Sta
nei suoi viali Buenos Aires, che la sezionano senza mai cambiare nome, con un
vezzo tutto americano come se queste strade lunghe chilometri fossero garanzia
di libertà e speranza senza fine, come una lunga vita da percorrere col sorriso
e il sole in fronte, alteri, giovani, traboccanti speranza.
E
in questa avenida, che porta tre nomi perché così larga da avere quattro
sezioni e diciotto corsie, e quella centrale è una data, il 9 di luglio che a
noi, italiani, dice poco così come direbbe poco il 22 marzo a un argentino.
In
mezzo sta l’obelisco, sembra confuso e presuntuoso, separa, mescola, ma non
trattiene se non pochi che lo
prendono per il simbolo della città, ma Tour Eiffel e Colosseo sono ben altra
cosa.
Poi
la plaza de Mayo, circondata da questi palazzi ben intagliati e rigidi, come
soldati di sentinella, e il rosa della Casa non smorza questo rigore che parla una menzogna alla quale tutti vogliono credere. Ma la gente sorride, spera,
supera tutto.
Tutti
italiani, dicono: almeno un bisnonno lo trovano. Che ti viene da dire ma se non
ci fosse stata l’immigrazione che cosa sarebbe ogg l’Argentina?
Parla
come un fiume in piena l’ultimo tassista, che si dice figlio di cosentino di
cui porta il nome (Macrì), e mescola calcio
a politica, la pioggia al futuro, e
cantilena uno spagnolo che sa di portoghese senza rendersi conto che noi ne
capiamo solo schegge, come quando dice che i grandi campioni di calcio possono
essere solo sudamericani perché nel gioco mettono il sole e la poesia, mentre
noi in Europa ordine e tecnica.
E
poi attraversarla in bicicletta…
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