Ho
corso in molte città: è un modo di possederla e sentirla un po’ tua.
Mica
maratone, non arrivo a 10 chilometri di fila, ma ne bastano 5-6 per regalarti
quel sentimento di esserne diventato complice, intimo. Perché quando corri
tutto sembra più lieve e intenso. E gli sguardi si fanno morbidi.
Ho
corso nel Central Park ed è stato come sentirti piccolo tra i giganti, che
bastava alzare lo sguardo per non trovare il cielo ma gli sguardi seri dei
grattacieli.
Ho
corso lungo il Potomac a Washington, come un eroe che tornava a raccontare le
vittorie a casa.
Ho
corso a Boston dentro il parco nei giorni in cui stava per celebrarsi la
maratona e ho rubato l’ammirazione di chi mi ha confuso con uno dei
partecipanti.
Non
ho corso a Philadelphia, e averi voluto farlo su per quella scalinata dove
sembra sempre di sentire Gonna Fly Now.
Ho
corso a Houston, chiuso nel fresco della palestra dell’hotel e a New York al
cinquantasettesimo piano quando era troppo freddo per scendere al Central Park,
così come a Chicago e a Modena.
Ho
corso tra le ville di Beverly Hills immaginando di vedere da un momento
all’altro spuntare fuori da una villa Brad e Angelina. Non ho corso a Santa
Monica e me ne cruccio ancora.
Ho
corso sulla sabbia a Miami Beach, e lungo Ocean drive, dove tutto sembra fatto
per dissipare la tristezza e confondere la noia, ma anche il candore. E poi ad
Aruba e a Grenada dove la battigia regala tepore e speranza. Ho corso a Buenos
Aires sotto un cielo rovente d’autunno che significava riposo e rilancio. Ho
corso a Tel Aviv sul lungomare in un gennaio che minacciava un anno di dolore,
a ha mantenuto la promessa.
Ho
corso e correrò perché tutto è metafora e tutto è vita e solo quando stai da
solo con i tuoi pensieri e le tue preghiere riesci a scacciare anche i più
aggressivi fantasmi.
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