Quando i cinquant’anni sono stati raggiunti e superati con la velocità del suono di una sirena arrabbiata, tre sono le possibilità che rimangono all’uomo che non vuole rimanere ad attendere l’impatto indifeso e inconsapevole: farsi l’amante, farsi una macchina rossa, scrivere un blog. Dato che mi state leggendo (davvero? Mi state davvero leggendo?) avete compreso che ho scartato le prime due ipotesi. E per scelta volontaria e creduta, non certo forzata.

Ma che cosa e perché scrivere? Condividere, o l’illusione di farlo, aiuta spesso a sentirsi in compagnia di fronte alla piccole battaglie della vita: quelle grandi, si sa, le si può affrontare solo in compagnia di se stessi, senza nessuno scudiero o cavaliere al proprio fianco.

La prima delle sfide e quella che affettuosamente potremmo definire di san Giuseppe, che di fatto nomino mio speciale e personale protettore confidando sulla sua ironia e bonomia. In che cosa consiste questa sindrome? Nel sentirsi ovviamente il più imperfetto della famiglia dovendone invece apparire la guida salda. Non che con questo voglia affidarmi a una melliflua umiltà fasulla, l’autocompiacimento di sentirsi negare la denigrazione e gustare così una vanitosa ricompensa per la propria maliziosa modestia. Affatto. Lauto compiacimento può derivare solo dalla concretezza. Non che non sia vanitoso, tutt’altro: la vanità è sempre in agguato, come ben sa il diavolo impersonato da Al Pacino nel mondo degli avvocati.
Gli è che essendo proprio vanitoso e anche intelligente, so bene che l’ambizioso deve attingere a piene mani all’umiltà: per crescere, ambizione che può essere anche nobile e saggia, bisogna capire dove migliorare. E per capirlo non c’è che l’umiltà.
L’ambizioso vanesio e superbo farà una brutta e rapida fine.

Quindi qui sto: con una moglie tendente alla perfezione, pur con difetti marginali che provocano in me tanto irritazioni quanto ammirazione per la loro trascurabile banalità; con tre figli che, come recitano brutti film, hanno preso maggiormente da me i difetti, e quindi non posso accusarli di una eredità che ho trasmesso loro; con un lavoro che amo e che ogni mese mi sfida sempre di più, aiutandomi a non fare mai mia la sicurezza.
Di che scrivere dunque?

Della precarietà, della inadeguatezza che mi rende comico a me stesso, specchio delle cose che ho appreso e che rivedo, con squarciante veridicità, nel mio quotidiano.

mercoledì 23 marzo 2016

Diritti... all'inferno



Che se Dio non esistesse tutto sarebbe possibile l’aveva già scritto Dostoevskij. Forse non pensava che la sua provocazione sarebbe diventa banalità.
Lo ripete lo psicoterapeuta Claudio Risé parlando della mattanza di Roma, dove la ricerca della violenza efferata si mescola alla sua insensatezza, più ancora in basso nella scala degli aggettivi di “banale”.  Una violenza ricercata per “vedere l’effetto che fa”. E con questo anche Jannacci si rivolta nella tomba.
E visto che siamo in tema di citazioni, richiamiamo alla memoria anche il famoso grido del cardinal Biffi che ammoniva una società ormai sazia e disperata.
Di questo parla ancora Risè in un recente articolo apparso su il Giornale:
Questa sazietà mortale è riconducibile proprio a questo contesto. L'eliminazione di Dio e la perdita dei propri confini che inducono ad avanzare in territori mortiferi. È questo l'esito di un modello di cultura che non sottopone più le azioni a una verifica morale. Ciò che è in nostro potere, si fa. Ciò porta alla follia e alla morte”.
Già, stiamo correndo proprio in questo baratro. C’è però da chiedersi attraverso quali ponti stiamo finendo per precipitare nell’abisso?
La strada principale e quella segnata dalla proliferazione dei diritti, o per meglio dire, come ho già avuto modo di scrivere su questo stesso quotidiano, attraverso i capricci spacciati per diritti in virtù di una totalmente falsa e manipolata percezione non solo della realtà nella sua complessità, ma soprattutto della persona. E dell’ambito naturale nel quale la persona impara a conoscere la realtà: la famiglia.
Riprendo ancora in mano, citandolo nuovamente Di nuovo sottolineando l’importanza fondamentale di questa ultima fatica di Pier Giorgio Liverani (Diritti distorti, edizioni Ares), Per ripercorrere il cammino che c’è condotti alla soglia della caduta nella disgregazione della società.  È importante capire qual è la strada che ci porterà diritti all’inferno per capire quali sono le battaglie da compiere, perché non è più vero che ci salverà il buon senso, non è più vero che basta aspettare perché le cose tornino ad avere senso. Non è più possibile contare solo sul buon senso delle persone, perché sappiamo benissimo quanto sia potente forte la manipolazione delle idee.
E soprattutto sappiamo benissimo, E se qualcuno non se lo ricorda bene che faccio mente locale, quanto le leggi plasmano i comportamenti. Non sono solo le leggi ovviamente a plasmare i comportamenti. Ci sono anche le variazioni tecnologiche. Basta vedere come ci è cambiata la vita in seguito all’introduzione nella nostra vita di due strumenti quali il telefono cellulare, poi evoluto dello smartphone ancora più capace di modificare i nostri comportamenti, e la posta elettronica.
Sarebbe da folli, da ingenui E folli, ritenere che cambiamenti imposte delle novità tecnologiche e dalle leggi non abbiano influsso sul nostro modo di ragionare e di concepire il senso della vita.  Le leggi in particolare plasmano in maniera inequivocabile i comportamenti, avendo come metro decenni cosa che rende ovviamente non osservabile il fenomeno fino a quando oramai e inarrestabile e distruttivo.
L’assurdo delitto di Roma parla una visione demoniaca, e uso questo termine con profondità di senso: faccio particolare riferimento al desiderio di distruggere l’uomo.
Parla una parola diversa,
Liverani spiega molto bene che i diritti dell’uomo sono quelli che lo precedono sono quelli che “gli appartengono sin dal suo concepimento e proprio per questo costituiscono le fondamenta della società umana e –per quanto possibile e almeno in teoria- garantiscono agli uomini E alle loro relazioni la sicurezza, la tranquillità e la pace”.
È solo pretendendo che questi diritti discendono dall’uomo e non lo precedono, diventano cioè espressione della sua volontà di potenza, che tutto si disperde. Perché nel momento in cui è l’uomo, la singola persona, a decidere quale sia il suo diritto, questo diritto è soltanto l’espressione di una volontà, di una maggioranza, di un particolare momento dello spazio del tempo. Non siamo molto lontani dal vero se finiamo per ritenere che allora I diritti imposti dal regime nazista hitleriano avessero la medesima dignità, oltretutto fondata su un parlamento regolarmente eletto.
Si può obiettare che i diritti di quella follia –attenzione: in nessun modo sto affermando che quei diritti fossero giusti e legittimi!-  fossero immorali perché contrari ai diritti di altre persone.  La risposta è facile: la porto non è forse la negazione dei diritti del bambino? E le pretese della Cirinnà,  che oramai arriva a derubricare padre e madre  a pregiudizio e stereotipo,  proseguendo sulla strada che vuole essere la madre soltanto un concetto antropologico, non sono una violazione palese dei diritti della madre e soprattutto del figlio?
Persino il notissimo giurista angloamericano ateo Ronald Dworkin, ricorda Liverani nel suo libro, constata che “diritto e morale non sono universi separati ma, al contrario, esiste tra essi un legame imprescindibile” e questo perché esistono, e si possono identificare e riconoscere, “Valori comuni a tutti, in cui i credenti e non credenti si riconoscano, a prescindere da dogmi e testi sacri, scavalcando le barriere che un po’ dovunque i fondamentalisti cercano di innalzare”.
Qui c’è in gioco il senso dell’uomo oltre che la sua sorte.
C’è in gioco il futuro dei nostri figli, I nostri nipoti, dei nostri pronipoti. La battaglia iniziata per difendere i nostri figli riguarda tutti noi, pensare di negarla per difendere presunti diritti di altri, in particolare secondo la folle idea che questo vorrebbe dire andare loro incontro cristianamente,  deve essere portata avanti in tutti i piani, anche quello politico, perché non ci venga chiesto conto di ciò che abbiamo fatto E soprattutto di ciò che NON abbiamo fatto.

Il nostro dovere spiegare che questi non sono diritti ed essere in grado di argomentare perché.

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