Prossimo post venerdì 4 maggio
E non so neppure perché sono qui, perché sono entrato qui.
Passavo. E adesso me ne sto qui davanti a te. Anzi, davanti ad una statua che
pretende di rimandare a te. Se ci sei. Che questo è ormai un dubbio. Prima ero
sicuro. Che il cielo fosse vuoto intendo. Un inganno. Come una cosmica candid
camera, che ci fanno credere sia abitato e invece no che non lo è. Vuoto non
perché qualcuno l’abbia abbandonato, ma perché nessuno c’è mai stato. E invece
oggi mi è sceso nel cuore questo tarlo, questa voce chioccia e stonata, che
vorrei tanto soffocare. E fomenta, e tormenta, e provoca. Assicurandomi che sì,
ho proprio ragione, il cielo è sprangato, come una saracinesca bollente, non
tanto vuoto quanto inaccessibile. Sconfinato e blindato. E allora, anche solo
per il gusto di contraddirla, m’ha preso un uggia urticante, una smania
infastidita che m’ha condotto qui dentro, davanti a questa scultura lignea
essenziale e devo dire decisamente semplice, ingenua, brutta, e ora m’ha
piegato le ginocchia e chinato il capo, come una mano decisa e materna che mi
invita a spegnere il mondo.
E così, sommesso e composto, posso lasciar sfogare la mia
paura che sale piano dal cuore e si irradia paralizzando ogni muscolo. Sì
Signore, ho paura. Non di te. Che non ti conosco, ma quel che sento è una
pazienza infinita come mia madre quando tornavo a casa, in ritardo, e sporco,
magari stracciato, le ginocchia ferite. E invece che urlare, mi prendeva in
braccio e mi cullava. Ecco, di questo ho bisogno, di essere avvolto da un
affetto che non ho più sentito da allora. No, lo so che la famiglia… E che non
mi posso lamentare. E che la amo lei, mia moglie, e lei mi ama anche di più e
che i figli... Lo so. Ma è diverso. Non è l’amore che lei può darmi quello di
cui ho bisogno ora. Perché dentro il suo affetto non c’è la speranza, o
addirittura la certezza. Di questo ho bisogno ora. Ho paura, non so come fare,
come trovare la luce in questa penombra che scende lieve, quasi allegra, ma
vorace. Quando alzo lo sguardo sul futuro, la vista si fa miope, tutto si
sfuoca e poi l’orizzonte si chiude nella notte. E la morsa stringe il cuore.
Cerco di lottare, ma il veleno sta arrivando al cervello perché la tentazione
di lasciarmi andare è sempre più grande. Sogno di adagiarmi nell’acqua calda,
di quel tepore morbido come una schiuma, e galleggiare contemplando il sole
sopra di me, e giacere lì, senza muovere neppure gli occhi fino a che la
corrente mi culli e mi conduca oltre la linea che serra il futuro. E mi sciolga
nel mare così, con dolcezza e senza dolore. Lo so che è una diserzione, lo so
che è egoismo, ma se non mi aiuti tu in qualche modo Signore, se ci sei, io lo
faccio. Io esco e lo faccio.
Perché questo terrore sta dilagando, occupando come un
nemico astuto tutti gli spazi della mia giornata, affogando la speranza nei dettagli. Non riesco più a fare
quello che vorrei, non riesco più ad alzarmi all’ora che vorrei, non riesco più
a leggere quello che vorrei, il tempo mi sbeffeggia, illudendomi di possederlo
con attività che in realtà lo disperdono e poi ruggendo quando mi rendo conto
che il debito cresce a dismisura e anche qui raggiunge cifre che non riuscirò
mai a colmare.
Perché se da un lato si spegne la speranza, dall’altro
cresce il fallimento. Se guardo avanti il cielo è spento, se guardo indietro
vedo il fuoco che mi insegue. Che cosa ho fatto? Che cosa posso vantare? I
figli? Che cosa ho saputo dare loro? Denaro? No, anzi, sono di quella
generazione che brucia quello che la precedente ha accumulato lasciando il
deserto a quella che la segue. Forza? No, ma fragilità. Li guardo e temo che il
primo vento forte non li agiterà ma li sradicherà portandoseli via come un
tornado un alberello. E nei loro occhi vedo le mie colpe, non la loro scelta
libera, ma le mie catene. Ma questo non spegne nella colpa la mia delusione:
che se da un lato mi sento addosso la macchia per la loro, dall’altro sento una
rabbia scomposta contro di loro, per la delusione che non mi hanno mai
risparmiato. Una delusione che ha
radici in me non in loro e che quindi è più figlia mia di loro stessi. E
proprio per questo mi irrita, perché mi deride dipingendo in loro le mie
incapacità.
Dell’adolescenza ti rimangono in mente immagine spezzate,
sparse: l’amica della ragazza che filavi che le dà di gomito mentre passi, loro
appoggiate al calorifero nell’atrio della scuola, tu passo annodato e testa
bassa. E tutti e due arrossite senza sapere come nasconderti eppure provando un
senso di orgoglio e felicità. Le scale del liceo e la balaustra dove ti
sporgevi per vederla entrare, lei che non ci sei mai riuscito a parlarle,
neanche a fermarla, e una volta le hai scritto e pensi che starà ancora ridendo
di te. Il bar dove giocavi a boccette con tuo padre a mare, e dove poi avresti
aspettato la telefonata di lei anni dopo, quando il massimo della mobilità era
la cabina nel vicolo, o la complicità di un amico che ti lasciava usare il telefono.
E se qualche volta sogno di tornare a quegli angoli, quelli del tavolo messo all’angolo con sopra le bevande, come canta Ruggeri, non fosse che perché il
futuro ti guardava muto, senza sbeffeggiarti, solo illudendoti, non che non ci
vorrei tornare, perché non baratto quella slavata sicurezza con la felicità,
tenue eppure salda, che sento tremolare sullo sfondo, come una musica lontana,
come la luce sommessa di un faro in una notte tempestosa.
E torno a te allora, sperando che Tu ci sia, che questo
calore che ora sento non sia ancora la ruggente beffa del destino, ma la
notizia di un approdo sicuro, che in qualche modo arriverà, non so dove, non so
come, ma arriverà. E potrò riposare calmo. Senza più paura.
Che la paura si sta sciogliendo mentre sono qui, pesante
sulle ginocchia, e fuori il giorno
si dissolve non più nella notte buia, ma nella sera calma, tiepida,
rassicurate.
Sto tornando a casa.
Caro Paolo, mi mancano le parole ma nel leggerti ho provato una stretta al cuore e la mia preghiera ora fluisce certa che il Signore non abbandona. Ti sono vicina.
RispondiEliminaMolto poetico, molto realistico. Sono un po' confusa perché sembra che non stai parlando di te ma di qualcuno che conosci profondamente. Altrimenti devo ammettere di non averti mai veramente compresa.
RispondiEliminaAllora non dico nulla e ti ringrazio soltanto.
chiarisco onde evitare incomprensioni: come sta scritto, in modo evidente, in cima a tutto, questo è un racconto, è opera letteraria, frutto del lavoro do un scrittore (sedicente tale) che interpreta quello che vede, e che magari in parte prova in sé, per raccontare una storia, verosimile, che faccia pensare, riflettere, pregare.
RispondiEliminaCome se leggeste un romanzo, non una cronaca, neppure una biografia, tantomeno una auto biografia.
grazie di cuore
Paolo
Allora scrivi troppo bene ;)
RispondiEliminaUn caro saluto!
grazie mille Karin....
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