Madre, oh madre. Mi è vietato
dimenticarmi di te. Ogni volta che passo davanti all’ospizio dove sei morta, mi
assale un brivido che riesce a mescolare senso di colpa e di liberazione, come
se queste due dimensioni non potessero essere disgiunte neppure ora che non sei
più qui e che ti immagino in una pace senza fine, la pace che hai inseguito
sempre, travolgendo tutto e tutti in questa tua ricerca astiosa e irrequieta.
Anche me.
E questa ansia, la tua inquietudine, me
l’hai lasciata come un dono, come una eredità scomoda, ma saggia. Di quelle che
ti tengono desta l’anima, in un combattimento senza fine. Perché la pace può
essere figlia di due opposti: della stupida e dannata pacificazione, come una
pianura secca e deserta, sotto un cielo dilavato e piallato, senza vento;
oppure di una guerra senza fine, combattuta contro noi stessi, senza tregua e
senza prigionieri, senza notti in cui riposare, senza cieli da contemplare,
piena di vento, quello freddo, tagliente, che scende da Nord e non si arresta
se non alla giuntura tra anima e carne, e forse neppure lì, quella guerra che
lascia senza fiato, eppure felici come l’eroe che dà la vita per ciò in cui
crede.
Dicono che coloro ai quali viene
amputato un arto, chessò una gamba, per anni continuano a sentirlo ancora come
se fosse ancora lì, appeso a loro. Ecco, con te io provo la medesima cosa. Sei
sempre qui, aggrappata a me come lo eri in vita. Il tuo amore rabbioso e
violento mi soffocava: lo caricavi di tutte quelle risposte che non avevi avuto
dalla vita, non perché lei non te le avesse date, ma perché non ne eri mai
contenta. Eri tesa sì, ma non serena: sostenevi di avere un conto aperto con la
vita, e lo facevi pagare a tutti coloro che provavano ad amarti, come se per
contrappasso quell’amore dovesse torcersi in vendetta.
E’ strano, anche se la tua morte, da
sola –mi hai preso per sfinimento e questo io non me lo so perdonare, di averti
lasciato morire da sola, in coma d’accordo, ma senza nessuno che ti tenesse la
mano, nemmeno io, e questo mi ripugna, per pietà e per orgoglio: non poter dire
che io c’ero, che sana umiliazione, vedi in fin dei conti mi hai amato anche
morendo di notte per lasciarmi questa amarezza dolce che sana e sradica i miei
vizi- in quella stanza singola che finalmente avevi ottenuto, come ennesimo
capriccio, come se stesse lì tutto il bene dell’universo, anche se la tua morte
ha sedato il mio risentimento, e spalancato la porta ad un amore che sapevo di
avere per te, ma non di questa intensità, non ha sopito i ricordi oscuri, né li
ha ammantati di quella dolcezza che sembra l’assenza regali ad ogni memoria.
Tutt’altro. Li ha resi più vivi, lucidi, taglienti, anche se li ha privati di
quel veleno che, quand’eri in vita, mi annebbiava la vista e mi soffocava il
cuore spingendolo giù in un fango d’odio e di dipendenza nel quale mi sembrava
di sprofondare come in sabbie mobili maligne.
E così la prima immagine che vedo non è
il sorriso con il quale mi accoglievi da bambino, non ancora così tirato e
sciapo come da vecchia, né l’abbraccio con il quale mi ringraziavi di esserci.
Non è quello sguardo acceso d’amore che luccica ancora in una vecchia foto in
bianco e nero. Sei sullo sfondo, di sbieco, chinata, tieni quegli occhi
luminosi, come non ho mai più visto, su di me che poco più avanti, ma a fuoco,
in primo piano, muovo i primi passi e si vede che traballo, con quella bavaglina
di stoffa colorata che ricordo benissimo, per uno di quegli strani giochi della
memoria che si divertono a estrarre dalla nebbia particolari che ti dicono
quello che non riesci più a ricordare. Stai lì e mi guardi e la gioia sembra
colorare questa foto con i bordi bianchi frastagliati; e io non ti vedo, ma so
che ci sei, che sei pronta a sorreggermi. Mi fido. C’è tutta la nostra vita lì.
Anche papà, lontanissimo, nell’oscurità del corridoio, lui che se ne è andato
per primo e che ti ha aspettato con la medesima delicatezza celata con la quale
ti lasciava in primo piano, in piena luce, per scegliere sempre le tinte
pastello, gli spigoli dei minuti, le macchie d’ombra. Sono sempre convinto che
ti avesse dato uno schiaffo alla tuo ennesimo capriccio, avesse avuto il
coraggio, la vita di tutti sarebbe stata diversa. Presumo migliore.
No. Non è quel viso, quella luce che
ricordo quando chiudo gli occhi e ti penso.
Ma la brace della tua sigaretta che
cerca di contrastare l’oscurità nella quale ti chiudevi. La luce rossa
intermittente di quando mi portavi a dormire con te di pomeriggio, da bambino,
in due sul mio letto, testa a piedi, perché io dormendo non ti disturbassi il
riposo. E vedo quella luce accendersi e spegnersi alternata al rumore che
facevi per scrollare la cenere nel posacenere di rame sbalzato che ora fa
mostra di sé, come un reliquiario, tra gli oggetti che ho conservato. E la
stessa luce, nella cucina scura, tenevi sempre le tapparelle abbassate, mentre
severa mi giudichi –mi giudicavi sempre trovandomi sempre colpevole per potermi
donare la tua misericordia, cosa che ti faceva felice perché ti permetteva di
crederti magnanima- e stai in silenzio, fumando, toccandoti i capelli, torcendo
la bocca e gli occhi curvando al suolo, sospendendo il tempo, così da
prolungare la mia sofferenza e la tua soddisfazione.
Eppure mi amavi, tanto. E volevi tenermi
per te. Solo per te. E anch’io ti amavo, ti amo anche ora. Come potrei non
amare chi mi ha dato la vita. E che, tragicamente, per conservarmela felice, ha
spento dentro di sé quella di due fratelli che non ho mai avuto. Così come
spegnevi la sigaretta, con rabbia e rapidità. Sono un sopravvissuto, mamma. Un
figlio unicizzato. Un bambino bagnato nel sangue dei fratelli ed elevato a
divinità, con il compito di tenere insieme la famiglia perché tutto si fa per
lui. Tutto. Come un buco nero che attragga ogni cosa a sé, strappandola alla
sua esistenza, macinandola in un affetto che si macera nell’autocompiacimento.
Perché l’amore per me, me ne sono accorto presto, in realtà era un pretesto,
uno specchio: avevi così tanto bisogno di affetto che mi imprigionavi in
quell’abbraccio che assomigliava di più alla presa di un rapitore che alla
protezione di una madre.
Mamma, questo acido mi cola ancora in
cuore adesso che ti parlo, qui in piedi davanti a quel che rimane di te qui in
mezzo a noi, e non riesco a discernere il bene dal dolore, a tirare una riga
secca tra il tuo egoismo e il mio, tra la tua sofferenza e quella che provocavi
con una scienza quasi perfetta.
Perché soffrire hai sofferto, e spesso
per causa di altri, anche se negli ultimi anni i tuoi ricordi spesso venivano
annacquati dalla fantasia, da ciò che temevi, volevi, speravi. E la violenza
subita si confondeva con quella che desideravi aver ricevuto per poterti
vendicare e vantare. Ricordo gli ultimi giorni. Di agosto, sulla terrazza
abbruciata della casa protetta. Biascicavi parole, parlavi a sproposito,
criticavi, mi chiedevi, pretendevi. Niente di diverso. Eppure dovevo capire che
erano le ultime ore e restarne appeso come ad un ramo che ti salva dall’abisso.
E invece l’ho lasciato andare e invece di precipitare io, sono rimasto sospeso
e nella voragine sei caduta tu.
E mamma, mentre non riesco a rimuovere quella
rigatura d’odio che attraversa la nostra vita in comune -sapessi quanto ci hai
fatto soffrire, madre mia- adesso non posso che sentir crescere l’affetto
nuovo, purificato, rafforzato che nasce da una vicinanza nuova, separata solo
dal sottile velo del cielo.
Questo post è molto bello e terribile nel medesimo tempo. La sua bravura nello scrivere è grande e mi ha coinvolta molto. Incredibilmente la morte giunge come un dono e pacifica tutto. E' la vita. Grazie.
RispondiEliminaFelice che tu abbia potuto scrivere le ultime righe di questo tuo "grido". Non credo sia un caso che oggi si apra l'anno della Misericordia... ti auguro che la Misericordia di Dio fasci e guarisca il tuo cuore. Concediti e concedi a tua madre un anno sabbatico. La stessa cosa spero di poter fare anch'io. Ti abbraccio A.
RispondiEliminaGrazie a voi dei vostri dolci commenti
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