Quando i cinquant’anni sono stati raggiunti e superati con la velocità del suono di una sirena arrabbiata, tre sono le possibilità che rimangono all’uomo che non vuole rimanere ad attendere l’impatto indifeso e inconsapevole: farsi l’amante, farsi una macchina rossa, scrivere un blog. Dato che mi state leggendo (davvero? Mi state davvero leggendo?) avete compreso che ho scartato le prime due ipotesi. E per scelta volontaria e creduta, non certo forzata.

Ma che cosa e perché scrivere? Condividere, o l’illusione di farlo, aiuta spesso a sentirsi in compagnia di fronte alla piccole battaglie della vita: quelle grandi, si sa, le si può affrontare solo in compagnia di se stessi, senza nessuno scudiero o cavaliere al proprio fianco.

La prima delle sfide e quella che affettuosamente potremmo definire di san Giuseppe, che di fatto nomino mio speciale e personale protettore confidando sulla sua ironia e bonomia. In che cosa consiste questa sindrome? Nel sentirsi ovviamente il più imperfetto della famiglia dovendone invece apparire la guida salda. Non che con questo voglia affidarmi a una melliflua umiltà fasulla, l’autocompiacimento di sentirsi negare la denigrazione e gustare così una vanitosa ricompensa per la propria maliziosa modestia. Affatto. Lauto compiacimento può derivare solo dalla concretezza. Non che non sia vanitoso, tutt’altro: la vanità è sempre in agguato, come ben sa il diavolo impersonato da Al Pacino nel mondo degli avvocati.
Gli è che essendo proprio vanitoso e anche intelligente, so bene che l’ambizioso deve attingere a piene mani all’umiltà: per crescere, ambizione che può essere anche nobile e saggia, bisogna capire dove migliorare. E per capirlo non c’è che l’umiltà.
L’ambizioso vanesio e superbo farà una brutta e rapida fine.

Quindi qui sto: con una moglie tendente alla perfezione, pur con difetti marginali che provocano in me tanto irritazioni quanto ammirazione per la loro trascurabile banalità; con tre figli che, come recitano brutti film, hanno preso maggiormente da me i difetti, e quindi non posso accusarli di una eredità che ho trasmesso loro; con un lavoro che amo e che ogni mese mi sfida sempre di più, aiutandomi a non fare mai mia la sicurezza.
Di che scrivere dunque?

Della precarietà, della inadeguatezza che mi rende comico a me stesso, specchio delle cose che ho appreso e che rivedo, con squarciante veridicità, nel mio quotidiano.

venerdì 12 aprile 2013

In bicicletta a BAires

E poi attraversarla in bicicletta… piena di piste ciclabili e di servizi per i ciclisti, come il deposito custodito a vista da un arcigno e gentile poliziotto che ti chiede il passaporto per depositare e riprendere la bici dandoti quella sicurezza che altrove la città sembra volerti negare.
Vedi i quartieri che si sfarinano e mutano: la Recoleta che si vuole quello della borghesia e che sembra certe zone bene di Roma e Milano, con case sobrie e borghesi, molto anni Sessanta e piccoli parchi ordinati e abitati da gente per bene, quelli che la mamma ti avrebbe indicato a dito per dirti ecco così devi essere.
Poi piombi in zone in cui l’olezzo costringe ad accelerare la pedalata perché non lo riesci proprio a tollerare quell’odore marcio, dolciastro.
I giardini e i mercati e il cimitero in collina dove c’è la coda per vedere la tomba di Evita, segno di un’epoca così bella che no, non doveva morire e poi così giovane. Che ci ha tolto la speranza. E ancora oggi facciamo fatica a ritrovarla.
E infine l’acqua, che di fiume o mare non si può parlare dato che sono canali e bacini, che separano Puerto Madeiro da San Telmo, il quartiere che più vecchio non si può e più ricco di sogni forse già infranti.

I viali assolati e spaziosi del porto trasudano ricchezza e gioia, magari fasulla ma coinvolgente.  Senti il tango che ti fa ballare e lo vedi negli occhi dei giovani che senza paura per il futuro spingono carrozzine a manciate e camminano contornati da bambini piccoli sorridenti, e hanno l’età che qui stanno decidendo ancora se fare il master o no e al massimo su Facebook scrivono impegnati.

martedì 9 aprile 2013

I viali di BAires




Sta nei suoi viali Buenos Aires, che la sezionano senza mai cambiare nome, con un vezzo tutto americano come se queste strade lunghe chilometri fossero garanzia di libertà e speranza senza fine, come una lunga vita da percorrere col sorriso e il sole in fronte, alteri, giovani, traboccanti speranza.
E in questa avenida, che porta tre nomi perché così larga da avere quattro sezioni e diciotto corsie, e quella centrale è una data, il 9 di luglio che a noi, italiani, dice poco così come direbbe poco il 22 marzo a un argentino.
In mezzo sta l’obelisco, sembra confuso e presuntuoso, separa, mescola, ma non trattiene se non pochi  che lo prendono per il simbolo della città, ma Tour Eiffel e Colosseo sono ben altra cosa.
Poi la plaza de Mayo, circondata da questi palazzi ben intagliati e rigidi, come soldati di sentinella, e il rosa della Casa non smorza questo rigore che parla una menzogna alla quale tutti vogliono credere. Ma la gente sorride, spera, supera tutto.
Tutti italiani, dicono: almeno un bisnonno lo trovano. Che ti viene da dire ma se non ci fosse stata l’immigrazione che cosa sarebbe ogg l’Argentina?
Parla come un fiume in piena l’ultimo tassista, che si dice figlio di cosentino di cui porta il nome (Macrì), e mescola calcio

 a politica, la pioggia al futuro, e cantilena uno spagnolo che sa di portoghese senza rendersi conto che noi ne capiamo solo schegge, come quando dice che i grandi campioni di calcio possono essere solo sudamericani perché nel gioco mettono il sole e la poesia, mentre noi in Europa ordine e tecnica.
E poi attraversarla in bicicletta…




domenica 7 aprile 2013

Buenos Aires l'inizio



Più viaggi più scopri che il viaggio in fin dei conti è un pretesto per andare alla scoperta di te stesso. Che viaggiare non fa che rivelare cose di te, dei tuoi ricordi. Ed ogni città nuova potrà anche essere una città per cantare, ma è soprattutto una città per ricordare e confrontare. Perché siamo fatti così noi uomini: paragoniamo, connettiamo, cerchiamo legami. E sono tutti con l’anima.
Me ne sono reso conto con solare evidenza in quest’ultima vacanza trascorsa con Franca a Buenos Aires. E già con questo affermo che non c’è vero viaggio se non con lei, che quando mi capita di girare da solo per lavoro, comunque lei me la porto dietro e me la tengo vicino (nel cuore dire se non fossi banale e baciopreuginoso... ma esistono altre parole per dirlo? Non le conosco) perché non posso pensare di non condividere con lei anche questo della vita. Che tutto il resto è insieme. Grazie a Dio.
Passeggiavamo per i quartieri, o li percorrevamo in bici o ancora li attraversavamo in taxi e affioravano spezzoni di città già viste, e più forti ancora le memorie, che come madeleines proustiane, riconducevano indietro nel tempo in un viaggio che si spalma nell’anima. Questo ricorda Soho e Tribeca e Nolita e quella parte calma e intima di Manhattan che placa i sogni e li rilancia, ma dolci e insieme. Questa i quartieri duri di Tel Aviv e quelli di Shangai dove la gente sopravvive lottando con rabbia e dolore. E forse il dolore era mio e non loro così come la rabbia. Che noi proiettiamo su ciò che viviamo e vediamo  quello che abbiamo dentro e intorno e così i colori si accendono o spengono con il cuore e non con il sole. 
Non è certo il posto dove vorresti viverci senza più fuggire Buenos Aires: non è la GrandeMela, ma neanche Frisco o Aruba che da lì sì non ti muoveresti mai. Come da Milano, che ci sei nato e che comunque t'è rimasta dentro, che ogni angolo ormai è un libro di storia personale e qui rivedi tua madre, e là la tua adolescenza. Perché ogni storia ti entra dentro ma ha bisogno di un palcoscenico e di un ambiente dove squadernarsi.

Ma BAires è una città che ha fascino e lo dispensa senza avarizia. Stavamo a Palermo, un barrio in rinascita, dove torri eleganti e pretenziose si alternano, ma divorandole, a casette cadenti e quasi fatiscenti ma piene di dignità e orgoglio. Un quartiere dove ti senti di casa, che restituisce una dimensione da anni Sessanta quando l’estate la sera si giocava per le strade e il massimo della trasgressione era andare a sedersi al chiosco di angurie per magiarne una fetta in compagnia. Gli angoli si accendono di ristoranti o negozietti che vendono generi alimentari, e la gente non fa paura.


Sembra rinchiuso questo barrio -che qui chiamano Soho per sognare di essere nell’altra America- tra quattro strade che ne tagliano i confini con violenza, secche come frontiere, come il Checkpoint Charlie che nega un mondo per dettarne uno completamente diverso con un solo tratto di penna sull'atlante e di sangue sull'asfalto.  est, verso quel mare -che in realtà è fiume- che la città non mostra mai, come se lo rifiutasse, Palermo sfocia in piazza Italia e nei parchi ambiziosi che hanno accolto la mia corsa mattutina. E che amarezza nel correre fresco e presuntuoso e incrociare i visi sfatti e forse fatti di ragazzi che chiudevano la notte, una gabbia nella quale si erano dati via, regalati a chissà chi e che cosa, e che ora barcollando gli uni, baldanzosi gli altri, fuggivano per rientrare nella vita o nei suoi brandelli che portavano ancora addosso.
Sta nei suoi viali Buenos Aires, che percorreremo la prossima volta, in settimana. Come si dice... stay tuned fino a martedì! 

giovedì 4 aprile 2013

Una città da correre







Ho corso in molte città: è un modo di possederla e sentirla un po’ tua.
Mica maratone, non arrivo a 10 chilometri di fila, ma ne bastano 5-6 per regalarti quel sentimento di esserne diventato complice, intimo. Perché quando corri tutto sembra più lieve e intenso. E gli sguardi si fanno morbidi.
Ho corso nel Central Park ed è stato come sentirti piccolo tra i giganti, che bastava alzare lo sguardo per non trovare il cielo ma gli sguardi seri dei grattacieli.
Ho corso lungo il Potomac a Washington, come un eroe che tornava a raccontare le vittorie a casa.
Ho corso a Boston dentro il parco nei giorni in cui stava per celebrarsi la maratona e ho rubato l’ammirazione di chi mi ha confuso con uno dei partecipanti.
Ho corso a Toronto, in una fredda Pasqua che sembrava negare la primavera e la speranza.
Non ho corso a Philadelphia, e averi voluto farlo su per quella scalinata dove sembra sempre di sentire Gonna Fly Now.
Ho corso a Houston, chiuso nel fresco della palestra dell’hotel e a New York al cinquantasettesimo piano quando era troppo freddo per scendere al Central Park, così come a Chicago e a Modena.
Ho corso tra le ville di Beverly Hills immaginando di vedere da un momento all’altro spuntare fuori da una villa Brad e Angelina. Non ho corso a Santa Monica e me ne cruccio ancora.
Ho corso sulla sabbia a Miami Beach, e lungo Ocean drive, dove tutto sembra fatto per dissipare la tristezza e confondere la noia, ma anche il candore. E poi ad Aruba e a Grenada dove la battigia regala tepore e speranza. Ho corso a Buenos Aires sotto un cielo rovente d’autunno che significava riposo e rilancio. Ho corso a Tel Aviv sul lungomare in un gennaio che minacciava un anno di dolore, a ha mantenuto la promessa.
Ho corso e correrò perché tutto è metafora e tutto è vita e solo quando stai da solo con i tuoi pensieri e le tue preghiere riesci a scacciare anche i più aggressivi fantasmi.

martedì 26 marzo 2013

Contro il commento di scambio



Lo so: farò male. Nel doppio senso che sbaglierò e ferirò. Ma ci vuole, perché anche con orgoglio, ma voglio chiarire, distinguere. Perché so che cosa sono, che cosa voglio. Ho l’animo ben squadrato.

È successo che ho ripubblicato la mia avvelenata, lo sfogo contro me stesso più che contro il mondo, la di a leggere i segnali che mi vengono regalati tra le righe per crescere.
Uno dei punti era sui commenti ai blog. E ha prodotto questo interessante scambio che uso come strumento per raccontare come la vedo.
In corsivo i commenti ricevuti da una persona cara e attenta e gentile, per distinguerli dalle mie parole.


Chi ha tanti commenti è perché, a sua volta, ne lascia tanti in giro.La pubblicità è l'anima del commercio, lo sai. Se non ti fai conoscere, nessuno sa che scrivi su queste pagine e, se non ricambi i commenti, i blogger smettono di farlo anche con te. Regola dell' "Occhio per occhio, dente per dente!" Dopo nove anni che sono sul blog, almeno questo l'ho capito.

C'è un altro modo per vedere questo argomento. Onestamente di commenti così, come contraccambio, perché ci si faccia coraggio a vicenda, non me ne faccio nulla. Sono scambi di cortesia. Non mi interessano. Non mi interessa girovagare per blog che raccontano vicende personali come il mio, disseminare commenti per averne in contraccambio. Occhio per occhio dici? Non mi interessa.
Non cerco il "ciao, come sei bravi, che belle cose scrivi" perchè così poi vado a leggere e commentare il suo blog. Leggo i blog che mi interessano, che mi danno qualche cosa. Che mi fanno sognare. Che raccontano storie che mi piacciono. Non ho tempo da perdere per lasciare commenti in diari che farebbero meglio a restare nel cassetto per averne in contraccambio un click in più, un commento in più.
Non cerco questo. E non è così che secondo me trovi visibilità.
A essere sincero con questo blog, che è davvero un diario personale, e che conta circa 70-80 contatti a post... va bene così. Questa è la mia valvola di sfogo.
I commenti mi interessano sul blog professionale, quello del marketing ad esempio, di di contatti nel fa 15.000 al mese, che vuol dire oltre 800 a post (che faccio? visito 800 blog, ammesso che ce li abbiano per dire "grazie, che bel blog!"?). Quello che promuovo con Twitter, FB, e altri mezzi. Quello che propone idee professionali e chiede pareri.
Lì avrei piacere ad avere commenti.
Perché quello è valore aggiunto: l'occhio per occhio dente per dente lì non conta.
Lì conta la voglia di dire la propria. Di dare un contributo.


I blog professionali sono una cosa diversa. Sono utili, pertanto sono letti da molti, che possono trarne insegnamento.
I blog "diari" sono visti invece come salotti personali dove si ricevono gli amici. Oggi da me, domani da te, come si fa nella vita reale. Io ho notato che, quando ho smesso di frequentare alcuni blog, semplicemente perchè non sapevo cosa commentare, i loro proprietari non sono più venuti da me e ricordo anche di aver letto qui qualche lamentela di blogger che si sentivano "abbandonati" perchè commentavano sempre da te e tu mai da loro.
Mi è capitato anche di conoscere realmente una blogger, che è venuta a trovarmi a casa mia. Mi ha poi invitata a casa sua, ma nel frattempo mio padre si è ammalato, mia madre ha contratto l'Alzheimer ed io non sono più stata libera. L'ho invitata altre volte, spiegando che mi è difficile muovermi ed in fondo non è importante che ogni visita sia contraccambiata, ma lei sembra essersela presa e non è mai più venuta, pur continuando ad invitarmi a casa sua.Nemmeno sul mio blog commenta più, anche se magari lo legge.
Insomma, questa è l'esperienza che ho avuto io e te ne ho reso partecipe, poi puoi prenderla come vuoi. Non sempre i casi sono uguali.

Il tuo approfondimento non fa che
confermi nella mia risoluzione. Gli amici me li scelgo con cura e con affetto e non per scambio merci
o commento di scambio. Non scrivo per raccontare della gita al mare con le amiche o di come mi sento
triste perché mi hanno maltrattato al lavoro, se mi è scappato il cane o se ho litigato con la moglie. Trovo anche un po' sconcertanti questi diari pubblici, così pieni 
di solitudine e di povertà interiore: questo mettere in mezzo alla piazza, anche in forma anonima, soprattutto
le proprie ombre come se così le si esorcizzasse. 
Non è quello che, credo, faccio: a me piace scrivere, non condividere un diario. Io scrivo perché ho la presunzione,
la medesima di ogni scrittore, di stimolare il pensiero, di pungolare l'anima, di indurre alla riflessione e all'emotività.
E a questa ne aggiungo un'altra: quella di scrivere bene. 
I modelli a cui mi ispiro sono i blog di Costanza Miriano (10.000 visite al giorno) di Claudia de Lillo (forse anche di più)
quelli dove chi scrive condividerà anche pensieri intimi e situazioni vere, ma -per dirla con Baricco- con lo sguardo del giovane
Holden, per andare oltre, per indicare la luna. C'è chi si ferma a vedere il dito, va bene, fa parte dei rischi dello scrivere.
Ma non vorrei essere in nessun modo quello che descrive il dito e lo racconta.
Per cui mi spiace se qualcuno si possa sentire tradito perché non ricambio le visite. E la smetta di leggermi.
Meglio così.  Vuol dire che alla fine non era interessato a ciò che scrivevo ma a cercare un po' di compagnia
e quella non posso dargliela. Forse non voglio, ma di sicuro non posso.
Poi peccherò di arroganza? di presunzione? di orgoglio? Può essere, anzi lo è di sicuro.
Pazienza. Correggerò e migliorerò. 
Ma questa è tutta un'altra storia.

venerdì 22 marzo 2013

L'avvelenata




Semel in anno licet insanire scriveva Seneca, e sant’Agostino lo ribadiva (Tolerabile est semel anno insanire, Civ. Dei VI, 10) nel caso non l’avessimo capito.

E allora pazziamo! 

Sediamoci sul trono dell’invettiva per svuotare il catetere dell’anima, con l’afrore di parole stagnanti, di voci sedate troppo a lungo, lanciamo -come Guccini- la nostra Avvelenata, verghiamo come parole aspre e chiocce la mia versione dell’insulto cantato da Fortis, dalla quale è stato tolto il pungiglione, annacquata la tossina, rivolta verso di me la pistola.

Io vi odio d’invidia mamme blogger che venite inseguite da editori famelici che vi strappano dalle mani brani di racconti per farne best seller, mentre ignorano le mie pagine virtuali, calpestandone lo sforzo e l’onore e schizzandomi con il fango sollevato da una vettura sdegnosa che ti passa troppo vicino. Detesto il vostro successo, l’umiltà delle vostre confessioni, la brillantezza dei vostri post. E detesto la mia invidia, che mi deride e trascina come il prigioniero di guerra, sconfitto e umiliato.

Ne ho le tasche piene di tardo adolescenti che sfoggiano fidanzate alla soglia dei cinquanta, quando dovrebbero tenere in braccio nipotini, e danno un esempio volgare e violento a quei giovani intimando loro di non crescere.

Non sopporto più queste donne, ferite da uomini che si son pur scelte, abbandonate da scellerati che non hanno saputo né pre-giudicare né cambiare, devastate da relazioni che hanno subito, quando si lamentano che gli uomini non sanno fare nulla, sono egoisti, e incompetenti e dovrebbero essere educati. Si rivolgano ad altre donne, che li hanno cresciuti bamboccioni, che li hanno affogati di coccole per il terrore di perderli e li hanno poi dispersi nell’aria irresponsabili e vanitosi, immaturi e dipendenti, con lo scopo di tenerli sempre legati a loro, passando sopra le altre donne della loro vita. Sì avete ferite che non meritate, siete state tradite da uomini che non meritano questo appellativo, siete state lasciate a combattere da sole e ad educare figli in affranta solitudine. Non commettete la meschinità maschile di attribuire tutta la colpa all’altro sesso: cercate la vera causa di tutto questo dolore e combattetela insieme ai quei maschi che possono essere chiamati signori.

Non ne posso più di titoli sguaiati di giornali che sanno solo gridare, senza nemmeno capire perché o come, lanciatori di sassi che nascondono subito la mano, rovistatori di immondizie che pretendono di avere mani pulite, costruttori di menzogne purché si ottenga il risultato che vogliono, incapaci di capire non la verità in sé, ma la sua sola esistenza. Mi avete stancato con le vostre polemiche, con la vostra presunzione di denuncia, che si ferma sempre solo dove volete voi senza mai affrontare la radice, perché se alla radice andaste sarebbe il vostro cuore!

Io vi odio disseminatori di odio, promulgatori di una falsa tolleranza che è cancellazione della differenza, omogeneizzazione delle idee, devastazione della speranza, sterminio della libertà. Vi odio perché non sono capace di amarvi, ma ci sto provando, perché quella è l’unica arma che può dissolvere la tenebra che ospitate per ritrovare dietro una mormorosa ombra il sole caldo.

Maledetti voi, che avete successo con onestà e il sudore della fronte che a maledire mascalzoni e farabutti ci pensano già tutti), perché non riuscendo a seguire il vostro esempio e non volendo percorrere altre strade, non posso nemmeno inviarvi e non mi resta che guardarmi dentro e vedere l’abisso della sconfitta, che fa più male di quello che dovrebbe e che mi incatena ad un futuro di lotta.

Guai a voi, che passeggiate vacui per strade e webpage del mondo, senza capire il senso della vita, perché non riesco a pregare per tutti e questa debolezza mi fragilisce ancora di più.

Siate inceneriti voi amici blogger cattolici che con leggerezza tracciate saggezza su strade che a me restano sbarrate e con tre tratti di penna e pochi caratteri spalancate l'abisso dell'animo con tale specchiata lucidità da ammutolire e indurre al pianto commiserato. E attirate stormi di commenti entusiastici (anche quando negano e violentano il pensiero peché ne svelano l'importanza) mentre io per strapparne uno alla rete lo devo sudare. Quanta invidia scatenate dentro questo cuore che soffre di tutte e tre le concupiscenze giovannee.

Bastarde aspirazioni, ed idee e interessi, che mi aggredite non appena volgo il pensiero, e mi costringere a prestarvi ascolto, mi tormentate finché non vi scrivo nel cuore, mi inseguite senza lasciarmi respiro, che ormai o capito che siete voi la mia croce, idee che non diverranno mai realtà, folle scatenate ed urlanti, che mi assaltate come il forno delle grucce, malvissuti sogni, che non mi lasciate mai, perché mi fate toccare con mano la friabilità di questo pensiero, e della mia intera esistenza, quando cerco di dimenticare il fondamento, la roccia solida sulla quale costruire, che sola sa dare pace al cuore.

E su questa roccia ora mi chino a riposare, svuotata la sacca e distillato il cuore.

domenica 17 marzo 2013

Logica l'è morta gridiamo a tutta forza




Ci siamo giocati da tempo l’ortografia, grammatica e consecutio ci hanno lasciato anche loro, e la logica sta tirando le cuoia. Poi non resterà che la pancia. Per giunta vuota. Ma che sorride: perché vuoi mettere come si sta meglio quando la pancia sorride grazie ad uno yogurt? 

Se la rete è specchio della società, e del meglio di questa 
– almeno così afferma l’equazione di stile Zuckenberghiano che afferma che  progresso e cultura siano determinati dall'uso di Internet, che peraltro oso mettere in discussione- siamo messi molto male. 

Sebbene alcuni cavalcano la tigre delle fallacie logiche applicando con rigore una critica del sillogismo a tutto ciò che non aggrada loro, ciò che mi preoccupa di più è la scomparsa della capacità di riflettere. E mai termine fu mai più adatto poiché spesso non ci si rende conto di negare nel proprio assunto ciò che si sta affermando. E se invece esiste consapevolezza, allora siamo in presenza di malafede. 

Turba perciò, prima la logica e l’estetica che l’etica stessa, leggere affermazioni quali “quelli che odiano e che predicano la violenza non sono degni di vivere: li metterei al muro”, che potrebbero far sorridere solo se fossero un ironico tentativo di commettere suicidio. E che ricordano, ma senza la sagacia e la provocazione, le vecchie affermazioni paradossali come "Afferma Tullio il cretese che tutti i cretesi mentono". 

Eppure queste follie razionali si moltiplicano, specie in questo post atomico elettorale. Che i delusi del voto tendano non solo ad indignarsi contro tutti coloro che non hanno seguito le loro indicazioni, così intelligenti, posso solo comprenderlo, anche se mi sembra lo fogo di una frustrazione che ha radici in una presunta superiorità antropologica.
Ma che lo facciano negando le basi del ragionamento sillogistico,  provoca pericolosi sussulti anche a me oltre che al buon Aristotele.

Ecco alcuni esempi per i quali non è importante il contenuto, ma solo la struttura del pensiero, che si auto-nega, mostrando solo una profonda ignoranza pari alla presunzione e alla arroganza di chi vuole costringere schiaffeggiando gli altri. Ti picchio e poi ti accuso di volermi picchiare insomma.

Capita così di sentirsi apostrofare che “Dio non esiste, e se anche esistesse non sarebbe certo quello che tu affermi”, affermazione peraltro legittima (e liberamente ispirata da fatti veramente accadutimi in rete) am anche un po' apodittica e perentortia, 
Anche questi aggettivi leciti, non fosse che all’incauto che ribadisce le proprie posizione, si replica con perentorietà: “io dialogo con tutti i cattolici tranne quelli ottusi che pretendono di avere la verità”.  Frase che decodificata vuol dire che dialogo con tutti quei cattolici che  sono così pavidi e annacquati da non avere il coraggio di difendere il core message del fondatore: “io sono la via, la verità e la vita”, fuori da me non c’è verità.

Peraltro chiunque fa una affermazione, fosse anche 2+2=4 o mi piace la pasta al pomodoro generalmente tende a possedere quella verità, e se afferma qualche cosa che imponga e si basi su una fede dovrebbe appunto crederci, quindi presumere di avere la verità vera in mano.

Altrimenti potrebbe fare sua quella famosa battuta di Woody Allen
Credo in Dio? Non proprio. Diciamo che lo stimo”.

Ma non son qui per parlare di fede, quanto per mostrare terrorizzato stupore per questa continua dissacrante incapacità di superare il luogo comune, la frase ben detta, per coglierne –forse spremerne- il senso. Così provo sdegno e angoscia di fronte a chi per ragioni politiche twitta “non solo le loro idee a farmi paura, ma le facce di chi le rappresenta”, che potrebbe essere una arguta affermazione, non fosse che chi l’ha rilanciata si dichiara cattolico, cioè fedele di quella religione che suole affermare che bisogna perseguire l’errore e non l’errante, che Cristo ha sparso il proprio sangue per tutti –belli e brutti,  eleganti e cafoni- e che non ci è consentito giudicare persone ma solo fatti. Vale a dire che quindi dovremmo affermare “non mi spaventano le loro facce, dato che devo amare ciascuno come fratellio, quanto aborro le idee che proclamano”.

Invito caldamente quindi ad un rinnovato impegno in difesa delle regole di base della lingua, della grammatica, della logica. Temo peraltro che quel terrore  che si spalancava negli occhi fumiganti di Nanni Moretti quando schiaffeggiava la giornalista sciacquetta in Palombella Rossa fosse giustificato. “Le parole sono importanti” urlava, poiché è con esse che formuliamo i pensieri. L’aver sfarinato la lingua, sostituendola con il linguaggio di quelli che definiscono –absit injuria verbis- bimbiminkia kostruito kn sigle abrvzn tvtb disegnini <3 e minacce kk kzz vuoi? abbia finito per ridurci a bruti incapaci di seguir virtude e conoscenza?