Quando i cinquant’anni sono stati raggiunti e superati con la velocità del suono di una sirena arrabbiata, tre sono le possibilità che rimangono all’uomo che non vuole rimanere ad attendere l’impatto indifeso e inconsapevole: farsi l’amante, farsi una macchina rossa, scrivere un blog. Dato che mi state leggendo (davvero? Mi state davvero leggendo?) avete compreso che ho scartato le prime due ipotesi. E per scelta volontaria e creduta, non certo forzata.

Ma che cosa e perché scrivere? Condividere, o l’illusione di farlo, aiuta spesso a sentirsi in compagnia di fronte alla piccole battaglie della vita: quelle grandi, si sa, le si può affrontare solo in compagnia di se stessi, senza nessuno scudiero o cavaliere al proprio fianco.

La prima delle sfide e quella che affettuosamente potremmo definire di san Giuseppe, che di fatto nomino mio speciale e personale protettore confidando sulla sua ironia e bonomia. In che cosa consiste questa sindrome? Nel sentirsi ovviamente il più imperfetto della famiglia dovendone invece apparire la guida salda. Non che con questo voglia affidarmi a una melliflua umiltà fasulla, l’autocompiacimento di sentirsi negare la denigrazione e gustare così una vanitosa ricompensa per la propria maliziosa modestia. Affatto. Lauto compiacimento può derivare solo dalla concretezza. Non che non sia vanitoso, tutt’altro: la vanità è sempre in agguato, come ben sa il diavolo impersonato da Al Pacino nel mondo degli avvocati.
Gli è che essendo proprio vanitoso e anche intelligente, so bene che l’ambizioso deve attingere a piene mani all’umiltà: per crescere, ambizione che può essere anche nobile e saggia, bisogna capire dove migliorare. E per capirlo non c’è che l’umiltà.
L’ambizioso vanesio e superbo farà una brutta e rapida fine.

Quindi qui sto: con una moglie tendente alla perfezione, pur con difetti marginali che provocano in me tanto irritazioni quanto ammirazione per la loro trascurabile banalità; con tre figli che, come recitano brutti film, hanno preso maggiormente da me i difetti, e quindi non posso accusarli di una eredità che ho trasmesso loro; con un lavoro che amo e che ogni mese mi sfida sempre di più, aiutandomi a non fare mai mia la sicurezza.
Di che scrivere dunque?

Della precarietà, della inadeguatezza che mi rende comico a me stesso, specchio delle cose che ho appreso e che rivedo, con squarciante veridicità, nel mio quotidiano.

lunedì 11 gennaio 2016

Il peggior insulto


Il web è come la Forza: è potente e ha un lato oscuro.
Che scatena il peggio che è in noi. Anche il meglio, a dire la verità, ma qui lo lascerei un attimo da parte. Il meglio. Per mostrare una differenza che, me ne rendo conto, è difficile da capire ed è legata molto ad una caratteristica della verità che è difficile da digerire, anche da coloro che la professano. O ci provano.
Prendi una di quelle schermaglie che, a volte, diventano aspre e acide, presto scivolano oltre il confronto per diventare insulto, offesa, violenza e si spera solo verbale.
Quante volte il nostro direttore è stato sommerso da ingiurie di questo tenore!
Tra tutte quella che viene riservata per ultima, in un crescendo di violenza, e quindi immaginata come una tremenda minaccia, la peggiore che si possa riservare per il peggiore nemico, quello per cui non hai nessuna pietà, solo rancore, solo odio, di quello grasso, unto, rabbioso, è “che tu possa avere figli omosessuali!”.
E qui si spalanca un mondo. Quello della verità.
Perché si dimostra il nostro errore, non essere stati capaci di mostrare la differenza, quella che appunto, dicevo, qualifica in modo inequivocabile la nostra fede, nostra non nel senso che la sappiamo vivere e comunicare, ma che è quella nella quale abbiamo deposto la nostra speranza e la nostra debolezza.
Che si palesa nell’amore.
Basterebbe questo per dimostrare che è vera perché se la religione fosse la proiezione del proprio desiderio, mai credo sarebbe stato disegnato un Dio che ti schiaccia sotto il peso dell’amore per i nemici, che ti umilia invitandoti a porgere la guancia, che spazza via ogni tuo desiderio di vendetta ricambiandoti con pari moneta minacciandoti di giudicarti proprio con quel medesimo metro. Un Dio che non scende a combattere con te contro i miscredenti, che non spezza ossa a chi ti minaccia, a chi lo deride, ma anzi li abbraccia e li va a cercare.
Non è una corona ferrea a cingergli il capo, ma una di spine, la cintura è di sofferenze, non esplosiva per divorare i cattivi. Quelli che per me sono cattivo ovviamente.
Ecco, questo Dio qui, questo Cristo qui, m’ha insegnato che se anche avessi un figlio omosessuale –o assassino, o ladro, o tangentaro, o pedofilo, o convivente, o corruttore, o spergiuro o… peccatore in qualsiasi modo gli passi per la testa- io non dovrei proprio smettere di amarlo, fino all’ultimo, ed essere suo servo e pregare per lui.
Che l’amore non passa attraverso la perfezione, concetto difficile da capire per una società che cerca solo la perfezione, che si crea delle regole perché ogni comportamento sia perfetto, e quando si accorge che l’imperfezione esiste allora la scaccia lontano da sé accusandola di ogni dolore che produce, soprattutto quello di additare –tutto dice “più in là”- all’esistenza della sofferenze e della colpa e quindi alla necessità della redenzione e dell’amore, e schiacciandola nel fango: così si comporta verso i deboli di ogni sorta, dai vecchi ai malati ai portatori di handicap, ai colpevoli che, bollati per sempre, non trovano più spazio in una società che sembra affermare “sei libero di fare quello che vuoi, perché proprio ciò che io aborro hai fatto?”.
Io amo a prescindere, amo la persona, che sia peccatore o down, celiaco o furioso, perché è una creatura divina, che merita come me tutto il sangue di Cristo. Perché è un’anima. Se poi non riesco ad amarla così, non è per colpa sua, ma mia.
Quindi questa minaccia si sfarina, scoppia come bolla di sapone nel vento, sotto il cielo terso.
Certo che preferirei un figlio che crede in ciò che credo io, che è diverso da dire gay o assassino o ladro o divorziato o quello che volete voi, chi non lo vorrebbe? Ma sappiamo bene che è come è che io devo amarlo questo figlio, e pregare per lui, e implorare come Santa Monica per Sant’Agostino, ma senza mai mai smettere di accogliere.
Perché amare non è apprezzare la perfezione e rigettare la difficoltà. E non  è neppure dire sempre di sì. Quella è voglia di audience, desiderio di quorum, speranza di comperare con la concessione –vizio, si chiama vizio, si dice viziare!- l’affetto di mio figlio.
O di un amico. O di un fidanzato.
No.
Amare è approvare come sei, e aiutarti a capire dove sbagli, indicarti la via senza mai imporre, senza mai smettere per un solo secondo di amare. Volere bene significa volere il bene, per questo impone che prima si capisca che cosa è il bene per te, e poi ti aiuti, mettendomi al tuo fianco , a proportelo.
E non mi venite a dire che amore non è desiderare che tu cambi o provarci a cambiarti, perché questo sarebbe buonismo. Intanto tra coniugi c’è una cosa che si  chiama finalità unitiva o del mutuo aiuto, aiuto alla santificazione e quindi al miglioramento. Poi verso i figli c’è l’educazione, che è guidarli alla santità, e poi basta prendere il famoso episodio dei discepoli di Emmaus per vedere come Gesù, lungi dal piegarsi ad un buonismo che gli farebbe abbracciare i due discepoli così come sono –delusi fuggitivi- li guida, camminando vicino a loro, e sgridandoli, a vedere la verità tutta intera.

Questo bisogna far capire loro, che quell’insulto non è affatto tale, è une condizione come un’altra che un genitore accetta nel momento in cui si fida a diventare madre o padre.
E questo è una grossa responsabilità, farla capire vivendo, che tocca ad ognuno di noi.


2 commenti:

  1. Essere genitori è veramente molto difficile. Così come può essere difficile l'accettazione di un figlio diverso da noi. I genitori, nella maggior parte dei casi, amano i loro figli, ma a volte non riescono a dissimulare la loro delusione per non essere riusciti a crescerli come avrebbero voluto e questa delusione i figli la avvertono. Abbiamo visto il padre di Erika Nardi starle accanto anche se aveva ucciso madre e fratello e,come lui, tanti altri, o altre. Avere un figlio gay è proprio il minore dei mali...L'importante è che sia felice. Chi augura una cosa del genere pensando di augurare il male è semplicemente una persona meschina.

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