Quando i cinquant’anni sono stati raggiunti e superati con la velocità del suono di una sirena arrabbiata, tre sono le possibilità che rimangono all’uomo che non vuole rimanere ad attendere l’impatto indifeso e inconsapevole: farsi l’amante, farsi una macchina rossa, scrivere un blog. Dato che mi state leggendo (davvero? Mi state davvero leggendo?) avete compreso che ho scartato le prime due ipotesi. E per scelta volontaria e creduta, non certo forzata.

Ma che cosa e perché scrivere? Condividere, o l’illusione di farlo, aiuta spesso a sentirsi in compagnia di fronte alla piccole battaglie della vita: quelle grandi, si sa, le si può affrontare solo in compagnia di se stessi, senza nessuno scudiero o cavaliere al proprio fianco.

La prima delle sfide e quella che affettuosamente potremmo definire di san Giuseppe, che di fatto nomino mio speciale e personale protettore confidando sulla sua ironia e bonomia. In che cosa consiste questa sindrome? Nel sentirsi ovviamente il più imperfetto della famiglia dovendone invece apparire la guida salda. Non che con questo voglia affidarmi a una melliflua umiltà fasulla, l’autocompiacimento di sentirsi negare la denigrazione e gustare così una vanitosa ricompensa per la propria maliziosa modestia. Affatto. Lauto compiacimento può derivare solo dalla concretezza. Non che non sia vanitoso, tutt’altro: la vanità è sempre in agguato, come ben sa il diavolo impersonato da Al Pacino nel mondo degli avvocati.
Gli è che essendo proprio vanitoso e anche intelligente, so bene che l’ambizioso deve attingere a piene mani all’umiltà: per crescere, ambizione che può essere anche nobile e saggia, bisogna capire dove migliorare. E per capirlo non c’è che l’umiltà.
L’ambizioso vanesio e superbo farà una brutta e rapida fine.

Quindi qui sto: con una moglie tendente alla perfezione, pur con difetti marginali che provocano in me tanto irritazioni quanto ammirazione per la loro trascurabile banalità; con tre figli che, come recitano brutti film, hanno preso maggiormente da me i difetti, e quindi non posso accusarli di una eredità che ho trasmesso loro; con un lavoro che amo e che ogni mese mi sfida sempre di più, aiutandomi a non fare mai mia la sicurezza.
Di che scrivere dunque?

Della precarietà, della inadeguatezza che mi rende comico a me stesso, specchio delle cose che ho appreso e che rivedo, con squarciante veridicità, nel mio quotidiano.

sabato 2 giugno 2012

L'unico sopravvissuto





Sono un sopravvissuto: ogni tanto questo pensiero mi prende alla gola e mi strozza dentro sensazioni che disegnano uno spettro di pensieri, spesso violenti e sanguinosi, che non so come ordinare, né se meritano ordine alcuno.
Sì perché questa cosa me la porto dentro da troppo tempo e devo esporla all’aria perché evapori trascinando con sé preghiere e sofferenza.
Sono primogenito, e sopravvissuto ad almeno due o tre fratelli che sono stati sacrificati per me. Uccisi, soppressi, inceneriti nelle loro potenzialità da un amore egoista che riversava tutto sul figlio unico che doveva essere elevato a divinità del focolare e sbocciare come una fontana o uno squillo di tromba in un cielo nudo e abbagliante.
Eccomi qui, eccolo l’urlo della tromba, il fuoco artificiale che sfida il sole, la striscia che pian piano svanisce, il fiore che reclina il capo e si avviluppa.
Perché al dolore, alla privazione di fratelli che mi avrebbero regalato profondità e coraggio, s’assomma il terrore: se non fossi stato io il primo?
Così quando il mondo sembra implodere imprigionandoti dentro una lattina spremuta, in quei momenti –perché ci sono, oh sì se ci sono, anche solo in nuce mentre lotti- in cui tutto è acciaio, ghiaccio, coltello, vetro spezzato, sangue e sofferenza, soprattutto cieca disperazione, in quei momenti ti chiedi per quale ragione proprio io, di quei rivoli usciti dalle radice, proprio io sono stato ammesso a scorrere, a rotolare a valle del mondo.
Ed è un dolore che s’asciuga e si risolve solo in uno slancio di preghiera senza controllo, nuda, secca, che saprà poi ben coprirla, darle senso e indirizzarla quella Madre che sa leggere dentro in cuori.

2 commenti:

  1. Nulla da dire,se non che ognuno di noi porta a volte fardelli troppo pesanti per le proprie spalle ed è bene metterli nelle mani di un Altro,come tu del resto già fai.
    Da oggi sei nelle mie preghiere e i quelle dei miei bimbi.
    Velenia

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