Quando i cinquant’anni sono stati raggiunti e superati con la velocità del suono di una sirena arrabbiata, tre sono le possibilità che rimangono all’uomo che non vuole rimanere ad attendere l’impatto indifeso e inconsapevole: farsi l’amante, farsi una macchina rossa, scrivere un blog. Dato che mi state leggendo (davvero? Mi state davvero leggendo?) avete compreso che ho scartato le prime due ipotesi. E per scelta volontaria e creduta, non certo forzata.

Ma che cosa e perché scrivere? Condividere, o l’illusione di farlo, aiuta spesso a sentirsi in compagnia di fronte alla piccole battaglie della vita: quelle grandi, si sa, le si può affrontare solo in compagnia di se stessi, senza nessuno scudiero o cavaliere al proprio fianco.

La prima delle sfide e quella che affettuosamente potremmo definire di san Giuseppe, che di fatto nomino mio speciale e personale protettore confidando sulla sua ironia e bonomia. In che cosa consiste questa sindrome? Nel sentirsi ovviamente il più imperfetto della famiglia dovendone invece apparire la guida salda. Non che con questo voglia affidarmi a una melliflua umiltà fasulla, l’autocompiacimento di sentirsi negare la denigrazione e gustare così una vanitosa ricompensa per la propria maliziosa modestia. Affatto. Lauto compiacimento può derivare solo dalla concretezza. Non che non sia vanitoso, tutt’altro: la vanità è sempre in agguato, come ben sa il diavolo impersonato da Al Pacino nel mondo degli avvocati.
Gli è che essendo proprio vanitoso e anche intelligente, so bene che l’ambizioso deve attingere a piene mani all’umiltà: per crescere, ambizione che può essere anche nobile e saggia, bisogna capire dove migliorare. E per capirlo non c’è che l’umiltà.
L’ambizioso vanesio e superbo farà una brutta e rapida fine.

Quindi qui sto: con una moglie tendente alla perfezione, pur con difetti marginali che provocano in me tanto irritazioni quanto ammirazione per la loro trascurabile banalità; con tre figli che, come recitano brutti film, hanno preso maggiormente da me i difetti, e quindi non posso accusarli di una eredità che ho trasmesso loro; con un lavoro che amo e che ogni mese mi sfida sempre di più, aiutandomi a non fare mai mia la sicurezza.
Di che scrivere dunque?

Della precarietà, della inadeguatezza che mi rende comico a me stesso, specchio delle cose che ho appreso e che rivedo, con squarciante veridicità, nel mio quotidiano.

lunedì 28 maggio 2012

Facebookiamoci 2




Facebook è un mondo strano: (ne abbiamo già parlato qui) stai lì a meditare un post di quelli che vorresti diventassero targhe sulle facciate delle piazze, chessò un castigat ridendo mores o un sic transit gloria mundi, insomma quegli aforismi epici che vengono tramandati di generazione in generazione e magari ci riesci anche e non ti si fila nessuno.
Poi ti passa per la testa una, per dirla con Fantozzi, “cagata pazzesca” e sollevi una ola di “mi piace”.
Così sulla bacheca di un gruppo amico scopro una discussione affascinante dove si vuol fare le pulci alla padrona di casa, che dell’autoironia e del servizio ha fatto il proprio stile, redarguendola con sommessa severità perché invece di accozzarsi alla figlia (nel senso di starle incollata come cozza allo scoglio) si concede un intervento all’aula Nervi in presenza di Nonno Benedetto XVI per testimoniare fede e famiglia.
Ma il bello deve ancora venire: al moderato commento di chi fa notare all’incauta moralizzatrice che stare in famiglia non consiste nel vivere in simbiosi come attinia e bernardo (paguro) si scatena la diga. E con simili parole, se non proprio queste, il nuovo tentativo di ragionamento viene così demolito: “Noi vogliamo essere uno sempre in ogni cosa che si fa e si vive. Certo durante la settimana c'è il lavoro (lavora solo mio marito) e la scuola. Ma sabato e Domenica sempre insieme... sempre... anche ai compleanni degli amichetti e alle cene di mamma e papà. I miei figli hanno 9 e 7 anni chissà, forse da adolescenti non andremo alle loro feste ma, per quanto possibile, prego affinché condivideremo la maggior parte del nostro tempo”.
Ora, a parte il fatto che li aspetto a Filippi questi che vogliono andare alle feste dei figli adolescenti (modo migliore per trasformarli in aspirati pietromaso), e il fatto che la preghiera finale mi sembra più una maledizione da strega alla festa della belladormentata “d’ora in poi starete sempre sempre insieme!” ciò che mi ha divertito è sorpreso è che, essendomi io concesso un commento con un pH inferiore a 7, anche se non di molto, ho prodotto una valanga.
Volendo intervenire con garbo e delicatezza, ho tirato fuori dal fodero l’ascia bipenne e ho scritto “beh per la verità sempre sempre insieme sembra più una condanna che un piacere...” ottenendo in cambio del mio ardire un numero impressionante di “mi piace” tale da farmi prendere in esame l’idea di entrare in politica e candidarmi come premier alla guida del movimento 5 pollici alzati, tra l’altro con un effetto long seller che continua ancora oggi settimane dopo la pubblicazione.
Credo di avere inavvertitamente sbottigliato due elementi.
Primo: non se ne può più di questi moralizzatori da Facebook che non capiscono un acca di ciò di cui si sta parlando, non capiscono le persone e non le conoscono, confondono domande retoriche con quesiti esistenziali rivolti a loro direttamente (vedi post sul tema) e rispondono con la sicumera di chi si attende di vedersi assegnare di lì a poco per acclamazione popolare il Nobel in Tuttologia comparata per il bene dell’umanità.
Secondo: non se ne può neanche più degli eccessi. Se è vero che la famiglia va sostenuta e privilegiata è anche vero che non può essere un buco nero che attrae e devasta le vite personali per triturarle in un ciccino-ciccina che sputacchia fuori l’amore in tempi rapidissimi.
Ciò detto senza offesa alcuna per la persona in questione, della quale non ricordo né nome né icona: come sempre mi preme risalire dal particolare al generale, dal caso alla radice perché convien parlare di macrotemi più che lanciar anatemi al singolo.

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