com'è possibile?".
Il vecchio
sorrise di nuovo.
"Anch'io ho
udito le voci, tanto tempo fa".
"Quali voci?
Come fa lei a conoscere i risultati della mia ricerca? Nessuno sa esattamente
quello che...".
"Quello che
lei ha sentito? Quello che lei ha provato? Certo, ha ragione. Il rapporto non
ne fa menzione. Lo hanno annunciato alla televisione. Nessuno ha parlato di
voci, ma di suoni di frequenza innaturale, la traccia dell'esplosione
primordiale e dei quark che allora si sono formati. Vedo che si agita, non è
questa la sua interpretazione del fenomeno. Io so esattamente cosa ha provato,
lassù nel deserto".
"Come può
lei..? E poi, forse hanno ragione loro. Ero svenuto, il caldo mi stava
uccidendo, posso essermi sbagliato...".
"Lei stesso
non crede a questa versione. Non deve aver paura. Non di me di sicuro".
"Chi è lei?
E come si permette di mettere in dubbio quello che io...".
"Quello che
lei sostiene? Che cosa le è successo dunque? Ha sentito le voci oppure è stato
solo il frutto di uno stordimento dovuto allo stato in cui si trovava?".
"Le voci...
ma come può lei credere? Quello che mi è successo lo so soltanto io. Quello che
ho detto ho detto".
"Così le è
successo. Invece è convinto di... Lo fui anch'io, all'inizio, incredulo
dapprima, poi sempre più fermo nella mia convinzione. Successe quand'ero
giovane. Stavo indagando sull'origine dell'universo. Volli spingermi oltre il
muro di Plank. Ero testardo, allora. Mi sembrava impossibile che la ragione non
potesse scavalcare quel dannato ostacolo. Dieci alla meno 43 secondi dopo
l'inizio del Big Bang: capisce cosa vuol dire? Una frazione di tempo così
infinitesimale che.... Eppure al di là di quella soglia nessuno si era mai
spinto. Nessuno era mai riuscito a capire cosa fosse successo nell'istante
zero, che cosa ci fosse prima e cosa avesse innescato il processo creativo. Le
equazioni stesse sembravano esplodere tra le mani, le funzioni si sfarinavano,
spargendosi per tutto lo spazio quadridimensionale. Trascorrevo le notti al
centro di calcolo, temevo che l'intuizione decisiva mi cogliesse lontano
dall'elaboratore. Avevo paura di perderla, capisce? Come se fosse possibile
sfuggire loro... Ricordo esattamente la scena: reggevo in mano un bicchiere,
fissavo un albero fuori dalla finestra. Il cielo era terso, proprio come oggi:
c'era vento. Le foglie si agitavano. Rimasi, non so perché affascinato, forse
addirittura ipnotizzato. Mi parve che la mia vista si acuisse e penetrai
nell'intimo della materia: tutto fu chiaro all'improvviso. Ricordo che il
bicchiere mi si ruppe in mano e mi ferì. Nulla di grave, solo un taglietto
superficiale che però sanguinava in abbondanza. Nulla poteva fermarmi. Corsi in
laboratorio. Mi gettai sulla tastiera. I miei occhi erano come paralizzati,
fermi su quell'immagine che persisteva dinnanzi a me come una musica di
sottofondo. Infransi il limite, gettai uno sguardo pieno e voglioso: fui travolto
dalla vertigine. Vidi la struttura stessa dello spazio sciogliersi e trubinare
verso di me come neve per poi tuffarsi dentro un cono gravitazionale talmente
intenso che il tempo stesso ricadeva su se stesso, il futuro collassava nel
passato e tutto si ripeteva in una sequenza di istanti lunghi come l'eternità.
Poi udìì le voci. Sì, perché all'origine di tutto, nel centro stesso di ogni
cosa, nel fulcro di quello scorrere di frammenti di tempo, che ancora non erano
il tempo, c'era il canto. Uno solo. Poi una gamma di suoni e timbri. Mi
ritrassi impaurito. Tremavo. La tastiera del terminale era sporca di sangue. I
tasti bianchi erano lordi di rosso vivo, quasi acceso. Anche le mie mani erano
bagnate di sangue. Mi portarono via. Per più di un mese non parlai. Non ce ne
era bisogno. Nulla di quello che mi circondava aveva più senso. Vivevo in una
sorta di paralisi metafisica: ero stato intinto nella verità, ne avevo perduto
il senso, mi era rimasta solo la superbia".
"Si sentiva
come un sopravvissutto, un naufrago che fa ritorno nel suo mondo e lo scopre
diverso. Anzi, si accorge di vederlo per la prima volta. E così?".
Il vecchio
sorrise:
"Sì. E'
così. Tutti erano rinchiusi dentro una enrome gabbia ed io solo ne ero fuori.
Quello che è peggio non provavo nessuna compassione. Solo un'altezzosa
mestizia, l'arroganza di sentirsi prescelto e non poter dividere nulla con
nessuno".
Schroeder si mise
a piangere, silenziosamente. Il vecchio stese un braccio e gli cinse le spalle.
"E' solo
l'inizio. Le voci non abbandonano mai".
"Ma chi
sono? Chi mi sta tormentando in questo modo cinico e raffinato? Me lo dica lei
che le ha incontrate? Da quando sono tornato mi pare di vederle, badi bene
vederle, non udirle, ovunque!".
"Deve
scoprirlo da solo, io non posso aiutarla", rispose l'altro alzandosi.
"Se ne va di
già?".
"Devo".
"Tornerà?".
"Sempre".
"Domani?"
"Alla stessa
ora".
* * *
La stanza era
immersa nel buio. Il silenzio lo racchiudeva come un bozzolo protettivo. Il suo
corpo era immobile. Con gli occhi chiusi stava ripassando la sua teoria. Il
sonno lo sfiorava appena, come un'onda leggera che bagni i piedi per poi
ritrarsi svelta e ritornare subito dopo, a volte più forte, altre appena
pizzicando la pelle.
"Le
particelle stabili sono solo quattro: protone, elettrone, fotone e neutrone. Ma
che cosa le costituisce? C'è una fine? O la corsa verso la roccia che
costituisce la materia non può avere mai una fine? Quali vele deve issare la
mia navicella per superare questo mare? I quark sono la risposta. Ci credo. Io
ci credo. Io stesso ho elaborato questa teoria e mi ci sono voluti anni ed anni
di fatiche, di stordimenti. Mi sono tuffato nel cuore della materia e sono
riemerso con la soluzione. Eppure il quark mi sfugge, proprio mentre credo di
averlo afferrato, si dissolve in onda. Com'è possibile imprigionare il vento?
Siamo davvero composti da vuoto e vibrazioni? Perché le vibrazioni si
trasformano in materia solida? La ricerca delle particelle fondamentali
proclama che tre sono i costituenti di tutto l'universo: elettrone, quark U e
quark D. Un campo è una porzione di spazio nel quale valgono le leggi associate
al campo dato. Una particella non esiste se non attraverso gli effetti che essa
provoca. Un campo non possiede sostanza se non vibratoria. Vibro, quindi sono.
Io sono. Se sono io, non posso essere un altro. Ma se un'onda non esiste
materialmente, ma è il fascio delle infinite possibilità che si determinano
solo all'ultimo istante, io sono io, ma potrei essere chiunque altro. Sono io,
sdraiato su questo letto, in questa stanza buia e silenziosa, piano sesto,
corsia terza, numero 43, in quest'ospedale alla periferia di Washington D.C.,
sono io, che ho viaggiato nello spazio, che sono sbarcato sull'asteroide
denominato ZKR 57, nel sistema della Galassia FHP 135, io sdraiato su questo
letto, ho camminato sulla sabbia di quel deserto ed ho registrato le voci che
provenivano dall'abisso del Big Bang, io, che adesso penso e non capisco più
cosa ho fatto, né perché e mi sembra di essere stato molti nella mia vita e
forse questi molti non erano me perché nessuno mi osservava ed io mutavo e
nella notte, nel buio della notte, ridiventavo un'onda confusa con i sogni e
quando sorgeva il sole tutto non era nient'altro che sogno ed io, sdraiato su
questo letto, in questo ospedale, bianca escrescenza nel mezzo di un parco
uguale a se stesso da secoli, io domani non sarò più io, ma un'altra
possibilità, perché tutti noi siamo possibilità e non sostanza e mai tutte le
possibiità si trasformano in sostanze e queste possibilità, racchiuse in questo
corpo sdraiato in questo letto, diventeranno sostanza se non in minima parte,
io sono io, sono io, io sono....".
Nell'attimo, in
cui il corpo dorme già e si scollega dalla realtà nel quale è rinchiuso, ma la
mente è libera, finalmente liberata dall'opprimente peso delle sensazioni, di
scivolare ed aderire a tutto, Schroeder udì nuovamente le voci.
"Un'onda va,
un' onda viene e tutto scorre verso il mare".
"L'ascia squadra la pietra e la forbice
recide la nebbia".
"Che cosa c'entra tutto questo con l'esperimento?".
"Quale
esperimento?".
"Non c'è esperimento che valga la vita di un
uomo".
"Insomma, vi state prendendo gioco di me?".
"Adesso è
vivo. Adesso è morto. Non c'è esperimento. Tutto è libertà".
"Capisci adesso?".
"Non ne sono sicuro".
"Nulla è
certo se non ciò che è certo".
"Non è un gioco di parole, ma le parole di un
gioco. Un gioco libero, per chi vuole liberamente giocare con la vita".
"Tutto è vita e nulla è morte".
"Un'onda va,
un'onda viene eppure il mare non è mai pieno".
"C'è sempre spazio per la vita".
"C'è sempre un senso per la vita".
"Ma dov'è
nascosto questo senso?", pensava Schroeder, "se ciò che io sono non
sarò domani? Chi sono io? Quale funzione matematica potrà mai esprimere la vita
di Ronald Amos Peter Schroeder, nato a Milwaukee, quarantadue anni fa, capitano
astronauta dell'Impero e scienziato, fine scienziato, uno scienziato come mai
sono nati in questo secolo e in questo pianeta. Ecco cosa sono io: io sono
quello che sono stato, l'onda quantica già rappresa nella mia realtà passata.
Ma l'onda non può essere ricevuta se nulla è sintonizzato. E se anche ci fosse
qualche ricevitore sintonizzato, ma su una lunghezza diversa, l'onda andrebbe
alla deriva negli spazi eterni. E se anche il ricevitore fosse sintonizzato
sulla giusta lunghezza d'onda, ma nessuno avesse tempo o voglia di ascoltarne
la voce, tutto andrebbe perduto. La mia vita dipende da questo: se ci sia o no
nel mondo qualcuno che ha voglia, ha piacere direi, di sintonizzarsi sulla mia
lunghezza d'onda ed ascoltare il mio fruscio. Cosa sono io: un canto forse? Od
una proprietà della materia? E che distanza c'è tra materia e spirito? Non è
forse l'onda stessa già spirito, anche se ancora materia?".
Poi, il sonno
risalì come la marea fino alla sua gola e Schroeder affondò nei flutti di un
riposo profondo e sereno.
* * *
"Se solo si
potesse racchiudere una porzione di vita in una enorme scatola oscura, lontano
da ogni possibile osservatore, cosa crede che succederebbe al suo interno? La
realtà forse si scioglierebbe in una impalpabile sequenza di eventi possibili,
nel futuro o nel passato?", chiese Schroeder al vecchio, mentre
passeggiavano per il parco dell'ospedale.
"Secondo le
leggi della meccanica quantistica e il principio di indeterminazione di
Heisenberg.... non lo so, non lo so più".
"E se la
realtà fondesse per generare un flusso vibratorio, un campo metafisico nel
quale ogni possibilità ha lo stesso diritto di venire generata, che ne sarebbe
dell'uomo? Quale potrebbe essere la base dell'essere?"
Il vecchio non
rispose subito, scosse la testa, fece qualche passo e si volse verso Schroeder.
"Stiamo
discutendo di qualcosa che precede la scienza stessa".
"Nulla può
precedere la scienza, nulla può essere più essenziale della conoscenza".
"Il punto è
proprio questo: che cos'è la conoscenza?".
"Il possesso
della verità".
"E che cos'è
la verità?".
Schroeder si
arrestò, guardò l'altro negli occhi con uno sguardo duro. Sembrava che il suo
viso si fosse rinsecchito di colpo, le rughe sulla fornte si erano inspessite e
il labbro inferiore gli tremava leggeremente; rimaneva immobile, ma più che
confuso appariva concentrato in una ricerca interiore, quasi una lotta, che lo
allontanasse da lì con la mente, ma non con il corpo.
Passarono alcuni
minuti senza che nulla accadesse: il vecchio sorrideva sempre, Schroeder
sembrava spento, come un automa al quale viene comandato di disinserirsi. Poi
si udì un boato, ed il cielo si scurì improvvisamente. Lunghe striature nere si
allungarono tra le nuvole metalliche ed una pioggia appuntita e gelata cominciò
a cadere.
"Via di qui,
presto!", urlò il vecchio, prendendo per mano Schroeder che sembrava
ancora in stato di ipnosi.
"Potrebbe
essere pericoloso. Gli uragani qui sono tanto rapidi quanto violenti. Non è
prudente farsi sorprendere all'aperto, senza un riparo".
"Non mi
importa più di nulla", rispose il capitano divincolandosi dalla presa del
vecchio.
"Passerà
anche questo. Mi dia retta, venga con me. Andiamo al sicuro. Si può anche
morire qui fuori".
"Lo faccio
solo perché mi fido di lei", disse Schroeder mettendosi a correre. Non
erano molto distanti dalla costruzione ed in poco tempo raggiunsero l'entrata
principale.
"Faccia
attenzione agli scalini. Ecco siamo arrivati".
"Perchè fa
questo per me?", chiese Schroeder al vecchio.
"Lo farei
per chiunque".
"Nulla a che
vedere con le voci?".
"In un certo
senso sì, ma non per quanto la riguarda".
"Ho
conosciuto molti uomini: nessuno era come lei".
"C'è forse
qualche uomo che è uguale ad un altro?".
"Lei si
prende gioco di me: ha capito perfettamente quello che intendevo dire. Ho
viaggiato molto. Il sistema solare e anche oltre. Ho visto creature aliene, a
volte ne ho anche uccise. Sono uno scienziato, non un militare. Eppure mi è
anche capitato di usare le armi: per difendermi. Non ho mai ucciso per diletto.
Detesto il sangue. Detesto la morte. Sono stato in molte stazioni, ho puntato
il mio telescopio in ogni direzione. Ho dedicato la mia vita alla conoscenza.
Ero su quel pianeta proprio per questo. Nessuno fino ad ora è riuscito ad
intrappolare un quark: solo poche orme, una scia argentata sulla lastra
fotografica sarebbe stata sufficiente. Avrei posseduto il segreto della
materia. Io sarei stato colui che ha sconfitto l'ignoto, io sarei stato
ricordato nei secoli a venire come l'umano vittorioso. Il quark di Schroeder
sarebbe stato studiato per sempre. Sarei stato ricordato come colui che ha
cavalcato le onde e le ha possedute. sarei stato l'universale mediatore tra la
realtà materiale ed il mondo delle vibrazioni senza fine. Io, Ronald Schroeder,
eroe per sempre. Ed invece ho registrato le voci. Non solo, ma la tragedia di
tutto questo è che forse mi attribuiranno davvero questa scoperta. Non hanno
capito nulla. Insistono nel dire che ciò che lo strumento ha registrato non
sono voci, ma la scia dei quark primordiali. Volevo dominare ed invece sono
stato domato ".
"E' un
privilegio, il nostro".
"Lo chiami
come vuole: io non l'ho mai desiderato".
"Neppure io:
sto ancora pagandone il debito".
"Voglio
tornare lassù. Voglio ancora percorrere quel deserto. Voglio guidare una nuova
missione. Devo tornare lassù. Non appena mi sarò rimesso in forze, non appena
le forze mi torneranno del tutto, chiederò di essere rimandato lassù e loro non
potranno impedirmelo. Sono uno scienziato importante, non potranno negarmi una
nuova spedizione. Sì, tornerò in quel deserto e ripeterò l'esperimento".
Il vecchio scosse
il capo, coprendosi il viso con entrambe le mani. Poi lo rialzò di scatto e,
avvicinandosi all'orecchio del capitano, gli sussurrò.
"Non potrà
mai più tornarci. Di qui non uscirà mai, come non sono mai uscito io. Non
capisce, non glielo permetteranno. Non vogliono che si parli delle voci. E' per
questo che insistono con la storia dei quark. Non ci credono neppure loro. Lei
sarà presto dimenticato. Lei è solo uno scienziato tra i tanti. Questo non è un
ospedale: è una prigione sanitaria".
"Lei sta
scherzando. vuole spaventarmi, non so per quale ragione. Non mi diverto
affatto".
"Non mi
permetterei mai. Chieda, se non mi crede".
Schroeder si
alzò, fece pochi passi verso la fine del corridoio. Poi si arrestò con il
braccio destro teso. Le pareti
erano bianche e lisce e non si udiva nessun rumore, se non il ruggito
dell'uragano, ovattato dai vetri spessi. Schroeder ripensò ai giorni trascorsi
lì dentro, alle infermiere linde ed asettiche e ai dottori sempre sorridenti,
come chi sa di prendersi gioco di te. Ripensò alla visita del Presidente, così
asettico ed impacciato. Anche lui si era prestato al gioco. Un rigurgito di
rabbia gli salì alla bocca e fece fatica a trattenere il vomito. Gli occhi gli
si colmarono di lacrime, non però ardenti, ma piuttosto disperate, disilluse,
come di chi sa che ogni speranza umana non ha più ragione di esistere. Tutto cominciò
a vorticare ed il rantolo rabbioso del vento gli sembrò una musica che aveva
già udito in passato. Per un breve istante l'immagine acciecante del deserto lo
colmò e si rivide a terra, riarso e ricoperto di polvere, con il braccio
allungante invano verso la radio, giacere ai piedi dell'unità mobile di
rilevazione. Poi fu di nuovo il bianco sterile della parete. Si volse, tornò
indietro e si sedette di nuovo accanto al vecchio.
"Perché?",
chiese con un filo di voce.
"Non lo
so".
"Avevo
ancora tanto da capire, tanto da dare".
"Può farlo
anche qui. C'è tanto tempo per pensare".
* * *
Schroeder era in
piedi davanti allo specchio. Fissava con attenzione il suo volto per cercarvi
qualcosa che gli era sfuggito.
"E' un viso
comune, il mio. Nulla che si noti con particolare attenzione. Né un naso
prominente, né una bocca larga, neppure nei o macchie strane. Gli occhi sono
semplici e frequenti, anche il loro colore, un azzurro pallido leggermente
slavato, non desta preoccupazioni. Non mi riconoscerà nessuno. Il famoso
capitano Schroeder può passare inosservato. Faranno fatica a trovarmi".
Tornò nella
stanza e si rinfilò nel letto. Era tempo per la visita serale. Restò immobile
ad ascoltare il silenzio, attendendo che fosse rotto dal rumore, quasi
musicale, dei passi: tonfi gravi e lenti, i passi del dottore, un ticchettio
rapido e metallico, quelli dell'infermiera.
"Come si
sente questa sera, capitano?", chiese il dottore con un ampio sorriso.
"Come al
solito, solo un poco più stanco. Ho molto sonno".
"E' normale.
Si è sforzato troppo oggi. Questo umido soffocante poi non aiuta chi, come lei,
ha sofferto di problemi di respirazione. Per fortuna gli uragani qui da noi non
sono così frequenti. Si rimetterà presto".
"Lo spero.
Sto bene però qui. E' un ambiente sereno e lo trovo ideale per i miei
nervi".
Spiò con
interesse e soddisfazione lo sguardo di intesa che inequivocabilmente dottore
ed infermiera si rivolsero. Tutto procedeva secondo i suoi piani.
"Posso avere
un sedativo? Preferisco non cenare e vorrei dormire a lungo ed ultimamente mi è
capitato di svegliarmi spesso di notte, anche se ero profondamente
stanco".
"Penso che
la si possa accontentare. Preferisce un'iniezione o una capsula?".
"Una capsula
per favore".
"Bene,
gliela faccio portare subito. Può provvedere lei? Grazie. Capitano, a domani
allora".
Schroeder sorrise
in risposta al cenno del dottore, quindi voltò il capo verso la finestra e
rimase in mobile fino a quando l'infermiera ebbe deposto sul comodino il
calmante. Riuscì a non muoversi ancora per qualche minuto, timoroso che, per
qualche ragione a lui sconosciuta, qualcuno entrasse all'improvviso nella
stanza. Quindi, dopo aver finto di prendere il sonnifero, tornò a sdraiarsi,
simulando l'abbandono totale al sonno. Attese che fosse del tutto buio, si alzò
di scatto e senza accendere la luce indossò i vestiti sotto al pigiama. Aperta
con grande attenzione la porta della stanza e verificato che non ci fosse
nessuno nel corridoio, scivolò lentamente fino alla prima deviazione. Si
sentiva stranamente calmo, pur essendo conscio del fatto che, se l'avessero
preso, per lui non ci sarebbero state più speranze di fuga. Poteva sorprenderli
solo ora, mentre ancora loro non erano al corrente del fatto che lui sapesse.
"Che cosa so
realmente? Da un lato la mia sensazione e la certezza del vecchio, ma
dall'altro? E se il vecchio non fosse altro che un pazzo? Se invece che una
prigione, questo non fosse altro che un normale ospedale? Se resto e questo è
un carcere, sarò prigioniero a vita, ma se fuggo e questa è solo una clinica,
mi perdo del tutto. Come spiegare il mio gesto? Mi crederanno pazzo. E se
invece mi credessero ora pazzo? E se io fossi davvero pazzo? Se sono pazzo e
credo di aver udito le voci, che invece non erano che gli incubi di un
moribondo, perché scappare? Ma chi, se non un moribondo, colui che è non è più
vivo, ma non è ancora morto, colui che si trova proprio sulla soglia, ancora un
passo e tutto finisce, può sentire le voci e capire che non sono i
vaneggiamenti di una mente folle, ma i sussulti di un anima lucida e libera? E
se io ho sentito le voci e loro non mi credono, chi è il pazzo e chi l'uomo
libero? O forse la libertà è davvero pazzia? Se fuggo, dove vado? Sarò solo,
solo per sempre. Qui invece, in questa gabbia dorata, avrò almeno il conforto
di un amico".
Si immobilizzò
contro la parete, nero nel nero assoluto del corridoio lasciato al buio. Poi si
mosse e proseguì la sua fuga. Conosceva la strada: si poteva uscire da una
piccola porticina che serviva alla lavanderia. Quando fu nel parco fu preso da
un terrore nuovo e ancora indugiò.
"Sto
gettando via tutti i miei studi. Non potrò più ricominciare. Dove? Con quale
identità? Non ho voglia di combattere. E se invece, proprio nella lotta fosse
il senso di tutto? Se combattendo ricominciassi a vivere? Perchè cedere? Perché
accettare la castrazione?".
Si mise a
correre, sicuro del successo. Poi udì una voce, secca e terribile.
"Chi è? Dove
stai andando? Fermati!".
Si gettò di lato
e corse più veloce ancora. Scivolò, cadde, si rialzò in un lampo. La caviglia
gli doleva. Non riusciva a posarla a terra. Si appoggiò ad un albero respirando
affannosamente. Silenzio. Nessuno lo stava inseguendo.
"Possibile?
Che mi sia inventato tutto? E se fosse una trappola? Se fosse corso a chimare
aiuto? Chi era?".
Sempre silenzio.
Tutto restava nell'oscurità. Attese ancora. Poi si mosse piano, trascinandosi.
"Devo aver
immaginato tutto. La mia mente è così scossa".
Una mano gli si
posò sulla spalla e strinse. Si volse di scatto.
"Davvero te
ne vuoi andare?".
Il vecchio gli
sorrideva.
"Chi sei?
Che vuoi da me? Sei dei loro?", replicò Schroeder in preda ad un violento
tremito.
"No".
"Lasciami
allora".
"Mi lasci
solo".
"Qui dentro
non ci resto".
"Dovevo
saperlo. Quindi ti fidi di me? E se mi fossi inventato tutto?"
"Correrò
questo rischio".
"Dove pensi
di andare?".
"Non lo
so".
"Vorrei
venire con te, ma non posso. Il mio posto è qui".
"Lo
so".
"Forse
verranno degli altri. Forse. Devo essere qui ad accoglierli".
"E'
così".
"Addio".
"Addio".
Schroeder
proseguì a fatica fino al muro. Non gli fu facile scavalcarlo. Si tolse
immediatamente il pigiama. Camminò ancora a lungo, attraverso i campi, finché
giunse ad un quartiere di periferia. Cercò una panchina nel parco pubblico. Si
sdraiò e rimase a fissare il cielo stellato, leggermente velato dalle luci
dell'illuminazione stradale.
"Sono fuori.
Fuori da quella casa, qualunque cosa fosse. Fuori dalla mia vita. E' come se
nascessi ora. E' come se nascesse un altro Schroeder, un uomo che non ha nessun
legame con il passato, come se l'onda che mi rappresenta avesse avuto uno
scarto, deviata da una massa così grande da curvare anche la luce, e
quest'onda, che adesso sono io, si fosse lascita piegare, distrocere, e si
fosse impennata, cambiando verso e direzione, ed ora, chiunque sia colui che la
osserva, genererà una nuova creatura. Sono solo. Solo. Io sono solo. Io sono.
Io sono colui che sarò. Colui che non è ancora stato, ma sarà quello che gli
agli vorranno che io sia. Io sarò un'onda che vibra. Non sono solo. Sono
insieme a tutte gli infiniti possibili Schroeder e sono insieme a tutte le onde
che riempiono questo universo. Tutte. Le sento accanto a me, dentro di me, come
le voci. Non sono solo. Un fotone si comporta da particella solo se è osservato
singolarmente, se invece chi osserva non si cura della singolarità, ma del
fascio di fotoni, allora tutto gli appare come un'onda di probabilità. Io sono,
perciò chi mi osserva, osserva me, solo me, non si cura della folla, ma di me,
ha in mente me, è per me che si preoccupa, perciò io sono couli che è osservato
per ciò che è. La foglia, anche la foglia io la fissavo e per me era quella
foglia su quel ramo ad essere importante. Io capisco, adesso capisco la verità
quantistica dell'essere umano".
E fu sonno. E fu
mattina. Un nuovo giorno.
* * *
"Cosa fa?"
"Sta guardando".
"Lo vedi?".
"Come
sempre".
"Che sta facendo?".
"Quello che
fanno tutti".
"E' cambiato?".
"Un'onda va e un'onda viene ed il mare non è
mai pieno".
"Non ti stanchi mai di guardare?".
"No. C'è mio
figlio laggiù".