Capita questo: si discute di politica e con amici ci si
ritrova improvvisamente dentro un buco dal quale non pare possibile uscire. Poi
ci si riappropria di rispetto e stima. Succede.
Succede anche che queste cose qui non vengono a caso e se è
vero che tutto concorre al bene allora è vero che da queste situazioni devi
tirar fuori qualcosa, leggere in trasparenza la trama che ti fa fare uno
scatto, un passo avanti.
Proviamoci.
Dunque, per mille ragioni che è inutile esplorare rispondo
un po’ diretto, secco, ruvido ad una discussione nella quale ci si aspettava
che invece che ribadire la mia posizione ponessi domande, cercassi di avere
chiarimenti. Va bene, ho sbagliato: invoco solo le attenuanti per scarsa
avvertenza e indeciso consenso chiedendo un minimo di concorso di colpa, giusto
per quella incomprensione strisciante che separa le donne dagli uomini. Non è
questo però secondo me il succo.
Ma che per rispondere alla mia acidità si usino parole come
queste “non ti facevo così”.
Ecco, qui val
la pena ragionare.
Primo usando Jean Guitton che nel suo capolavoro sull’amore
afferma che più conosciamo una persona più la sappiamo ferire in profondità.
Che spesso tanti insulti che vengono giudicati razzisti in realtà sono
fraintesi: perché quando siamo arrabbiati vogliamo far male e allora colpiamo
duro con le parole. Per farlo devi sapere qual è il punto debole. E tra amici o
familiari o coniugi lo si sa bene qual è. E lo si usa con scientifica crudeltà.
Ma tra estranei si va sui luoghi comuni.
Quindi sputarmi addosso che ho tradito la mia immagine a me
che ci tengo tanto è un bello sganassone indubbiamente.
C’è di più: c’è quella malattia dell’uomo –tutti, senza
distinzione- di reagire per autodifesa sopravvalutando il male ricevuto, come
se fossimo improvvisamente diventate vittime dell’universo. Per cui se hai
offeso me tutto quello che di buono fin qui hai costruito non vale più, vale
solo quest’immagine, quest’attimo in cui ti sei sporto oltre la decenza e mi
hai colpito, e chissenefrega se l’hai fatto senza saperlo, senza volerlo. Io lo
so e mi basta.
E quindi tutto il deposito di cose buone che fin qui hai
accumulato sparisce, la tua reputazione e acqua sui sassi: non mi aspettavo
questo da te, ma finalmente ho capito quello che sei.
Per non riconoscere una fragilità, una debolezza –il santo
cade sette volte al giorno, figuriamoci noi- preferiamo credere nell’ipocrisia,
nella falsità dell’altro. Non può avermi ferito così in profondità per
distrazione, ne consegue che tutto quello che ha fatto sin qui era menzogna.
E così rovesciamo addosso all’altro tutta la nostra
frustrazione.
Dimenticando che ci è stato detto che con la misura con la
quale misuriamo saremo misurati.
Devo stare quindi attendo per non finire alla sinistra di
Dio quando toccherà a me.
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