Quando i cinquant’anni sono stati raggiunti e superati con la velocità del suono di una sirena arrabbiata, tre sono le possibilità che rimangono all’uomo che non vuole rimanere ad attendere l’impatto indifeso e inconsapevole: farsi l’amante, farsi una macchina rossa, scrivere un blog. Dato che mi state leggendo (davvero? Mi state davvero leggendo?) avete compreso che ho scartato le prime due ipotesi. E per scelta volontaria e creduta, non certo forzata.

Ma che cosa e perché scrivere? Condividere, o l’illusione di farlo, aiuta spesso a sentirsi in compagnia di fronte alla piccole battaglie della vita: quelle grandi, si sa, le si può affrontare solo in compagnia di se stessi, senza nessuno scudiero o cavaliere al proprio fianco.

La prima delle sfide e quella che affettuosamente potremmo definire di san Giuseppe, che di fatto nomino mio speciale e personale protettore confidando sulla sua ironia e bonomia. In che cosa consiste questa sindrome? Nel sentirsi ovviamente il più imperfetto della famiglia dovendone invece apparire la guida salda. Non che con questo voglia affidarmi a una melliflua umiltà fasulla, l’autocompiacimento di sentirsi negare la denigrazione e gustare così una vanitosa ricompensa per la propria maliziosa modestia. Affatto. Lauto compiacimento può derivare solo dalla concretezza. Non che non sia vanitoso, tutt’altro: la vanità è sempre in agguato, come ben sa il diavolo impersonato da Al Pacino nel mondo degli avvocati.
Gli è che essendo proprio vanitoso e anche intelligente, so bene che l’ambizioso deve attingere a piene mani all’umiltà: per crescere, ambizione che può essere anche nobile e saggia, bisogna capire dove migliorare. E per capirlo non c’è che l’umiltà.
L’ambizioso vanesio e superbo farà una brutta e rapida fine.

Quindi qui sto: con una moglie tendente alla perfezione, pur con difetti marginali che provocano in me tanto irritazioni quanto ammirazione per la loro trascurabile banalità; con tre figli che, come recitano brutti film, hanno preso maggiormente da me i difetti, e quindi non posso accusarli di una eredità che ho trasmesso loro; con un lavoro che amo e che ogni mese mi sfida sempre di più, aiutandomi a non fare mai mia la sicurezza.
Di che scrivere dunque?

Della precarietà, della inadeguatezza che mi rende comico a me stesso, specchio delle cose che ho appreso e che rivedo, con squarciante veridicità, nel mio quotidiano.

mercoledì 27 gennaio 2016

Claudio Gnoffo storie di Angela





Un nome tre personaggi. Questa l’idea che plasma la prima avventura letteraria di Claudio Gnoffo, scrittore palermitano con tanta voglia di successo. Non un successo però svincolato da un significato, dalla voglia di trasmettere un valore. Tre storie, un solo nome, ed un nome anche impegnativo: Angela. Un nome che è un programma quindi. Un libro affascinante, presentato in questo video, che ci guida alla scoperta di un modo diverso Di affrontare la vita. Facciamoci guidare da Claudio per comprendere meglio che cosa ha voluto raccontarci.

a)    Da dove nasce l'idea del tuo romanzo?
Mi ha sempre affascinato il tema degli alter ego, delle molteplici identità, e delle storie diverse che s’intrecciano sullo stesso piano. Inoltre, m’intrigava la possibilità di mostrare come uno scrittore possa proiettarsi nella propria creatura, quello che fa Angela, la protagonista. Diciamo che mi sono sentito un po’ come quei prestigiatori che svelano un paio di trucchetti del mestiere. E ne ho approfittato per raccontare un grande dramma interiore, la tragedia personale della protagonista, che può essere la stessa di mia figlia, mia sorella, la mia migliore amica, la mia compagna di banco. Spero che i lettori si rendano conto di questo: Angela può essere la persona che abbiamo accanto e non vediamo.

b)    Qual è il filo che lega le tre storie?
Il filo principale è proprio lei, la protagonista, il cui nome si rincorre durante le tre parti: “Angel S.”, “Angela Radcliffe”, “Angela Giannini”. Più il tema della persecuzione e della fuga, del lotta contro il male che corrompe il mondo, rappresentato in modi diversi a seconda della parte del romanzo.

c)     Angela, come mai questo nome?
Tutto è nato dalla protagonista della seconda parte, “Angela Radcliffe”. Volevo un nome femminile italiano accanto a un cognome anglofono, ma che ci stesse bene, che fosse eufonico. Familiare, comune persino, ma che suonasse speciale allo stesso tempo. “Angela Racliffe” mi è parso una bella unione di contrasti: italiano e straniero, nostrano ed esterofilo, quotidiano e inconsueto. Un nome da eroina, ma anche da vicina di casa. Ho pensato che questo nome rendesse bene, rimanesse impresso, e da qui ho dovuto scegliere varianti di “Angela” per gli altri due protagonisti.



d)    Che compito pensi abbia la letteratura oggi?
Credo lo stesso di sempre, cioè raccontare a noi di noi stessi. In fondo lo scrittore è un mediatore, di qualunque genere letterario si occupi. Tolkien, ad esempio, ha descritto in modo mirabile la lotta tra bene e male che c’è sempre dentro ognuno di noi, e lo ha fatto in un modo narrativo così bello che è rimasto impresso a milioni di persone. Quanti sarebbe riusciti a rendere chiara l’idea di tentazione a milioni di persone come ha fatto lui? E così anche Tolstoj, Dostoevskij. Rendono chiaro e “commestibile” a tutti qualcosa che, magari, un po’ tutti viviamo e pensiamo, ma che non ci è ben chiaro. Al di là dei classici, faccio un esempio un po’ più banale: Dan Brown. Lui ha sdoganato l’idea che la Chiesa Cattolica sia un’associazione a delinquere che cela verità scomode. Lo si pensava già da tempo, ma lui lo ha reso in modo talmente visivo e chiaro che oggi nella mente questo concetto ci è noto e familiare, più che mai. Dan Brown ha svelato, a noi, un nostro tetro pensiero riguardo la Chiesa, qualcosa con cui i cattolici, io per primo, si sono dovuti confrontare, in quel 2006-2007 in cui il romanzo sfondò. Io, per reazione, creai un romanzo dal titolo “L’Ultimo Giullare di Dio” di cui spero, un giorno, di raccontarti. Un altro esempio è ciò che ha fatto la Rowling col concetto di adolescente che, attraverso prove pesanti, trova il proprio eroismo nel realizzare la propria vita: il romanzo di formazione c’era già da secoli, ma lei gli ha dato una consapevolezza nuova e più potente. La letteratura, il mondo della narrazione tutta, ha questo potere, grazie alle emozioni che suscita: la parabola del figliol prodigo, proprio per le emozioni che suscita e per l’immedesimazione, è più potente di quanto un qualsiasi trattato di pedagogia sarà mai. Io spero di aver reso esplicito, chiaro e “commestibile” quanto il mondo della fantasia possa essere un rifugio per chi si porta dentro sofferenze grandi, e come dietro a un potere creativo possano celarsi dolori nascosti. E forse questo potere della letteratura è necessario oggi più che mai, perché viviamo in tempi confusi e rabbiosi. Del resto, lo vedi anche nel modo in cui i media manipolano le informazioni: l’arte di saper raccontare conferisce grande potere.


e)      Nel mondo del web c'è ancora voglia di leggere? perché?
Io credo di sì, sia perché questo bisogno c’è sempre stato, sia perché, oggi molto più che in passato, si sente un bisogno di alienarsi, di andare a rifugiarsi (e arroccarsi) in un mondo altro, diverso, anche se per pochi minuti. Conosco molte persone che per sfuggire alla tristezza di una vita pesante corrono ad abbracciare Harry Potter e Doctor Who che, dentro di loro, sono amici che danno senso alle loro sofferenze. La prova è nel trionfo che oggi vivono i nerd: i cosplay, le serie tv, i videogiochi, i film tratti dai romanzi… oggi più che mai si sente il bisogno straziante di ritagliarsi un mondo fantastico dentro il nostro mondo reale, e la lettura è e rimarrà sempre il medium privilegiato per questo. Il problema è che oggi la lettura è relegata a un àmbito molto veloce, rapido, saettante. Io, da scrittore, non nego che ho problemi a far mio questo ritmo, per farmi conoscere.

f)      Come pensi di promuovere il tuo libro in rete?
Eh… bella domanda. Magari avessi una risposta sola! La parola-chiave è sempre quella, “passa parola”. Come realizzare tale passa-parola… ci sono diversi modi. Intanto, mi sono creato un’identità sul web, attraverso “State of Mind”, la mia pagina che è sia su Facebook (bellissima la pagina State of Mind ndr) che su Twitter, Tumblr e Instagram. Uso le diramazioni di questa pagina in modi diversi, a seconda del social: uso facebook per mettervi tutto ciò che mi passa per la testa, tra cui un blog di recente creazione, di cui ho scritto le prime due note; uso Twitter per interagire con altri scrittori e varie realtà letterarie; Tumblr per i disegni artistici, e Instagram per le foto che mi ritraggono in momenti “letterari” e in attimi più leggeri. Tutte cose che ho imparato man mano, con la pratica: fino allo scorso settembre, ero ignorante di tutto ciò. Ovviamente, in tutti questi social, parlo del mio romanzo e dei piccoli grandi successi che (con mia sorpresa, non lo nascondo) sta avendo. Questo romanzo è solo una parte di un universo narrativo molto più vasto che, col tempo, spero di far conoscere nella sua interezza: ne fa parte anche quel “L’Ultimo Giullare di Dio” cui accennavo prima. Interagisco molto coi lettori e anche con coloro che, pur non avendo letto il romanzo, seguono con interesse la pagina: apprezzano le mie iniziative, specialmente i selfie detti “facce da Gnoffo”. In verità pochi se ne fanno, ho constatato una certa timidezza, ma piacciono a tutti e sono una delle cose più visualizzate della pagina. Spero a poco a poco, col tempo, di far crescere questo passaparola, mentre, sul piano della “realtà concreta” per dire così, curo il rapporto coi miei lettori e la distribuzione: oltre a varie presentazioni sto approntando la reperibilità nelle librerie, così che la gente possa andare a una Mondadori o a una Feltrinelli e ordinare il mio libro. Un sacco di lettori me lo hanno chiesto e ciò mi ha fatto incredibilmente piacere. Pochissimi invece hanno acquistato ebook… il cartaceo rimane insuperato. L’odore, la familiarità, il senso di possesso… ho compreso che nulla lo può sostituire.

E chi è Claudio Gnoffo?

Nato a Palermo il 21 gennaio 1987, ho sempre avvertito in me fortissima la passione per la narrazione, in ogni forma. Sono laureato con un Master di II Livello in Neuroscienze e Alta Formazione Docente di Lingua Straniera, lavoro come ghostwriter e scrivo per diverse testate online tra cui “Il Bandolo” e “LaLaPa”, per il quale ho realizzato diverse vignette. Ho diversi romanzi nel cassetto, di cui mi decido a pubblicare, nel settembre 2015, “Le Straordinarie Vite di Angela”, che si è piazzato finalista, tra 2500 opere, nel concorso “Il Mio Esordio 2015” del sito ilmiolibro.it
Mentre continuo il mio lavoro come ghostwriter, cerco di farmi conoscere sempre più come Autore, tanto di romanzi quanto di poesie e vignette.

Ps. Amo moltissimo i gatti e le lasagne, e sono veramente timido.

lunedì 18 gennaio 2016

L’illusione della perfezione



Già perché sarebbe bello essere perfetti. E non sbagliare mai. Siccome questo piace, ma non è possibile, allora si crea la perfezione artificiale, che è peggio di una droga. Perché non sfinisce solo il fisico, ma sgualcisce la psiche, e attapira l’anima, la spegne, la dissolve.
Essere perfetti vuol dire non dover mai chiedere scusa, vuol dire non dover mai rinunciare ai propri sogni perché sono perfettamente giusti.
Da dove nasce questa tendenza che abbiamo tutti dentro? Dalla necessità di sentirci innocenti? Perché in fin dei conti a tutti piace essere giusti. Sentirsi in pace. E se rimuoviamo dalla nostra vita colui che la pace può dare, resta solo un tormento, l’atroce voce dentro di noi che rode, che si muove e urla febbrile come un personaggio di Dostoevskij. Siamo tutti Raskolnikov. Solo che non ci piace. Non vogliamo.
E quando anche riusciamo a zittire la coscienza, schiacciandola come Pinocchio fece con il Grillo Parlante, ma si alza alta la voce di chi ci ricorda gli errori, allora sono questi nemici che vanno dissolti e distrutti.
Noi cerchiamo l’approvazione e la sappiamo dentro l’innocenza, la giustizia, il sapersi giusto agli occhi di tutti. La cerchiamo anche in rete, dai, è così… diciamocelo, io me lo dico per primo… voglio l’applauso, il like, il commento positivo, che quando qualcuno si oppone è reato di lesa maestà, ti aspetti che qualcuno dei tuoi fedeli –ah, no scusa, followers- prenda le tue parti. (Diceva Al Pacino Satana ne L’avvocato del diavolo “la vanità è decisamente il mio peccato preferito”).
Ma dentro, dentro che questo senso di abbraccio che cerchiamo, e siccome abbiamo scacciato il perdono, perché abbiamo esiliato Chi ce lo può dare, allora abbiamo bisogno di eliminare la colpa.
Se per sentirmi, e farmi approvare da altri come perfetto, devo lottare e fare fatica, tanta fatica, e se sperimento da solo l’impossibilità di arrivare alla perfezione, e se non riesco a trovare chi mi rialzi dopo le cadute chi mi attenda, chi mi capisca, guardi dentro di me condividendo quella fragilità che urla, che divora, allora non mi resta che rimuovo lo sforzo, negarlo. E per farlo devo cambio metro, cancellare questo metro che mi misura, mostrandomi l’errore, mettendo il luce le mie imperfezioni.
Divento metro a me stesso. E mi assolvo.
La tragedia però consiste nel fatto che negare la verità non la cambia, la realtà anche se oscurata non svanisce e rimane come pietra di inciampo. Contro la quale prima o poi si sbatte. E allora se non hai le protezioni, ti fai male, tanto male.
Che proprio coloro che ti stavano a fianco, come predoni che cacciano insieme e che quando uno di loro viene ferito si gettano su di lui per sbranarlo, sono coloro che ti calpestano, ti annientano. Infatti tutte le volte che qualcuno infrange il sogno, che mostra come la perfezione sia chimera, sia semmai traguardo e non possesso, allora è necessario, si impone, devi farlo per sopravvivere, devi spegnerlo, schiacciarlo, distruggerlo per mostrare come sia un errore di produzione, uno scarto, non uno di noi.
Il branco ti si rivolta contro per restare nell’illusione, come ne La grande magia tutto rimane sospeso per negare al protagonista il dolore del tradimento. Il branco vuole restare dentro la scatola per credere a quello che vuole, e quindi non può che buttare fuori chi, in modo palese, mostri la sua fragilità.
E qui si mostra tutta la differenza tra una vita cristiana che proprio incontro a questo escluso va, non per buttarlo fuori, ma per abbracciarlo e riportarlo –ferito come la pecora smarrita, come il figliuol prodigo- a casa, per rialzarlo, e una ideologia del volere che rigetta chiunque sveli l’inganno per rimanerne prigioniera felice.
A che cosa può condurre il disperato bisogno di amore quando non cerca il suo fine vero, ma si perde nel dilatarsi del suo io, a negarlo per ammantarsi di falsità, quasi che fossero tiare e diademi, per dare retta alle proprie voglie!

Che tutti abbiamo dentro questa voglia di sentirci amati per quello che siamo, e non c’è bisogno di fingersi perfetti –fisico impeccabile, sorriso smagliante, vestito a pennello, auto che romba, compagno senza pieghe, figli senza preoccupazioni e senza difetti fisici comperati a misura- per essere voluti bene. Basta accettare l’amore da chi lo può dare senza limiti.

Quale responsabilità abbiamo noi per farlo percepire anche a chi sembra essere completamente sordo e autistico in questa sua ricerca che dirige sulle cose invece che nella coscienza!

Quale impegno per essere quella voce che mostra l’innocenza anche quand’è nascosta nel letame, e la sa tirare fuori, parlando chiaro e con affetto!




II
Questa è una provocazione. Lo dico subito. Per evitare che qualcuno poi salti su e mi minacci. Perché poi avrei paura io. E allora te lo dico prima.  Che sto provocando. Chiamando fuori il pensiero. Grattando l’anima con la carte vetrata per vedere che effetto fa.  Spingendomi oltre le colonne di Ercole.
Ti ho incuriosito eh? Tecniche di bassa retorica…
Non ce la meritiamo più la democrazia, non fa per noi. È un errore storico.
È una forma sottile e subdola di dittatura.
Ecco la bomba.
Abbasso la democrazia.
Perché quando la inventarino i greci avevano un prerequisito che era così fondativo e ineludibile da non essere neanche citato. Se respiri mica lo ricordi ad ogni passo. Che devi respirare. Inspiri ed espiri. Punto.
Così la democrazia.
Ha bisogno dell’etica, della verità. Del fondamento.
Già, ma che cosa è l’etica? È la verità sul bene e sul male. Sul significato della vita. E ti allena a pratica virtù che, in campo sociale, suonano così: c’è un bene della comunità che è più grande del mio interesse di individuo.
Ed è il punto chiave. Perché la democrazia non può fare a meno di questo. Possiamo dissentire su come raggiungere il bene della polis, ma non abbiamo il minimo dubbio che quello prevalga sul mio egoismo. Sono pronto ad affrontare tutto, anche la sconfitta, anche la morte, perché la comunità viene prima.
Concetto che poi è stato elevato dal cristianesimo ad un valore più alto, dato che la comunità diventa il corpo mistico di Cristo. E non posso salvarmi senza tenere in conto la pratica di virtù che sono per definizione sociali: se quello che resta alla fine di tutto è la carità, è evidente che il cristiano non può salvarsi nel suo cubicolo in isolamento totale –non solo fisico, ma anche spirituale che la clausura non è annichilimento delle relazioni, anzi amplificazione per altri canali- e quindi non può che essere un animale sociale.

Oggi siamo passati dal bene comune al voglio personale.

Ciò che conta sono i miei diritti, quali che siano. Perché io non SONO, io VOGLIO. Che poi è il nome del demonio. Mentre Dio si presenta a Mosé spiegando l’essenza “io sono colui che è” il diavolo si racconta attraverso la volontà, il volere, e il non volere, non voler servire, quindi amare. Chissà se gli fischiano le orecchie a Nietzsche?

Oggi noi vogliamo. Per noi. Per i nostri obiettivi. Siamo così implosi in noi che cancelliamo ciò che dovrebbe durare per sempre, ma che vediamo come un peso (il matrimonio) e pretendiamo invece duri in eterno ciò che ci interessa, a noi come vantaggio personale, come il contratto di lavoro. A prescindere.
Vogliamo un figlio. Non lo vogliamo.
Tutto qui

E quindi ce ne freghiamo del bene comune.
Votiamo e decidiamo per riempire la pancia.
Abbiamo stravolto i principi essenziali della democrazia, che è un servizio alla comunità.
Ma dove la comunità non esiste, al massimo finisce per essere community, che è tutt’altro dato che è ispirata a vantaggi condivisi che non vuol dire comuni, la democrazia si dissolve.

Non ce la meritiamo la democrazia. L’abbiamo illusa e tradita.
Che quale dovrebbe essere il luogo nel quale insegni i principi che la mantengono viva? No, non in televisione.
Il luogo è la communio personarum ossia la famiglia come la definiva Giovanni Paolo II, dove ci si ama a prescindere e si insegna, perche la si pratica, la carità reciproca che è fatta di sacrificio voluto, con il sorriso alle labbra, perché si vuole  il bene degli altri.
E cos’è che stanno distruggendo proprio in questa sua radice?
Bravi! La famiglia!
Sostituendola con un fantoccio che si arroga il medesimo nome, ma con finalità diverse. Diventa coabitazione di egoismi, convivenza a termine finché ne traggo un vantaggio personale. Che quando finisce pazienza, o anzi no, se finisce ti uccido perché non sopporto il peso, che è una forma folle, diabolica, disumana di egoismo confuso con amore.

È un caso secondo voi?

lunedì 11 gennaio 2016

Il peggior insulto


Il web è come la Forza: è potente e ha un lato oscuro.
Che scatena il peggio che è in noi. Anche il meglio, a dire la verità, ma qui lo lascerei un attimo da parte. Il meglio. Per mostrare una differenza che, me ne rendo conto, è difficile da capire ed è legata molto ad una caratteristica della verità che è difficile da digerire, anche da coloro che la professano. O ci provano.
Prendi una di quelle schermaglie che, a volte, diventano aspre e acide, presto scivolano oltre il confronto per diventare insulto, offesa, violenza e si spera solo verbale.
Quante volte il nostro direttore è stato sommerso da ingiurie di questo tenore!
Tra tutte quella che viene riservata per ultima, in un crescendo di violenza, e quindi immaginata come una tremenda minaccia, la peggiore che si possa riservare per il peggiore nemico, quello per cui non hai nessuna pietà, solo rancore, solo odio, di quello grasso, unto, rabbioso, è “che tu possa avere figli omosessuali!”.
E qui si spalanca un mondo. Quello della verità.
Perché si dimostra il nostro errore, non essere stati capaci di mostrare la differenza, quella che appunto, dicevo, qualifica in modo inequivocabile la nostra fede, nostra non nel senso che la sappiamo vivere e comunicare, ma che è quella nella quale abbiamo deposto la nostra speranza e la nostra debolezza.
Che si palesa nell’amore.
Basterebbe questo per dimostrare che è vera perché se la religione fosse la proiezione del proprio desiderio, mai credo sarebbe stato disegnato un Dio che ti schiaccia sotto il peso dell’amore per i nemici, che ti umilia invitandoti a porgere la guancia, che spazza via ogni tuo desiderio di vendetta ricambiandoti con pari moneta minacciandoti di giudicarti proprio con quel medesimo metro. Un Dio che non scende a combattere con te contro i miscredenti, che non spezza ossa a chi ti minaccia, a chi lo deride, ma anzi li abbraccia e li va a cercare.
Non è una corona ferrea a cingergli il capo, ma una di spine, la cintura è di sofferenze, non esplosiva per divorare i cattivi. Quelli che per me sono cattivo ovviamente.
Ecco, questo Dio qui, questo Cristo qui, m’ha insegnato che se anche avessi un figlio omosessuale –o assassino, o ladro, o tangentaro, o pedofilo, o convivente, o corruttore, o spergiuro o… peccatore in qualsiasi modo gli passi per la testa- io non dovrei proprio smettere di amarlo, fino all’ultimo, ed essere suo servo e pregare per lui.
Che l’amore non passa attraverso la perfezione, concetto difficile da capire per una società che cerca solo la perfezione, che si crea delle regole perché ogni comportamento sia perfetto, e quando si accorge che l’imperfezione esiste allora la scaccia lontano da sé accusandola di ogni dolore che produce, soprattutto quello di additare –tutto dice “più in là”- all’esistenza della sofferenze e della colpa e quindi alla necessità della redenzione e dell’amore, e schiacciandola nel fango: così si comporta verso i deboli di ogni sorta, dai vecchi ai malati ai portatori di handicap, ai colpevoli che, bollati per sempre, non trovano più spazio in una società che sembra affermare “sei libero di fare quello che vuoi, perché proprio ciò che io aborro hai fatto?”.
Io amo a prescindere, amo la persona, che sia peccatore o down, celiaco o furioso, perché è una creatura divina, che merita come me tutto il sangue di Cristo. Perché è un’anima. Se poi non riesco ad amarla così, non è per colpa sua, ma mia.
Quindi questa minaccia si sfarina, scoppia come bolla di sapone nel vento, sotto il cielo terso.
Certo che preferirei un figlio che crede in ciò che credo io, che è diverso da dire gay o assassino o ladro o divorziato o quello che volete voi, chi non lo vorrebbe? Ma sappiamo bene che è come è che io devo amarlo questo figlio, e pregare per lui, e implorare come Santa Monica per Sant’Agostino, ma senza mai mai smettere di accogliere.
Perché amare non è apprezzare la perfezione e rigettare la difficoltà. E non  è neppure dire sempre di sì. Quella è voglia di audience, desiderio di quorum, speranza di comperare con la concessione –vizio, si chiama vizio, si dice viziare!- l’affetto di mio figlio.
O di un amico. O di un fidanzato.
No.
Amare è approvare come sei, e aiutarti a capire dove sbagli, indicarti la via senza mai imporre, senza mai smettere per un solo secondo di amare. Volere bene significa volere il bene, per questo impone che prima si capisca che cosa è il bene per te, e poi ti aiuti, mettendomi al tuo fianco , a proportelo.
E non mi venite a dire che amore non è desiderare che tu cambi o provarci a cambiarti, perché questo sarebbe buonismo. Intanto tra coniugi c’è una cosa che si  chiama finalità unitiva o del mutuo aiuto, aiuto alla santificazione e quindi al miglioramento. Poi verso i figli c’è l’educazione, che è guidarli alla santità, e poi basta prendere il famoso episodio dei discepoli di Emmaus per vedere come Gesù, lungi dal piegarsi ad un buonismo che gli farebbe abbracciare i due discepoli così come sono –delusi fuggitivi- li guida, camminando vicino a loro, e sgridandoli, a vedere la verità tutta intera.

Questo bisogna far capire loro, che quell’insulto non è affatto tale, è une condizione come un’altra che un genitore accetta nel momento in cui si fida a diventare madre o padre.
E questo è una grossa responsabilità, farla capire vivendo, che tocca ad ognuno di noi.


mercoledì 30 dicembre 2015

Il caffè del 2015: i finalisti


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lunedì 7 dicembre 2015

Il racconto della domenica: madre



Madre, oh madre. Mi è vietato dimenticarmi di te. Ogni volta che passo davanti all’ospizio dove sei morta, mi assale un brivido che riesce a mescolare senso di colpa e di liberazione, come se queste due dimensioni non potessero essere disgiunte neppure ora che non sei più qui e che ti immagino in una pace senza fine, la pace che hai inseguito sempre, travolgendo tutto e tutti in questa tua ricerca astiosa e irrequieta.
Anche me.
E questa ansia, la tua inquietudine, me l’hai lasciata come un dono, come una eredità scomoda, ma saggia. Di quelle che ti tengono desta l’anima, in un combattimento senza fine. Perché la pace può essere figlia di due opposti: della stupida e dannata pacificazione, come una pianura secca e deserta, sotto un cielo dilavato e piallato, senza vento; oppure di una guerra senza fine, combattuta contro noi stessi, senza tregua e senza prigionieri, senza notti in cui riposare, senza cieli da contemplare, piena di vento, quello freddo, tagliente, che scende da Nord e non si arresta se non alla giuntura tra anima e carne, e forse neppure lì, quella guerra che lascia senza fiato, eppure felici come l’eroe che dà la vita per ciò in cui crede.
Dicono che coloro ai quali viene amputato un arto, chessò una gamba, per anni continuano a sentirlo ancora come se fosse ancora lì, appeso a loro. Ecco, con te io provo la medesima cosa. Sei sempre qui, aggrappata a me come lo eri in vita. Il tuo amore rabbioso e violento mi soffocava: lo caricavi di tutte quelle risposte che non avevi avuto dalla vita, non perché lei non te le avesse date, ma perché non ne eri mai contenta. Eri tesa sì, ma non serena: sostenevi di avere un conto aperto con la vita, e lo facevi pagare a tutti coloro che provavano ad amarti, come se per contrappasso quell’amore dovesse torcersi in vendetta.
E’ strano, anche se la tua morte, da sola –mi hai preso per sfinimento e questo io non me lo so perdonare, di averti lasciato morire da sola, in coma d’accordo, ma senza nessuno che ti tenesse la mano, nemmeno io, e questo mi ripugna, per pietà e per orgoglio: non poter dire che io c’ero, che sana umiliazione, vedi in fin dei conti mi hai amato anche morendo di notte per lasciarmi questa amarezza dolce che sana e sradica i miei vizi- in quella stanza singola che finalmente avevi ottenuto, come ennesimo capriccio, come se stesse lì tutto il bene dell’universo, anche se la tua morte ha sedato il mio risentimento, e spalancato la porta ad un amore che sapevo di avere per te, ma non di questa intensità, non ha sopito i ricordi oscuri, né li ha ammantati di quella dolcezza che sembra l’assenza regali ad ogni memoria. Tutt’altro. Li ha resi più vivi, lucidi, taglienti, anche se li ha privati di quel veleno che, quand’eri in vita, mi annebbiava la vista e mi soffocava il cuore spingendolo giù in un fango d’odio e di dipendenza nel quale mi sembrava di sprofondare come in sabbie mobili maligne.
E così la prima immagine che vedo non è il sorriso con il quale mi accoglievi da bambino, non ancora così tirato e sciapo come da vecchia, né l’abbraccio con il quale mi ringraziavi di esserci. Non è quello sguardo acceso d’amore che luccica ancora in una vecchia foto in bianco e nero. Sei sullo sfondo, di sbieco, chinata, tieni quegli occhi luminosi, come non ho mai più visto, su di me che poco più avanti, ma a fuoco, in primo piano, muovo i primi passi e si vede che traballo, con quella bavaglina di stoffa colorata che ricordo benissimo, per uno di quegli strani giochi della memoria che si divertono a estrarre dalla nebbia particolari che ti dicono quello che non riesci più a ricordare. Stai lì e mi guardi e la gioia sembra colorare questa foto con i bordi bianchi frastagliati; e io non ti vedo, ma so che ci sei, che sei pronta a sorreggermi. Mi fido. C’è tutta la nostra vita lì. Anche papà, lontanissimo, nell’oscurità del corridoio, lui che se ne è andato per primo e che ti ha aspettato con la medesima delicatezza celata con la quale ti lasciava in primo piano, in piena luce, per scegliere sempre le tinte pastello, gli spigoli dei minuti, le macchie d’ombra. Sono sempre convinto che ti avesse dato uno schiaffo alla tuo ennesimo capriccio, avesse avuto il coraggio, la vita di tutti sarebbe stata diversa. Presumo migliore.
No. Non è quel viso, quella luce che ricordo quando chiudo gli occhi e ti penso.
Ma la brace della tua sigaretta che cerca di contrastare l’oscurità nella quale ti chiudevi. La luce rossa intermittente di quando mi portavi a dormire con te di pomeriggio, da bambino, in due sul mio letto, testa a piedi, perché io dormendo non ti disturbassi il riposo. E vedo quella luce accendersi e spegnersi alternata al rumore che facevi per scrollare la cenere nel posacenere di rame sbalzato che ora fa mostra di sé, come un reliquiario, tra gli oggetti che ho conservato. E la stessa luce, nella cucina scura, tenevi sempre le tapparelle abbassate, mentre severa mi giudichi –mi giudicavi sempre trovandomi sempre colpevole per potermi donare la tua misericordia, cosa che ti faceva felice perché ti permetteva di crederti magnanima- e stai in silenzio, fumando, toccandoti i capelli, torcendo la bocca e gli occhi curvando al suolo, sospendendo il tempo, così da prolungare la mia sofferenza e la tua soddisfazione.
Eppure mi amavi, tanto. E volevi tenermi per te. Solo per te. E anch’io ti amavo, ti amo anche ora. Come potrei non amare chi mi ha dato la vita. E che, tragicamente, per conservarmela felice, ha spento dentro di sé quella di due fratelli che non ho mai avuto. Così come spegnevi la sigaretta, con rabbia e rapidità. Sono un sopravvissuto, mamma. Un figlio unicizzato. Un bambino bagnato nel sangue dei fratelli ed elevato a divinità, con il compito di tenere insieme la famiglia perché tutto si fa per lui. Tutto. Come un buco nero che attragga ogni cosa a sé, strappandola alla sua esistenza, macinandola in un affetto che si macera nell’autocompiacimento. Perché l’amore per me, me ne sono accorto presto, in realtà era un pretesto, uno specchio: avevi così tanto bisogno di affetto che mi imprigionavi in quell’abbraccio che assomigliava di più alla presa di un rapitore che alla protezione di una madre.
Mamma, questo acido mi cola ancora in cuore adesso che ti parlo, qui in piedi davanti a quel che rimane di te qui in mezzo a noi, e non riesco a discernere il bene dal dolore, a tirare una riga secca tra il tuo egoismo e il mio, tra la tua sofferenza e quella che provocavi con una scienza quasi perfetta.
Perché soffrire hai sofferto, e spesso per causa di altri, anche se negli ultimi anni i tuoi ricordi spesso venivano annacquati dalla fantasia, da ciò che temevi, volevi, speravi. E la violenza subita si confondeva con quella che desideravi aver ricevuto per poterti vendicare e vantare. Ricordo gli ultimi giorni. Di agosto, sulla terrazza abbruciata della casa protetta. Biascicavi parole, parlavi a sproposito, criticavi, mi chiedevi, pretendevi. Niente di diverso. Eppure dovevo capire che erano le ultime ore e restarne appeso come ad un ramo che ti salva dall’abisso. E invece l’ho lasciato andare e invece di precipitare io, sono rimasto sospeso e nella voragine sei caduta tu.
E mamma, mentre non riesco a rimuovere quella rigatura d’odio che attraversa la nostra vita in comune -sapessi quanto ci hai fatto soffrire, madre mia- adesso non posso che sentir crescere l’affetto nuovo, purificato, rafforzato che nasce da una vicinanza nuova, separata solo dal sottile velo del cielo.

venerdì 4 dicembre 2015

Tramonti di inciviltà



LaCroce 2 dicembre 2015


Farenheit 451 racconta un mondo che ripugna a tutti. Insomma non ci piace un futuro senza cultura. Senza libri. Un mondo appiattito e dominato dalla televisione, che quando Bradbury scrisse il romanzo, era l’emblema del Grande Fratello ovvero del controllo del pensiero (va bene essere visionari, ma ad Internet l’autore dell’Illinois proprio non pensava).
Non c’è qualcuno che non provi sgomento e rifiuto per questo mondo stretto nelle morse del potere.
Eppure è proprio lì che ci stanno conducendo esattamente coloro che sdegnosamente rifiutano un futuro dominato dalla tirannia del pensiero.
Perché alla radice del mondo di Farenheit 451 c’è la politically correctness. Ma va? Riprendiamo un brano forse dimenticato che dipinge, con crudele spettacolarità, la nostra epoca:  "La vita diviene una cosa immediata, diretta, il posto è quello che conta, in ufficio o in fabbrica, il piacere si annida ovunque dopo le ore lavorative. <...> La vita diviene così un'immensa cicalata senza costrutto, tutto diviene un'interiezione sonora e vuota. <...> Tutti sono sempre più impazienti, più agitati e irrequieti. Le autostrade e le strade di ogni genere sono affollate di gente che va un po' da per tutto, ovunque, ed è come se non andasse in nessun posto. <...> Consideriamo ora le minoranze in seno alla nostra civiltà. Più numerosa la popolazione, maggiori le minoranza. Non pestate i piedi ai cinofili, ai maniaci dei gatti, ai medici, agli avvocati, ai mercanti, ai pezzi grossi, ai mormoni, ai battisti, unitarii, cinesi della seconda generazione, oriundi svedesi, italiani, tedeschi, nativi del Texas, brooklyniani, irlandesi, oriundi dell'Oregon o del Messico. <...> La gente di colore non ama Little Black Sambo. Diamolo alle fiamme. Qualcuno ha scritto un libro sul tabacco e il cancro ai polmoni? I fabbricanti di sigarette e i fumatori piangono? Alle fiamme il libro! Serenità. Pace. I funerali sono dolorosi e pagani? Annulliamo anche i riti funebri».  "Noi dobbiamo essere tutti uguali. Non è che ognuno nasca libero e uguale, come dice la Costituzione, ma ognuno viene fatto uguale. Ogni essere umano a immagine e somiglianza di ogni altro".
Drammaticamente attuale non vi pare?.
Guardiamo ad alcuni fatti della settimana, per dare profondità a questo scenario: Monica Ricci Sargentini, giornalista del Corriere della Sera di elevatissima onestà intellettuale, pubblica su la 27esimaora, rubrica del CorSera online, un articolo riportando il parere di movimenti femministi a proposito dell’utero in affitto che condannano questa pratica di abuso della donna. Viene denunciata all’UNAR per omofobia. Se fosse in vigore la legge Scalfarotto sarebbe passibile di carcere. Numerose giornaliste intervengono a sostengo della collega: in un articolo apparso su Lezpop.it tutte vengono bollate con l’etichetta di omofobe.
Non basta: si moltiplicano in Italia le iniziative di inappropriati dirigenti scolastici che vietano canti, presepi, manifestazioni natalizie che si rifacciano al senso stesso della festa: la nascita di Gesù.
Dacia Maraini, una di quelle firme alle quali non possono dire di no i quotidiani radical chic anche se vorrebbero farlo, blatera di un “savio e civile relativismo” che sarebbe foriero di una “umana e tollerante convivenza” ovviamente da contrapporre alla “fedeltà ad un Dio antico, dispotico e fermo nel tempo”: parla di Islam ma pensa, si capisce, anche al cristianesimo.
Il laicismo si guarda allo specchio e pretende che l’equidistanza, anzi l’equivicinanza come ebbe a dire una volta D’Alema, sia appunto l’annullamento di ogni valore, la distruzione sistematica di radici culturali, l’annichilimento della regione e della realtà a favore di un piattume che non può reggersi in piedi, perché il vuoto che lascia è subito riempito dal più forte. Che, fregandosene bellamente della spocchiosa tolleranza, spedisce i suoi panzer –o terroristi- a conquistare i territori privati delle difese, svuotati dall’interno.

A margine osservo come questo fenomeno succeda sempre, tutte le volte che si pretenda di sostituire muri con ponti in modo arbitrario. Se infatti è bene andare incontro, movimento che produce vita, è un errore grave farlo iniziando dalla distruzione dei propri muri, costruiti non a difesa ma per definizione, non per impedire l’uscita ma per descrivere il cuore.
Ogni volta che si presuma che per andare dall’altro bisogna nascondere, quando non rimuovere, ciò che si è –paradossalmente lo afferma anche Michele Serra dopo che lo ha gridato ai quattro venti Matteo Renzi, interpretando un sentire comune (altrimenti non si sarebbe esposto)- si finisce per farsi conquistare non dall’altro, ma dal nemico.
Nessuno può essere favorevole alla guerra, ma se il tuo nemico ti attacca è bene difendersi come si deve.

Cosa fare per sconfiggere questo cancro del pensiero, che attacca la lingua per attaccare i valori?

Iniziare da noi, perché la politically correctness ha radici nel nostro egoismo. Lo afferma magistralmente Bradbury, lo abbiamo sentito: Tutti sono sempre più impazienti, più agitati e irrequieti.
Quando iniziamo a ragionare partendo dal nostro ombelico, quando è il nostro punto di vista quello che determina la realtà, allora tutto si sfarina ed esplode in una nuvola di silenzio. Finisce l’eco stessa del pensiero.
Non posso più usare le parole perché qualcuno si offende: pensiamo all’inquietante reato di georazzismo per cui gli sfottò locali sono denunciati come crimini contro i localismi. Il che vuol dire che eccelsi esempi di ironia, come lo striscione dei tifosi viola “voi comaschi noi co’ le femmine” oggi sarebbe considerati doppio reato: lariofobia e omofobia. Ma lo stesso Dante Alighieri, a cui si devono epiche invettive (ahi Pisa vituperio delle genti!) oggi sarebbe denunciato alla UNAR.
Oggi non si possono più fare iperboli o parabole, non si può più giocare sulla violenza di alcune espressione, le barzellette stesse sono considerate con sospetto perché tutto è sempre incline ad offendere qualcuno.
Che se la prende.
Navigando nei social capita così di incrociare insegnati, genitori, professionisti pronti a caricare a testa bassa perché, partendo dalla propria circostanziata realtà, si offendo se qualcuno parla male del mondo dell’istruzione, delle Poste, dei portatori di qualche patologia (guai ad utilizzare termini come autismo, dislessia, favismo, ipertiroidismo, claudicanza come metafore di situazioni complesse!), del lavoro, ecco che scendono in campo per difendere il mondo guardando solo la propria cucina e affermando che poiché loro, da loro, intorno a loro, quello non accade, allora non può accadere!
In palese contraddizione logica, negano la possibilità di generalizzare generalizzando loro ciò che osservano o praticano.
La battaglia contro la politicaly correctness, che è la strada per distruggere i valori, si fa affermando la propria debolezza e credendo nell’auto-ironia. Un mondo che non sa ridere di sé è destinato al suicidio.
Solo offrendo il petto alle critiche, invece che chiuderci nella difesa dall’ultima inventata qualcosofobia, riusciremo a difendere i valori sulle mura lontane dal cuore. Possiamo fare qualche cosa di concreto rinunciando a guardarci l’ombelico e a pensare di essere il mondo. Del resto è ciò che una società senza padri, colui che appunto afferma che il mondo non sei tu, fatica a fare.
Sono convinto che se non si ricomincia da qui, dal gusto della contesa verbale onesta e sincera, dal gusto dell’iperbole e della violenza del ragionamento, violenza intesa come forza capace di strappare la maschera e liberare la verità che oggi viene sepolta dalla correttezza politica che è solo ideologia, senza questa forza che strappa l’eccesso per rivelare la vera forma nascosta, finiremo preda dell’ISIS del ragionamento, dei terroristi del piacere, capaci di renderci schiavi in nome della libertà, quella dei loro vizi, che alla fine, deridendoli, li metterà in catene e li getterà –ci getterà?- nello stagno di zolfo e fiamme.